Avviso agli studenti / 4

di Raoul Vaneigem

IMPARARE L’AUTONOMIA, NON LA DIPENDENZA

La scuola ha promulgato per secoli il sequestro del fanciullo da parte della famiglia autoritaria e particolare. Ora che si abbozza tra i genitori e la loro progenie una comprensione reciproca fatta di affetto e di autonomia progressiva, sarebbe un peccato che la scuola cessasse di ispirarsi alla comunità familiare.

Paradossalmente il sistema educativo, che accoglie con i giovani ciò che cambia di più, è anche quello che meno è cambiato.

La famiglia tradizionale preferiva fabbricare dei bambini in serie piuttosto che offrire la vita a due o tre piccoli esseri ai quali avrebbe dedicato senza riserve amore e attenzione. Quelli che non morivano in tenera età serbavano nel cuore il più delle volte una ferita segreta. La tirannia, il senso di colpa, il ricatto affettivo generarono in tal modo generazioni di spacconi che nascondevano sotto la durezza del carattere un infantilismo che imponeva loro di cercare un sostituto del padre e della madre in quelle famiglie a prestito che erano le chiese, i partiti, le sette, il gregarismo nazionale e i copi di armata di ogni genere. La storia non ha conosciuto, per la sua disumanità, che dei bravacci in carenza di affetto. Ci voleva un bel po’ di cinismo per evocare la “selezione naturale”, tipica della specie animale, quando la produzione di carne da cannone e da fabbrica implicava la sua correzione statistica, e l’economia familiare di procreazione comportava un vizio di forma in cui la morte svolgeva la sua parte.

L’evoluzione dei costumi ci fa guardare oggi come ad una mostruosità questa proliferazione bestiale di vite irrimediabilmente condannate a venir riassorbite sotto i colpi di machete della guerra, del massacro, della carestia, della malattia. Eppure: stigmatizzare la sovrappopolazione dei paesi dove l’oscurantismo religioso si nutre della miseria che consciamente mantiene, e accettare che in Europa uno stesso spirito arcaico e sprezzante continui a trattare gli studenti come bestiame denota un’evidente incoerenza.

Perché il sovraffollamento delle classi non è solo causa di comportamenti barbari, di vandalismo, di delinquenza, di noia, di disperazione, perpetua per di più l’ignobile criterio della competitività, la lotta concorrenziale che elimina chiunque non si conformi alle esigenze del mercato. Il bruto arrivista ha la meglio sull’essere sensibile e generoso, ecco ciò che i disonesti al potere chiamano anch’essi, come i brillanti pensatori di un tempo, una selezione naturale.

Non ci sono bambini stupidi, ci sono solo educazioni imbecilli. Forzare lo scolare a issarsi fino in cima al cesto contribuisce al progresso laborioso della rabbia e della furbizia animali, non certo allo sviluppo di un’intelligenza creatrice e umana.

Ricordate che nessuno è paragonabile né riducibile a nessun altro, a niente altro. Ciascuno possiede le sue proprie qualità, non gli resta che affinarle per il piacere di sentirsi in accordo con ciò che vive. Che si cessi dunque di escludere dal campo educativo il fanciullo che si interessa più ai sogni e ai criteri che alla storia dell’Ipero romano. Per chi rifiuta di lasciarsi programmare dai calcolatori della vendita promozionale, tutte le strade portano verso di sé e verso la creazione.

Ieri ci si doveva identificare al padre, eroe o cretino dai così dolci sarcasmi. Ora che i padri si accorgono che la loro indipendenza progredisce con l’indipendenza del bambino, ora che sentono abbastanza l’amore di sé e degli altri per aiutare l’adolescente a disfarsi della loro immagine, chi sopporterà che la scuola proponga ancora come modelli di realizzazione il finanziere efficace e corrotto, l’uomo politico energico e rimbecillito, il mafioso che regna con il clientelismo e la corruzione, mentre l’uomo d’affari trae i suoi ultimi profitti dal saccheggio del pianeta?

Ricercare la propria identità in una religione, un’ideologia, una nazionalità, una razza, una cultura, una tradizione, un mito, un’immagine vuol dire condannarsi a non raggiungersi mai. Identificarsi a ciò che si possiede in sé di più vivo, questo solo emancipa.

 

L’alleanza con il bambino è un’alleanza con la natura

 

 

La violenza esercitata contro il bambino da parte della famiglia patriarcale partecipava dello stupro della natura operato dal lavoro della merce. Che la coscienza di un saccheggio planetario sia passata dalla difesa dell’ambiente ad una volontà di approccio non violento alle risorse naturali ha contribuito non poco a spezzare il giogo che lo sfruttamento economico faceva pesare sull’uomo, la donna, il bambino, la fauna e la flora.

Il sentire che noi deriviamo da una matrice comune, la terra, il cui ricordo si riavviva al momento della gestazione nel ventre materno, ha tanto meglio nutrito la nostalgia di un’età dell’oro e di un’armonia originale quanto più il lavoro forzato ci separava dalla natura e da noi stessi con uno strappo a lungo percepito come u tormento esistenziale, una sofferenza dell’essere.

Il fallimento di un’economia di saccheggio e di inquinamento e l’emergere di un progetto di ricreazione simbiotica dell’uomo e del suo ambiente naturale ci sbarazzano ormai di un paradiso perduto il cui fantasma ha ossessionato la storia imponente a costruirsi umanamente: il mito del buon selvaggio, del comunismo primitivo, del millenarismo apocalittico che, dopo aver fatto i bei giorni del nazismo, rinasce sotto il nome di integralismo.

Almeno avremo imparato che la vita non è una regressione allo stadio protoplasmatico ma un processo di affinamento e di organizzazione dei desideri.

Nella lotta contro il cancro, è prevalsa a lungo l’idea che si dovessero distuggere le cellule che un’improvvisa e frenetica proliferazione condannava al deperimento. Si ritiene oggi preferibile rafforzare il potenziale di vita delle cellule periferiche sane e favorire la riconquista di ciò che è vivo piuttosto che annientare quelle di cui la morte si è impadronita. Mi piacerebbe molto che un simile atteggiamento determinasse sovranamente il nostro rapporto con noi stessi, coi nostri simili e con il mondo.

Al contrario di tante generazioni abbrutite che fecero della sensibilità una debolezza, da cui molti si premunivano diventando sanguinari, noi sappiamo ormai l’amore di ciò che vive risveglia un’intelligenza senza pari misura con lo spirito contorto che regna sugli universi totalitari.

Un’etica del rispetto degli esseri, altamente stimabile, prescrive di non uccidere un animale, di non abbattere un albero senza aver tentato di tutto per evitarlo. Ciò nondimeno, quel che una tale raccomandazione comporta di artificio e di costrizione, non eliminerà mai la convinzione come la coscienza che il danno che si fa a ciò che è vivo lo si fa a se stessi, se non si fa attenzione, perché ciò che è vivo non è un oggetto ma un soggetto che merita di essere trattato secondo il diritto imprescrittibile di ciò che è nato alla vita.

 

Sull’aiuto indispensabile al rifiuto dell’assistenza permanente

 

 

Il cammino dell’autonomia è simile a quello del bambino che impare a camminare.

Non ci si riesce senza lacrime e sforzi. Il rischio di cadere, di farsi male, di soffrire aggiunge ai primi passi l’ostacolo della paura. Tuttavia il soccorso di un affetto che incoraggia a rialzarsi, a ricominciare, ad ostinarsi, a coordinare i gesti dimostra che la padrnanza dei movimenti si acquisisce meglio e più presto che nelle condizioni di un tempo in cui si trattava di progredire non solo sotto i fuochi incrociati della vanità beffarda, della minaccia diffusa, dell’angoscia di non essere più amati se non ci si applica, ma soprattutto attraverso un malessere, discretamente nutrit dall’ambiguità dei genitori desiderosi e nello stesso tempo timorosi che il loro bambino faccia i suoi primi passi verso un’autonomia che lo sottrarrebbe alla loro autorità tutelare e toglierebbe loro la sensazione di essere indispensabili.

L’insegnamento dei più piccini si è modellato senza fatica sulle attitudini familiari che fanno di tutto per assicurare la felicità nell’indipendenza – tant’è vero che i genitori la recuperano non appena l’adolescente ne prende possesso. Ispirandosi a quella comprensione osmotica dove si educa lasciandosi educare, le scuole materne attingono al privilegio di accordare il dono dell’affetto e il dono delle prime conoscenze – e che una qualità tanto preziosa all’esistenza degli individui e delle collettività sia considerata degna dei salari più bassi da parte dell’affarismo governativo la dice lunga su quale disprezzo dell’utilità pubblica raggiunga la logica del profitto.

La rottura è brutale all’ingresso nelle superiori. Si regredisce nella famiglia arcaica dove il fanciullo imparava a cavarsela da solo unicamente firmando un atto di una riconoscenza eterna a coloro che avevano assicurato il suo ammaestramento. La fiducia in sé, minata e compensata con l’insolenza, ricompone la ripugnante mescolanza di superbia e servilità che formava, nel passato, la norma del comportamento sociale.

Al desiderio sincero di fare dell’adolescente un essere umano a tutti gli effetti si sovrappone in un evitabile malessere l’esercizio di un potere al quale la struttura gerarchica costringe l’insegnante. Come potrebbe non vincere la tentazione di rendersi indispensabile e di coltivare nello studente una debolezza che ne rende più facile il dominio? Chi vende stampelle ha bisogno di zoppi.

Usciamo appena e con pena da una società in cui, non avendo mai potuto credere in se stessi, gli individui hanno accordato la loro credenza a tutti i poteri che li storpiavano facendoli marciare. Dio, chiese, Stato, patria, partito, leaders e piccoli padri dei popoli, tutto è stato ragionevole pretesto per non dover vivere da se stessi. Questi bambini che un tempo rialzavamo per farli per farli cadere, è tempo di insegnar loro a imparare da soli. Che sia infine rotta l’abitudine di essere in domanda anziché essere in offerta, e che sia archiviata la miserabile società di assistiti permanenti la cui passività fa la forza dei corrotti.

 

Il denaro del servizio pubblico non deve più essere al servizio del denaro

 

 

L’educazione appartiene alla creazione dell’uomo, non alla produzione di merci. Avremmo dunque revocato l’assurdo dispotismo degli dei per tollerare il fatalismo di un’economia che corrompe e degrada la vita sul pianeta e nella nostra esistenza quotidiana?

La sola arma di cui disponiamo è la volontà di vivere, alleata alla coscienza che la propaga. A giudicare dalla capacità dell’uomo a sovvertire ciò che lo uccide, può essere un’arma assoluta.

La logica degli affari, che tenta di governarci, esige che ogni retribuzione, sovvenzione o elemosina consentita si pagni con la massima obbedienza al sistema mercantile. Non avete altra scelta che seguirla o rifiutarla seguendo i vostri desideri. O entrerete come clienti nel mercato europeo del sapere lucrativo – cioè come schiavi di una burocrazia parassitaria, condannata a crollare sotto il peso crescente della sua inutilità -, o vi batterete per la vostra autonomia, getterete le basi per una scuola ed una società nuove, e recuperete, per investirlo nella qualità della vita, il denaro dilapidato ogni giorno nella corruzione ordinaria delle operazioni finanziarie.

“Il Sindacato nazionale unificato delle imposte valuta a 230 miliardi di franchi, cioè quasi l’ammontare del deficit del bilancio francese, la frode imputabile ai gruppi di affari come lo imostra il velo appena sollevato sulle pratiche di corruzione dei grandi gruppi industriali e finanziari.”(*)

Il denaro rubato alla vita è messo al servizio del denaro. Tale è la realtà nascosta dall’ombra assurda e minacciosa delle grandi istituzioni economiche: Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Organizzazione di cooperazione e di sviluppo economico, Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio, Commissione europea, Banca di Francia, eccetera. Il loro sostegno alle fondazioni e ai centri di ricerca universitaria richiede in cambio che sia propagato il vangelo del profitto, facilmente trasfigurato in verità universale dalla venialità della stampa, della radio, della televisione.

Ma per quanto sembri formidabile, la macchina gira a vuoto, si sfascia, lentamente; finirà come nella Colonia penale di Kafka, per scolpiere la sua Legge nella carne del suo padrone.

Non si vede forse, col favore di una reazione etica, qualche magistrato coraggioso spezzare l’impunità che garantiva l’arroganza finanziaria? Tassare le grandi fortune (l’1% dei francesi possiede il 25% della ricchezza nazionale e il 10% ne detiene il 55%), tassare gli introiti incassati dagli uomini d’affari, denunciare lo scandalo delle spese di rappresentanza, colpire con pesanti multe i gestori della corruzione, bloccare gli averi della frode internazionale indicando a sufficienza, su una carta leggibile da tutti, gli accessi al tesoro che i cittadini alimentano e di cui sono sistematicamente spogliati. Non è meno vero che la pista si confonderà sotto l’effetto devastante della rassegnazione se il denaro non sarà recuperato per essere investito nel solo campo che sia veramente di interesse generale: la qualità della vita quotidiana e del suo ambiente.

Certo i magistrati integri dispongono dell’apparato della giustizia, e voi non avete niente perché non avete creato niente che possa sostenervi. Eppure voi possedete sulla repressione, per quanto giusta si ritenga, un vantaggio di cui questa non potrà mai avvalersi: la generosità di ciò che è vivo, senza la quale non c’è né creazione né progresso umano.

L’insegnamento si trova nello stato di quegli alloggi non occupati che i proprietari preferiscono abbandonare al degrado perché lo spazio vuoto è redditizio mentre accogliervi degli uomini, delle donne, dei bambini, spogliati del loro diritto all’habitat, non lo è. Come viene accertato da The Economist, “La subordinazione del commercio ai diritti dell’uomo avrebbe un costo superiore ai benefici previsti” (9 Aprile 1994). Tuttavia, requisire un edificio per trovare un riparo alla miseria – voglio dire installarvisi passivamente perché ci si sta al caldo – non sfugge in ultima istanza al piano di distruzione dei beni utili al quale conduzono l’inflazione dei settori parassitari e la burocrazia proliferante da lei generata.

Ciò di cui vi impadronirete vi apparterrà veramente soltanto se lo renderete migliore; nel senso stesso in cui vivere significa vivere meglio. Occupate dunque gli edifici scolastici anziché lasciarvi possedere dal loro sfacelo programmato. Abbelliteli secondo il vostro gusto, ché la bellezza incita alla creazione e all’amore, mentre la bruttezza attira l’odio e l’annientamento. Trasformateli in ateliers creativi, in centri di incontro, in parchi dell’intelligenza attraente. Che le scuole siano i frutteti di un gaio sapere, come gli orti che i disoccupati e i più deboli non hanno ancora avuto l’immaginazione di piantare nelle grandi città sfondando il bitume e il cemento.

Gli errori e i tentativi di chi intraprende di creare e di crearsi non sono niente a confronto del privilegio che conferisce una tale decisione: abolire il timore di essere se stessi che segretamente nutre e solletica le forze della repressione.

Noi siamo nati, diceva Shakespeare, per camminare sulla testa dei re. I re e i loro eserciti di boia sono ormai polvere. Imparate a camminare soli e sfiorerete coi piedi quelli che, nel loro mondo che muore, non hanno che l’ambizione di morire con lui.

Sta alle collettività di allieve e professori il compito di strappare la scuola alla glaciazione del profitto e renderla alla semplice generosità dell’umano. Perché bisognerà presto o tardi che la qualità della vita trovi accesso alla sovranità che un’economia ridotta a vendere e a valorizzare il suo fallimento le nega.

Dal momento in cui voi formulerete il progetto di un insegnamento fondato su un patto naturale con la vita, non dovrete più mendicare il denaro di quelli che vi sfruttano e vi disprezzano approfittando di voi. Quel denaro lo esigerete perché saprete come e perché impadronirvene.

Si è al di sotto di ogni speranza di vita finché si resta al di qua delle proprie capacità.

 

 

20 febbraio 1995

 

 

 

Note:

* C. de Brie, “La politica pervertita dai gruppi d’affari”, Le Monde Diplomatique, ottobre 1994

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1 commento

  1. Da 4 anni una frase di questo documento – una scuola dove la vita si annoia educa alla barbarie – compare in esergo nei miei documenti di programmazione d’inizio e fine anno scolastico.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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