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Avviso agli studenti / 2

di Raoul Vaneigem

FARLA FINITA CON L’EDUCAZIONE CARCERARIA E LA CASTRAZIONE DEL DESIDERIO

Ancora ieri istillato fin dalla più tenera infanzia, il sentimento di colpa erigeva intorno a ciascuno la più sicura delle prigioni, quella in cui sono murati i desideri. Per interi millenni, l’idea di una natura sfruttabile e soggetta a servitù a piacere ha condannato al peccato, al rimorso, alla penitenza, alla rimozione amara e allo sfogo compulsivo la semplice inclinazione a godere di tutti i piaceri della vita

Quale dovrebbe essere la preoccupazione essenziale dell’insegnamento? Aiutare il fanciullo nel suo approccio alla vita per fargli imparare a sapere ciò che vuole e volere ciò che sa; cioè a soddisfare i suoi desideri, non nella soddisfazione animale ma secondo gli affinamenti della coscienza umana.

Si è prodotto l’opposto. L’apprendimento si è fondato sulla repressione dei desideri. Si è rivestito il fanciullo di abiti angelici sotto i quali non ha mai smesso di fare la bestia, una bestia snaturata per di più. Come stupirsi che le scuole imitino così bene, nella loro concezione architettonica e mentale, i penitenziari dove i reprobi sono esiliati dalle gioie ordinarie dell’esistenza?

 

Gli antichi edifici scolastici ricordano i penitenziari. Le finestre poste in alto non permettevano allo sguardo dell’allievo che un’occhiata verso il cielo, unico spazio riservato alla felicità delle anime, se non dei corpi. Perché il corpo, immobilizzato su un banco di studio presto trasformato in banco di tortura, subiva nell’imbarazzo ordinario il suo destino terrestre.

Prevaleva allora l’opinione che per istruirsi (come per essere belli) bisognava imparare a soffrire. Entrare nell’età adulta, non era forse rinunciare ai piaceri dell’infanzia per progredire in una valle di lacrime, di decrepitezza, di morte?

I pedagoghi hanno sempre affermato che la disciplina e il mantenimento dell’ordine formavano la conditio sine qua non di tutta l’educazione. Oggi percepiamo meglio fino a che punto la loro pretesa scienza discendeva di fatto da una comunissima pratica repressiva: incoraggiare il disprezzo di sé e vessare gli “appetiti carnali” allo scopo di elevare l’uomo al settimo cielo dello spirito strappandolo alla materia terrestre.

Una volta declassato il corpo allo stato di oggetto e, nel caso specifico, di materiale scolastico, l’istruttore trovava ancor più facile far entrare nel cranio dello studente delle nozioni rispettabili e rispettose dell’autorità. Sollecitare l’intelligenza astratta e la ragione “obiettiva” contribuiva a nascondere quell’intelligenza sensibile e sensuale incastrata ai desideri, quella piccola luce del cuore che si accende quando il fanciullo, ritrovandosi solo con se stesso, si pone la domanda: tutte queste conoscenze, assestate con la forza e la minaccia, quanto mi aiuteranno a sentirmi bene nella mia pelle, a vivere più felice, a diventare ciò che sono?

I metodi educativi hanno rinunciato alle punizioni corporali all’epoca in cui lo schiaffo e il calcio nel culo hanno smesso di costituire l’essenziale di un’educazione familiare che, a detta dei torturatori, aveva sempre dato prova di sé.

Eccome!

Questo non significa tuttavia che il corpo sfugga ormai alle vessazioni, alla mortificazione, al disprezzo. I sensi non sono forse posti sotto alta sorveglianza durante le ore di studio e nello spazio che è loro riservato? L’occhio ha il dovere di incollarsi ai gesti del maestro. La bocca non si aprirà che all’invito del mentore, e guai a ciò che oserà profferire! Risposte sbagliate, proposizioni scandalose suscitano la bastonata, il rabbuffo, la presa in giro, l’umiliazione; mentre la parola pertinente o servile si attira la lode che il bilancio promozionale di fine anno si incaricherà di contabilizzare. La mano, infine, si leverà con educazione per sollecitare l’attenzione del pedante, con il rischio, fino a poco tempo fa, di farsi battere sulle dita con la regola del retto buon senso.

Ci si accorge, con la distanza del tempo, che studenti e studentesse sono stati trattati secondo i procedimenti dello scienziato staliniano Pavlov che, tra i cani del suo laboratorio, ricompensava la buona risposta con uno zuccherino e puniva l’errore con un choc elettrico. Non fu forse necessario che il disprezzo fosse la norma di un’epoca perché dei pedagoghi preconizzassero un metodo educativo che nessun essere umano degno di questo nome infliggerebbe oggi a un cane? Ed è poi così sicuro che la scuola non resti, nella vigliaccheria di un consenso generale, un luogo di ammaestramento e di condizionamento, al quale la cultura serve da pretesto e l’economia da realtà?

 

Come può esserci conoscenza dove c’è oppressione?

 

Mantenute dalla paura di muoversi in una prigione di muscoli tetanizzati, le emozioni rimosse instaurano tra l’oppressore e l’oppresso una logica di distruzione e di autodistruzione che spezza ogni forma di comunicazione illuminata.

Alle stupide pretese del maestro di regnare tirannicamente sulla classe rispondono con eguale stupidità il baccano e il chiasso che servono da sfogo alle energie represse.

Ovunque la prigione, il ghetto, la corazza caratteriale impongono la loro strategia di clausura, lo slancio della disperazione leva il pugno del devastatore. La mano dello scolaro si vendica mutilando tavoli e sedie, macchiando i muri di segni insolenti, strappando gli orpelli della bruttezza, sacralizzando un vandalismo in cui la rabbia di distruggere compensa il sentimento di essere distrutti, violentati, messi a sacco dalla trappola pedagogica quotidiana.

Le bocche si aprono in grida stizzose di protesta, gli occhi attingono nella sfida il bagliore di entusiamo che è loro rifiutato. Così i movimenti di contestazione periodicamente risvegliati dalle direttive di istanze burocratiche e governative scadono – per assenza di creatività – nello stesso grigiore e nella stessa stupidità del potere inconsistente che li ha provocati. Che ci si può aspettare da manifestazioni gregarie in cui l’intelligenza degli individui, in mancanza di un progetto di cambiamento radicale, si riduce, secondo il comun denominatore delle folle, al più basso livello di comprensione?

Per evitare l’esplosione dei desideri rimossi alla rinfusa, le autorità hanno saputo approntare sacche di decompressione e di trasgressioni controllate. Il lassismo non è il soffio della libertà, è il fiato della tirannia.

Il cortile di ricreazione previsto in prigioni, caserme e scuole permette all’energia libidica compressa dai rigori della disciplina di sfogarsi a piacimento. Esso conserva la separazione fra la testa – il “capo” – e il resto del corpo, che per principio le è sottomesso, ma rovescia l’ordine gerarchico stabilito durante il tempo dello studio. L’ultimo vi diviene il primo: il cattivo scolaro e il bruto muscoloso diventano i leader e la fanno pagare al primo della classe. Nulla è cambiato se non che le pulsioni della vita oppressa si sfogano in pulsioni di morte.

Una volta chiusa la parentesi del disordine tollerato, lo spirito riprende i suoi diritti, con la missione di regnare sul caos. Quelli che il potere professorale ha aureolato della santità del sapere riprendono il loro posto in testa al plotone. La loro intellettualità rigetta nelle tenebre la bestia che si aggira nel profondo dell’essere, mentre la loro superiorità si afferma sull’orda degli indisciplinati, degli svagati, degli ultimi della classe, chiamati bestioni, secondo un insulto che meriterebbe di essere analizzato più a fondo (quando si prenderà coscienza che rinnegare l’animalità delle pulsioni invece di affinarle non conduce all’umanità ma ad una bestialità dal volto umano).

Esiste evidentemente un ritmo naturale dello sforzo e del riposo, della concentrazione e del rilassamento, ma l’organizzazione sociale del lavoro ha sostituito alla semplice alternanza di contrazione e decontrazione il meccanismo psicologico di rimozione e sfogo. Il comportamento ordinario dello sfruttatore che accorda agli sfruttati un periodo di ricreazione per rinviarli ben disposti alla fabbrica e all’ufficio si è espresso perfettamente nell’affermazione del generale de Gaulle irritato dalla rivoluzione del 1968: “E’ ora di fischiare la fine dell’ora di ricreazione.”

 

Imparare senza desiderio vuol dire disimparare a desiderare.

 

Il disprezzo di sé e degli altri è inerente al lavoro di sfruttamento della natura terrestre e della natura umana. Ecco perché pochi pensano ad indignarsi del fatto che sia moneta corrente negli scambi tra professori e allievi. Sarebbe illusorio credere che una pratica talmente intollerabile possa cessare per effetto di una scelta etica, di una volontà di cortesia, di qualche formula del tipo “le sarei grato di non parlarmi su questo tono”. Ciò che è in gioco è una rifondazione radicale della società e di un insegnamento che non ha ancora scoperto che ogni bambino, ogni adolescente possiede allo stato bruto l’uniche ricchezza dell’uomo, la sua creatività.

Come si può eccitare la curiosità in esseri tormentati dall’angoscia della colpa e la paura delle sensazioni? Certo esistono professori sufficientemente entusiasti da appassionare il loro uditorio e far dimenticare per un istante le condizioni detestabili che degradano il loro mestiere. Ma quanti, e per quanti anni?

Mettete da una parte i burocrati che terrorizzano la loro classe e ne sono a loro volta terrorizzati, e dall’altra gli artisti, saltimbanchi e funamboli del sapere, capaci di conquistare l’attenzione senza doversi mai trasformare in guarda-ciurme o in caporali.

Non si tratta qui di giudicare, né di entrare nella pratica imbecille del merito e del demerito, vituperando i primi e lodando i secondi. No, ciò che importa è far di tutto perché l’insegnamento mantenga sveglia quella curiosità naturale e così piena di vita che permise a Sheherazade il privilegio di tenere in scacco la morte di cui la minacciava un tiranno.

L’aberrazione del mondo a rovescio ha pensato per secoli sull’educazione del fanciullo.

Cha tanti sforzi e fatica siano richiesti da parte del maestro e dell’allievo per ravvivare un’avidità di sapere così freneticamente espressa nella primissima infanzia dice abbastanza chiaramente che un’evoluzione è stata brutalmente interrotta. La curiosità è stata veramente soffocata in un periodo in cui essa partecipava dello sviluppo ludico dell’infanzia, quando era divertente eppure gettava le basi di una gaia scienza, incompatibile con la visione austera degli adulti, per i quali la scienza si veste della serietà degli affari e deve propagarsi tramite verità secche, noiose, astratte.

Ricordatevi delle mille domande che il bambino pone su se stesso e sul mondo che scopre con uno stupore senza fine. Perché piove? Perché il mare è blu? Perché mio fratello mi prende i giocattoli? Le risposte ricevute erano nella maggior parte dei casi solo frasi evasive e sgarbate. Finché stanco di un procedimento di cui gli veniva fatta sentire la sconvenienza, si lasciava penetrare dall’impressione di non essere né degno né capace di capire. Come se ogni tappa dello sviluppo psicologico non avesse il suo modo di comprensione adeguato.

Quando, finalmente disgustato da tante domande giudicate senza interesse, entra nel ciclo degli studi, gli si danno risposte di cui ha perduto il desiderio. Ciò che con passione aveva voluto conoscere qualche ann prima, è costretto a studiare per forza e sbadigliando di noia.

La differenza tra sensazioni di felicità e di infelicità aveva fatto nascere in lui quella coscienza sperimentale che permetteva di migliorare le prime ed evitare le altre. Sostenuta da una pedagogia parentale piena di attenzione, di sollecitudine e di affetto, una tale motivazione psicologica l’avrebbe spinto a desiderare senza fine, a volerne sapere di più, ad affrontare il mondo con una curiosità senza limiti. Per la semplice ragione che le conoscenze obbedivano allora alla più naturale delle pulsioni: rendersi felici.

Se l’insegnamento è ricevuto con reticenza, e perfino con ripugnanza, vuol dire che il sapere filtrato dai programmi scolastici porta il segno di un’antica ferita: è stato castrato della sua sensualità originaria.

La conoscenza del mondo senza la coscienza dei desideri di vita è una conoscenza morta. Essa non ha utilità che al servizio dei meccanismi che trasformano la società secondo le necessità dell’economia. I lenimenti che essa procura alla sorte degli uomini, non li cede che a malincuore, e sotto la minaccia di un rigore futuro che ne cancellerà gli effetti.

Dopo aver strappato lo scolaro alle sue pulsioni di vita, il sistema educativo si industria per ingozzarlo artificialmente allo scopo di immetterlo sul mercato del lavoro, dove continuerà a ripetere stentatamente il lietmotiv dei suoi anni giovanili fino al disgusto: vinca il migliore!

Vincere che cosa? Più intelligenza sensibile, più affetto, più serenità, più lucidità su se stesso e sul mondo, maggiori mezzi di agire sulla propria esistenza, più creatività? Niente affatto, più denaro e più potere, in un universo che ha usato il denaro e il potere a forza di essere usato da loro.

 

Errore non vuol dire colpa

 

Il sistema educativo non si è accontentato di murare i desideri d’infanzia nella corazza caratteriale dove i muscoli tetanizzati, il cuore indurito e lo spirito impregnato dall’angoscia non favoriscono davvero l’esuberanza e la realizzazione. Non si è limitato a collocare lo scolaro in edifici senza gioia, destinati a ricordargli, nel caso se ne dimenticasse, che non è lì per divertirsi. Ha anche sospeso sulla sua testa la spada di Damocle, al contempo ridicola e minacciosa, di un verdetto.

Ogni giorno l’allievo penetra, che lo voglia o no, in un pretorio dove compare davanti ai suoi giudici sotto l’accusa di presunta ignoranza. Sta a lui dimostrare la sua innocenza rigurgitanto a richiesta teoremi, regole, date, definizioni che contribuiranno al suo rilascio alla fine dell’anno scolastico.

L’espressione “mettere in esame”, cioè procedere, in materia criminale, all’interrogatorio di un sospetto e all’esposizione delle accuse, rievoca la connotazione giudiziaria che rivestono la prova scritta e orale inflitte agli studenti.

Nessuno intende qui negare l’utilità di controllare l’assimilazione delle conoscenze, il grado di comprensione, l’abilità sperimentale. Ma è necessario per questo travestire in giudice e in colpevole un maestro e un allievo che chiedono soltanto di istruire ed essere istruito? Di quale spirito dispotico e desueto si investono i padagoghi per erigersi a tribunale e tranciare nel vivo col rasoio del merito e del demerito, dell’onore e del disonore, della salvezza e della dannazione? A quali nevrosi e ossessioni personali obbediscono per osar segnare con la paura e la minaccia di un giudizio sospensivo il cammino di fanciulli e adolescenti che hanno soltanto bisogno di attenzione, di pazienza, di incoraggiamenti e di quell’affetto che conosce il segreto di ottenere molto esigendo poco?

Non sarà che il sistema educativo persiste a fondarsi su un principio ignobile, frutto di una società che non concepisce il piacere se non al vaglio di una relazione sadomasochista tra maestro e schiavo: “Chi più ama più punisce”?

E’ un effetto della vlontà di potenza, non della volontà di vivere, il pretendere di determinare con un giudizio la sorte altrui.

Giudicare impedisce di comprendere per correggere. Il comportamento di questi giudici, allontana dall’allievo impegnato nella sua lunga marcia verso l’autonomia delle qualità indispensabili: l’ostinazione, il senso dello sforzo, la sensibilità all’erta, l’intelligenza aperta, la memoria sempre in esercizio, la percezione della vita sotto tutte le sue forme e la presa di coscienza dei progressi, dei ritardi, delle regressioni, degli errori e della loro correzione.

Aiutare un fanciullo, un adolescente a rinsaldare la maggiore autonomia possibile implica senza alcun dubbio una lucidità costante sul grado di sviluppo delle capacità e sull’orientamento che le favorirà. Ma che cosa c’è di comune tra il controllo al quale l’allievo si sottometterebbe, una volta pronto a superare una tappa della conoscenza, e la messa in esame davanti ad un tribunale professorale? Lasciate dunque il senso di colpa agli spiriti religiosi che non si occupano che di tormentarsi tormentando gli altri.

Le religioni hanno bisogno della miseria per perpetuarsi, esse le mantengono per dare maggior risalto ai loro atti di carità. Ebbene, il sistema educativo agisce forse diversamente quando presuppone nell’allievo una debolezza costitutiva, sempre esposta al peccato di pigrizia e di ignoranza, da cui può assolverlo solo la missione per così dire sacra del professore? E’ ora di finirla con queste frottole del passato!

Ognuno possiede la sua propria creatività. E non tollera più che venga soffocata trattando come un crimine passibile di punizione il rischio di sbagliarsi. Non ci sono colpe, ci sono solo errori, e gli errori si correggono.

 

Solo coloro che posseggono la chiave dei campi e la chiave dei sogni apriranno la scuola su una società aperta

 

La prospettiva di una redditività a tutti i costi è la cortina di ferro di un mondo chiuso dall’economia. La prospettiva di vita si apre su un mondo dove tutto è da esplorare e da creare. L’istituzione scolastica, invece, appartiene al mondo degli affari che la vorrebbe gestire cinicamente, senza l’ingombro del vecchio formalismo umanitario. Resta da sapere se allievi e professori si lasceranno ridurre alla funzione di meccanismi lucrativi, o se, non aspettandosi niente di buono dalla gestione, alla quale li si invita, di un universo in rovina, scommetteranno sull’ipotesi di imparare a vivere anziché a economizzarsi. Tutto si gioca su un cambiamento di mentalità, di visione, di prospettiva.

Infilzare una farfalla su uno spillo non è la miglior maniera di fare la sua conoscenza. Chi trasforma ciò che è vivo in cosa morta, qualunque ne sia il pretesto, dimostra soltanto che il suo sapere non gli è neppure servito a diventare umano.

Esiste, in compenso, un approccio che svela l’irraggiamento della vita in seno a un cristallo, in una poesia, un’equazione, una formula chimica, una pianta, un manufatto. Questo approccio stabilisce tra osservatore e osservato un rapporto di osmosi in cui tutto è distinto senza che niente sia separato.

La coscienza di una presenza viva nel soggetto e nell’oggetto non è di natura tale da manifestare quanto vi è di maestro nell’allievo e di allievo nel maestro? Dove manca l’intelligenza della vita ci sono soltanto rapporti tra bruti. Ciò che non si sprigiona da quanto vi è in noi di più vivo per farvi ritorno devia verso la morte, per la gloria più grande degli eserciti e delle tecnologie di profitto. E’ il motivo per cui la maggior parte delle scuole sono dei campi di battaglia, dove il disprezzo, l’odio e la violenza devastatrice definiscono il fallimento di un sistema educativo che obbliga l’insegnante al dispotismo e l’insegnato al servilismo.

Questa rassegnazione nella clausura spacciata per studio in cui l’allievo è invitato a sacrificarsi e a sbattere sulla sua felicità la porta della rinuncia! E come istruirà i fanciulli che ha davanti a sé l’educatore che non è nemmeno più capace di ritornare bambino rinascendo ogni giorno a se stesso? Colui che porta nel suo cuore il cadavere della propria infanzia non educherà mai nient’altro che delle anime morte.

Impartire la conoscenza è risvegliare la speranza di un mondo meraviglioso che la gioventù ha nutrito e di cui l’uomo non cessa di nutrirsi. Bisogna ancora, allo stesso tempo, spezzare la maledizione dei pregiudizi e non curarsi di quei contabili del potere e del profitto che hanno escluso così bene dalla loro realtà il meraviglioso che l’impazienza infantile relega nel regno delle fate e l’impotenza dei vecchi nella palude dell’utopia.

Il corpo umano, il comportamento animale, il fiore, la speculazione filosofica, la coltura del grano, l’acqua, la pietra, il fuoco, l’elettricità, la lavorazione del legno, l’equitazione, la fisica quantica, l’astronomia, la musica, un improvviso momento privileggiato nella vita quotidiana, tutto nasce dal meraviglioso, non per mistica contemplativa, ma perché la scelta di una preminenza di ciò che è vivo cessa di piegarsi agli imperativi tradizionali dello sfruttamento lucrativo.

Quando la foresta è il polmone della terra e non il prezzo di un certo numero di are o uno spazio da devastare per interesse immobiliare, allora si manifesta il senso umano di una natura che offre le sue risorse energetiche a chi l’affronta senza violentarla.

L’apprendimento della vita è una passeggiata nell’universop del dono. Un andar per funghi per così dire, dove la guida insegna a distinguere i funghi commestibili dagli altri, inadatti al consumo, se non mortali, ma dai quali un trattamento appropriato può trarre virtù curative.

Invece di una trincea dove langue tristemente una manodopera di riserva, perché non fate della scuola un parco di attrazioni del sapere, un luogo apero in cui i creatori verrebbero a parlare del loro mestiere, della loro passione, della loro esperienza, di ciò che gli sta a cuore?

Un liutaio, un ortolano, un ebanista, un pittore, un biologo hanno certamente da insegnare più o meglio di quegli uomini d’affari che vengono a sostenere l’adattamento alle leggi aleatorie del mercato.

Che l’apertura sul mondo culturale sia anche l’apertura sulla diversità delle età! Perché riservare ai giovani il diritto all’istruzione, escludendo gli adulti interessati ad iniziarsi alla letteratura o alla matematica? Non avremmo tutti da guadagnare da un contatto che rompesse l’opposizione fittizia tra le classi di età?

Ma non esiste né ricetta né panacea. Appartiene solo alla volontà di vivere di ciascuno di aprire ciò che è stato chiuso dalla violenza del totalitarismo economico. In questo l’immaginazione dimostrerà la sua potenza.

Non passa anno che dozzine di maestri e professori inventivi non suggeriscano metodi di insegnamento fondati su un nuovo accordo degli esseri e delle cose. Voi che vi lamentate del numero di burocrati che usurpano il nome di insegnante, e che gettano sul pianeta il freddo sguardo delle cifre a forza di limitare il loro interesse alla busta paga, quando mai avete rivendicato che fossero portate più avanti le idee di Freinet e di qualche altro dal sapere generoso? Quando mai avete opposto ai distillatori di noia che vi governano dei progetti di educazione ludica e vivente? Avete mai cercato di sostituire al rapporto gerarchico tra maestro e allievo un rapporto fondato non più sull’obbedienza, ma sull’esercizio della creatività individuale e collettiva?

Quando degli uomini politici di una costernante mediocrità vi invitano a sottoporre loro le vostre rivendicazioni, non hanno forse la soddisfazione di scoprirvi miserabili quanto loro, se non finanziariamente, almeno per intelligenza e immaginazione? Non abbiate dubbio che al prezzo scontato a cui vi svendete, vi concedano senza indugiare il diritto di deriderli in grandi manifestazioni catartiche.

La peggior rassegnazione è quella che veste gli abiti della rivolta. Nutrite per voi stessi così poca stima da non prendere il tempo di riconoscere i vostri desideri di vita, da non sapere quale esistenza volete condurre? Non concepite dunque altra scelta che l’alternativa che vi è ufficialmente proposta tra la povertà del ricco e la miseria del povero?

Il desolante avvenire di una vita passata a racimolare il denaro del mese deve sembrarvi luminoso solo perché l’ombra della disoccupazione cresce ovunque regni il sole mediatico del pieno impiego? Nulla uccide con più sicurezza che accontentarsi di sopravvivere.

Una scuola che ostacola i desideri stimola l’aggressività

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27 Commenti

  1. Mi regalo con l’articolo, ma non condivido tutto.
    Sono soprattutto colpita dalla parola seguente:
    ” colui che porta nel suo cuore il cadavere della sua propia infanzia non educherà mai nient’altro che delle anime morte.”

    E’ molto importante restare in ascolto della sua anima di infanzia, fare un ritorno nella manera di sentire il mondo con la sensazione di essere vivo a fiore di pelle, con l’affetto sempre acuto, l’intelligenza aperta, la sensazione di un mondo immenso.
    Si deve restare in ascolto delle pene d’infanzia per capire che un bambino è triste, quando ha un brutto voto.

    Il problema è nutrire un desiderio in un mondo inghiottito dal desiderio da consumare. Si vive in un mondo bulimico, si apre una fame senza fondo, cosi mi prendo a sognare un mondo anoressico, senza oggetto.
    La scuola prova a nutrire un desiderio che non vale in un mondo
    mercato, lotta contro.

    Il brano, invece, non lo condivido, quando si parla del dialogo nell’aula. Si alza il ditto per prendere la parola, perché non si puo immaginare una communicazione senza rispetto dell’altro: si deve ascoltare per rispondere. E’ vero è il maestro che “controlla” la parola, ma quando tre alunni parlano nello stesso tempo, non è facile. E forse qualche alunno parla e interrompe un altro più schivo.
    Mi accade anch’io di essere troppo dura, quando dico ” non è una risposta giusta” con un tono nervoso, come se mi sentivo ferita dell’errore dell’alunno. Dipende dello mio stato.
    A volte, sono calma e posso lavorare sull’errore con altri alunni; a volte sono stanca o non ben disposta ( mal lunée si dice in francese) e non ho la pazienza.
    Mi sembra che il brano dimentica questo punto: la pazienza.

  2. chi mai, oggi, riuscirà a comprendere la profondità di questo pezzo?
    Chi si ricorda più di Ivan Illich e del suo “Descolarizzare la società”?

  3. Provo a gettare luce su un aspetto. Forse esagero, forse parla il timore. Vediamo.
    Non posso addolcire i toni. Che coraggio parlare ancora di repressione ! Quanto male hanno fatto alla nostra società tutte queste lodi scriteriate alla potenza scatenante del desiderio! E quell’anarchismo adolescenziale che agevolmente calpesta tutti i poteri tranne quello dell’io abbandonato ai tentacoli della piovra mediatico-consumista! Ricordiamo Brecht: “Non sarebbe più semplice che il governo sciogliesse il popolo e ne eleggesse un altro?” Ecco allora la pedagogia dei desideri e dei consumi, l’autoritarismo ludico e per niente oppressivo. Il potere assoggettante usa la retorica della guerra alla castrazione dei sensi e delle voglie e così minaccia le stesse condizioni di possibilità dei soggetti. Il padrone ci riempie di regali e ci lascia imprigionati nel principio di piacere. Questo 68tismo mediatico sarebbe solo datato e ridicolo se non fosse reazionario. La scuola non deve abbandonare la funzione paterna; “il rasoio del merito e del demerito” non è dispotismo gerarchizzante, non instilla sensi di colpa, non induce alla depressione, non denigra la creatività di ognuno, anche quando ci si trova di fronte a cubiste e bulletti. Più i sudditi fanno il carnevale più si sentono ingenuamente liberati. La scuola di oggi non c’entra nulla con quella giustamente criticata da Vaneigem.

  4. Quoto Tedoldi. L’unico anarchismo a cui gente come Vaneigem ha aperto le porte è quello dei consumi. La società della dissipazione e deoll’emergenza planetaria ha tratto da qui i suoi ideologi. Il ’68 ha riformato il capitalismo e la logica del dominio, altro che combatterli. Ma la riprova migliore della sua sterilità è che chi se n’è intossicato non riesce a pensare niente di meglio che riproporre testi di quarant’anni fa, in un’emergenza che è di tutt’altro genere. Quanto a Illich, avvicinarlo a Vaneigem è mettere i cavoli a merenda. La pedagogia anti-burocratica e anti-autoritaria di Illich tendeva a un recupero all’autorità dell’esperienza, al carattere personale della motivazione ad apprendere e all’autenticità della trasmissione diretta, niente a che vedere con la sindrome di Peter Pan dei situazionisti.

  5. “L’apprendimento si è fondato sulla repressione dei desideri….
    Prevaleva allora l’opinione che per istruirsi (come per essere belli) bisognava imparare a soffrire. Entrare nell’età adulta, non era forse rinunciare ai piaceri dell’infanzia per progredire in una valle di lacrime, di decrepitezza, di morte?
    I pedagoghi hanno sempre affermato che la disciplina e il mantenimento dell’ordine formavano la conditio sine qua non di tutta l’educazione. ”

    Una contestazione radicale, a livello teorico di queste affermazioni, mi sembra debba tener conto di una semplice nozione psicologica, ossia del fatto che l’apprendimento si accompagna anche alla capacità di reagire alla frustrazione. Non sto parlando della repressione psico-fisica che può causare l’ambiente scolastico. Sto parlando del fatto che, attenendoci alle scienze cognitive, la possibilità di apprendere, ossia di conoscere dati e capire, interiorizzare concetti avviene tramite una riorganizzazione delle nostre mappe cognitive che comporta uno sforzo e il dovere attraversare una fase di difficoltà, di resistenza alla riorganizzazione stessa, che quindi, per essere superata, passa attraverso una transitoria frustrazione.
    In questo senso, e solo in questo senso, per ciò che posso intendere io, si può parlare anche di sofferenza e disciplina in relazione all’apprendimento.

  6. Che Binaghi non intraveda un tertium al binomio liberazione dei desideri/ordine e tradizione è cosa nota, come testimonia il suo abbandono sensuale nella braccia del papa dalle scarpette rosse (perdonami valterone, ma quest’immagine è molto stimolante, sai che saresti un ottimo personaggio per un romanzo del giovane Bataille?).
    Ma questa sorta di dialettica negativa è sostenuta anche da tedoldi. Certo che a leggere il sintagma “anarchismo adolescenziale” ho un brivido: come non capire che Vaneigem va ai fondamenti? Parla, dunque, di un orizzonte. (E com’è noto, senza orizzonti, la storia non procede: il trito esempio della schiavitù al tempo dei greci – era giusto che qualcuno immaginasse un’altra società, senza schiavitù? o era anarchismo adolescenziale?). Vado avanti. Il fatto è che il vostro è un paralogismo, e non ve ne rendete conto. Un conto è il trionfo del capitalismo consumistico che fa leva proprio sulla precondizione della repressione secolare dei desideri operata dalla sacertà dei Valori e della Tradizione. Lo schiavo liberato e ineducato tenderà a replicare il modello del padrone (cfr. Manderlay). Tutt’altra cosa è invece quell’affinamento dei desideri evocato da Vaneigem (sulla scorta, mi pare, di tutta una antichissima tradizione filosofica) – che si basa sull’autonomia.
    Passando dai massimi sistemi ai dettagli (nei quali però si rivela l’universale) – io spesso ho notato che ciò che resta di più – nella formazione dei ragazzi (ché molti di loro continuano a restare in contatto con me anche una volta finito di essere miei allievi) – sono i dibattiti “senza fini di lucro” (e l’espressione non è casuale). L’ora di religione, per esempio, piace, se (ma i casi non sono molti) il professore è sufficientemente intelligente e laico (non è difficile immaginare che i casi non siano molti nevvero?). E questo perchè nell’ora di religione la coazione esiste a livelli di sussistenza, non ci sono voti in vista, c’è una circolarità del dialogo. Lo stesso accade nelle mie ore. E per risalire un po’ dai dettagli verso l’universale: guardate che non c’è bisogno di invocare Summerhill come verificazione di questo discorso. Basterebbe guardare, più prosaicamente, al metodo Montessori…

  7. Sono d’accordo con te Lorenzo. (Io per esempio abbondo con i brutti voti. Ma con me i ragazzi difficilmente si lamentano. In genere ne capiscono il senso, e li accettano). Ma il discorso dell’educazione repressiva sta su altri piani, appunto. Per situare ancora un po’ il discorso – la scuola elementare, per quel che ne posso capire, ha raggiunto livelli di eccellenza in Italia proprio perchè ha cominciato qualche decennio fa a fare i conti con quest’orizzonte di senso. La scuola superiore invece non li ha fatti, e si trova in condizioni assai peggiori.

  8. Anch’io sono stanco di stanche ripetizioni. Sono anni che, in un modo o nell’altro, sento ripetere che questo è il migliore dei mondi possibili. L’unico.
    Quel che vedo è il trasformismo interessato di pochi e l’infelicità poco cosciente dei tanti.
    Ai sogni va data una speranza concreta. Non la morte.
    Socialisme ou barbarie.

  9. @Marco
    abbandono sensuale nelle braccia del papa dalle scarpette rosse

    Prego notare che qui nessuno ha citato autorità cattoliche o confessionali, tranne te, il libertario che usa gli slogan per chiudere la bocca a chi dissente. Complimentoni.
    Chi è che non vede una terza via tra accettazione supina dell’autoritarismo e sindrome di Peter Pan?

  10. E poi qui non si tratta di me, un cinquantenne disgustato. Vai a chiedere ai superprecari dell’istruzione e del lavoro quanto gli piace il nomadismo intellettuale predicato da Vaneigem, quanto condivide la rivolta metodica contro la famiglia chi non vede l’ora di farsene una e non può per motivi di contingenza materiale. E poi vedrai quanto ci azzeccano le ragnatele situazioniste coi ragazzi di oggi. Ho detto ragazzi, non rivoluzionari di mestiere, che campano a cinquanta o sessant’anni spacciando la droga dei sogni a buon mercato alle giovani generazioni. E non rappresentano nessuno, proprio nessuno, ricacciati fuori per la loro inconsistenza teorica e pratica da un Parlamento in cui pure bivaccano cani e porci.

  11. Bene. E tu, caro Valterbinaghicinquantennedisgustato, cosa proponi nel concreto? Ammesso e non concesso che tu voglia una società differente.
    Comunque, il tono che usi non mi è affatto gradito.
    E mi insospettisce.

  12. Dai Valter, non andar di retorica… Non avrei usato queste parole con un altro – ma siccome il binaghipensiero da queste parti è stranoto da tempo, mi sono permesso di tracciarne, con un po’ d’ironia, le coordinate.

    E comunque io sono un superprecario, eccomi. Ti rispondo dicendo che nelle tue parole si nascone ancora una confusione, assolutamente parallela e conforme a quella descritta dianzi: “libertà da” e “libertà di” non sono la stessa cosa.
    “Droga dei sogni a buon mercato” – ma riuscirai mai a liberarti dei “tuoi” anni settanta?

  13. Anche se il confronto pare scaldarsi ancora spero nella possibilità di cambiare idea.
    @rovelli
    Direi innanzitutto che la sacrosanta necessità di immaginare una società altra non c’entra con l’anarchismo. Usciamo dalla genericità sia riguardo all’anarchismo adolescenziale (che oggi non può che far piacere ai poteri) sia riguardo al “capitalismo consumistico” fondato sulla repressione. Ma dov’è questa repressione? Saranno i paralogismi, ma io non la vedo. E’ stata l’industria delle continue stimolazioni, degli svaghi e dei piaceri a prendere sul serio la vagheggiata rivoluzione desiderante. Gli “antiedipo” e gli “eros e civiltà”, i Wilhelm reich e le montessori oggi fanno ridere. Acquisto, gioco e infanzia si sposano nel sonno ameno di un’autarchia intesa come assenza di vincoli e pluralità delle merci. Non è autonomo e raffinato il cliente di oggi? Ama la giovinezza e l’estasi, la cura del corpo e della mente, la sovranità della scelta transitoria e i dibattiti senza fini di lucro. Il marketing individualistico, infatti, si rivolge all’anima, autonomizza e rimbambinisce, sorregge la religione della generica libertà e rende il consumo riflessivo, idealista, etico, ecologico … I fondamenti e l’orizzonte? Dove Vaneigem parla di etero e auto-appartenenza, responsabilità, relazione, limite? Gli uomini la cui energia libidica è ostaggio della mercatizzazione dell’esistenza non possono essere emancipati dall’antiautoritarismo romantico e ottimista. Un soggetto preda del mito dell’autocreazione non può riprendersi le redini del proprio carattere. Il ladro dello sfuggente ed etereo desiderio (con quest’antropologia povera ridotto a capriccio teso alla gratificazione immediata) sta a guardia della società del rischio.

  14. Che dire, se Marcuse ti fa ridere, e persino la Montessori (ah, hai dimenticato Foucault), in effetti è difficile intendersi. Il concetto marcusiano di tolleranza repressiva, però, è decisivo. Apparentemente tutto è tollerato, oggi. Ma proprio mediante questa apparente tolleranza si esercita la repressione. Che consiste nella disseminazione disordinata dei desideri eterodiretti – che però, in fine, stanno proprio come coltre illusoria sul corpo cadaverico dell’uomo “a una dimensione”. I desideri sono spezzettati, frantumati, inconsapevoli – determinati dai bisogni indotti dalla società dello spettacolo. E poiché la natura dell’uomo è, essenzialmente, desiderio (Desiderio di Desiderio, per dirla tutta…), è evidente che – finché non si ponga al centro la liberazione della dimensione desiderante – il capitalismo trionferà – proprio perchè sa far leva sulla natura più intima dell’umano, sui suoi meccanismi più profondi. Il punto, allora, non è: negare il desiderio, o costringerlo entro una forma eterodiretta. In questo modo (per rimanere al punto dell’educazione) la scuola avrà sempre la peggio, e non apparirà altro che un fortino assediato, l’avamposto sguarnito di qualcosa che non c’è, ridicolo e perdente. Recuperare la funzione educatrice significa porre al centro, di fronte alla vacuità dei desideri imposti (che piano piano viene a galla agli occhi stessi dei ragazzi che si vorrebbero marionette), la loro libertà, il loro venire a se stessi in quanto umani compiuti (e se leggi bene, Vaneigem dice questo). Che nulla ha a che fare con quella “antropologia povera basata sulla gratificazione immediata” che tu richiami, e che è quella dello spettacolo e del consumo. Al contrario, si tratta della realizzazione (mediata e riflessiva) del sé a lungo termine, non mediante vincoli e leggi, ma mediante un’autonoma elaborazione e riflessione. Che, appunto, può nascere solo in un’atmosfera di libero dialogo educativo. Non dove impera il voto, la costrizione, la competizione. Ma non vi rendete conto quanto la scuola, costruita com’è oggi, educhi e allevi alla competizione? Io con i miei ragazzi ci parlo, di questo, e tutti sentono questa cosa: nella scuola odierna si impara a essere competitivi e senza alcun legame solidale. E – al di là di ogni altra considerazione – è la competizione, e la frantumazione di ogni legame solidale, il miglior vettore per essere pedine docilissime di questo sistema.

  15. Cosa propongo? di sicuro la difesa ad oltranza della scuola pubblica, che figa-di-legno-Gelmini vuole smantellare, prestandosi ad un’opera di killeraggio di cui la poverina non ha certamente le redini.
    Dopodiche, dato al pubblico quel che è del pubblico, bisognerebbe parlare di cosa significa fare scuola. Ed è qui che Vaneigem e soci hanno nulla da insegnare. Perchè la scuola implica il principio dell’autorità naturale dell’adulto sul giovane, e dell’autorità culturale del classico sullo sperimentale, nel senso gerarchico che il sessantottismo aborrisce e distruggendo il quale ha distrutto la possibilità stessa di fare scuola. Le facoltà inutili dal titolo cervellotico esistono, i docenti somari passati di ruolo ope legis esistono, gli sprechi della pubblica amministrazione che tolgono risorse a chi ne merita esistono, ed è proprio la rimozione del criterio di valore che ha impedito sempre, complice il sindacalismo della pagnotta e la pubblicistica dell’effimero, di separare il grano dal loglio. Prima dei tagli selvaggi dei governi di destra, c’è la burocratizzazione strisciante e distruttiva imposta da governi e sindacati di sinistra, ed entrambi hanno un ruolo necessario nell’assassinio dell’educazione e della scuola. Ecco perchè ho scioperato ieri ma non sfilerò mai più accanto a gente come Veltroni e Ferrero.

  16. Io alla costellazione autorità/gerarchia/disciplina preferisco quella di ascolto/educazione/dialogo. L’adulto non deve esercitare la propria autorità con i propri Valori. Deve anzitutto ascoltare, saper dire ache de no, certo – ma soprattutto esser d’aiuto all’infante o adolescente che deve trovare la propria forma. Per quanto mi riguarda, le gratificazioni più grandi con gli allievi successi sono state queste: averli educati a seguire le proprie passioni invece che l’interesse.

  17. Per quel che mi riguarda, continuerò a postare sul mio blog il testo di Raoul, dopo la pausa che mi sono concesso nella giornata di ieri.
    Il male assoluto è il nazifascismo.
    Al pari di ogni autoritarismo.
    Comunque mascherato.

  18. Binaghi:
    “La pedagogia anti-burocratica e anti-autoritaria di Illich tendeva a un recupero all’autorità dell’esperienza, al carattere personale della motivazione ad apprendere e all’autenticità della trasmissione diretta, niente a che vedere con la sindrome di Peter Pan dei situazionisti.”
    Rovelli:
    “Io alla costellazione autorità/gerarchia/disciplina preferisco quella di ascolto/educazione/dialogo.”
    Caro Binaghi tu di Illich offri una lettura epifenomenica, credi sul serio che non esistano punti di contatto col desiderio di Vaneigem?
    Io, comunque sto tutta la vita con Rovelli (e pure con Sergio Falcone)

  19. E’ evidente quanto il testo di Vaneigem sia “ideologico”, nel senso più alto e al contempo discutibile del termine, e credo sia questo che determini reazioni di forte rifiuto o consenso.

    Se volessi prendere alcune frasi o anche interi capoversi di quel testo, potrei a ragione – credo -, giudicarli eccessivi per descrivere la scuola d’oggi o, come ho fatto sopra nel discutere sull’apprendimento, quanto meno poco dialettici (si veda anche la critica sull’alzata di mano della prima commentatrice), troppo uni-direzionati nell’impostazione critica.

    Tuttavia, mi pare che l’impostazione critica di Vaneigem produca un’interpretazione della realtà difficilmente scalfibile sul piano etico-filosofico, a meno che non si vogliano fornire critiche generiche, come quelle di tedoldi e binaghi, che non intaccano nel merito le tesi di Vaneigem e che penso vadano considerate critiche di stampo ideologico opposto – che a guardare bene è poco esplicitato – ma questo non è dovere di binaghi e tedoldi, essendo commentatori.
    Esplicito io tanto per iniziare.
    Tedoldi rivendica
    -il ruolo paterno della scuola (addirittura paterno? non basta l’idea di autorità?)
    -la meritocrazia
    -il fallimento del 68 per la sua valorizzazione anarchica del desiderio
    Binaghi quota e, invitato a fare proposte di cambiamento
    -denuncia ancora il fallimento del 68 su tutta la linea
    – se la prende con la burocratizzazione della scuola, che imputa al centrosinistra (ma anche Vaneigem critica la burocrazia)
    -rivendica il rapporto di autorità che esiste tra docente e discente (ma sappiamo tutti che si dice che i docenti devono essere autorevoli, non autoritari, che autorità è colui che fa crescere: su questo siamo d’accordo tutti, quindi: non è come dicevo l’impostazione ideologica del testo che produce rifiuti ideologici?)
    – sottolinea che la scuola implica l'”autorità culturale del classico sullo sperimentale”: questa è l’unica osservazione la cui motivazione mi sfugge, e che messa lì così potrebbe essere catalogata come un pre-giudizio reazionario – ma immagino che binaghi abbia un’altra motivazione.

    Ecco, mi pare che queste siano critiche piuttosto generiche, che poco entrano nel merito dei problemi fattuali della scuola sollevati dall’interessante testo postato da Marco, e penso e che la loro genericità non sia dovuta a un difetto di argomentazione quanto piuttosto a un approccio ideologico poco esplicitato.

  20. Si, Lorenzo. Intendo sperimentale non nel senso scientifico ma artistico, letterario filosofico. C’è gente che insegna e sa tutto di Deleuze e Agamben e non ha mai studiato la metafisica di Aristotele, oppure fa leggere agli studenti Ammanniti e snobba Manzoni e Verga. Classico è ciò che forma il gusto non di una generazione, ma è diventato elemento strutturale di una cultura. Non si può riconoscere senza riconoscere autorevolezza alla tradizione e gerarchizzare il valore: qui il 68 c’entra eccome, e questa non è una critica per partito preso, ma sui fatti.

  21. Si può chiamare repressione “la disseminazione disordinata dei desideri eterodiretti” ? Bah. Certo che sono eterodiretti e che però non vanno negati. Certo che non si tratta di propagare disciplina-autorità-ordine etc.
    Certo che anch’io voglio una scuola aperta e allegra, in cui siano protagoniste le passioni ed esclusi il principio di prestazione e la competizione. Parlavo solo degli effetti sociali di certi ritornelli antiautoritari, così facilmente inglobati dall’economia dell’offerta riflessiva, segmentata e libera. Se impera quello che lo stesso Vaneigem chiama “edonismo da supermercato” ditemi cosa c’è di più demagogico della critica alla frase “prima lavora, ti divertirai in seguito”. E nonrispondete con le ovvietà sull’educazione col core’ mmano. Qui i rifiuti ideologici non c’entramo proprio nulla.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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