La vera natura dei personaggi romanzeschi. Appunti sul romanzo storico [2 di 2]


di Leonardo Colombati

5.
Il rischio dell’allegoria

Quando leggiamo la storia per la prima volta, è come se aprissimo un romanzo intonso.

Nel 1751, all’età di quattordici anni, Edward Gibbon entrò nella biblioteca scolastica e gli capitò sottomano un volume della storia romana di Echard in cui venivano narrate le vicende dell’Impero dopo la caduta di Costantino. Mentre leggeva della traversata del Danubio da parte dei Goti, la campana del pranzo lo costrinse a interrompere quel «festino intellettuale». Non è arbitrario supporre che l’idea della Storia della decadenza e caduta dell’impero romano sia nata dalle ore in cui il giovane Gibbon, impaziente di tornare al libro che aveva dovuto chiudere, si poneva la domanda che tutti noi abbiamo fatto a chi ci leggeva la storia di quell’imperatore che andava tutto nudo in processione sotto uno splendido baldacchino e la gente dalle finestre ne lodava i vestiti nuovi; la domanda è: «E poi, come va a finire?».

Il problema dei romanzi storici è che abitualmente essi hanno l’ineliminabile particolarità di essere romanzi a tesi. De Quincey asseriva che la storia è una disciplina infinita, giacché i medesimi fatti possono combinarsi o interpretarsi in molti modi. Ciò è tanto più vero per il romanzo storico. Ma il rischio che corre questo genere letterario è tremendo: conoscendo, il lettore, già la vicenda di cui parla il romanzo, potrebbe non rivolgere a se stesso la domanda determinante che è abituato a fare da quando era un avido uditore di fiabe. È un rischio davvero incombente se lo scrittore, tutto preso a rimescolare i “fatti” per costruire la propria allegoria, si dimenticasse di dotare di vita, ad ogni pagina, la figurina di quel personaggio realmente esistito che ha ritagliato dagli annali o dalle pagine ingiallite delle cronache.

Che cosa avviene quando, attraverso uno sguardo, un tic, una frase girata con strana malagrazia, ci si rivela all’improvviso il carattere di un uomo? Husserl parlava in casi simili di intuizione, di presentimento, e cioè di «una previsione senza visione, un afferramento oscuro, simbolico» 33. Un uomo non è un treno, un leone o un baobab (per evocare una vecchia canzone): egli è, nel momento in cui lo incontriamo, un’unità che si è costituita nel corso della sua vita, che è – a differenza di quella di un treno, di leone e di un baobab – uno sviluppo spirituale.

Se un uomo fosse un metro e la sua esistenza si misurasse in centimetri, il biografo di un personaggio della storia che volesse raccontarcene in un romanzo dovrebbe operare il trucco di nasconderci il metro e condurci, passo dopo passo, lungo i suoi decimali.

Ancora una volta, per i personaggi reali valgono le stesse regole di quelli d’invenzione.
Appena Anna Karenina giunge in treno a Mosca, un operaio della ferrovia muore investito da un locomotore, ottocento pagine prima che l’eroina del romanzo decida di fare la stessa fine. Ma Vrònskij (e noi con lui), incontrandola per la prima volta alla stazione, vede una donna felice, dagli «scintillanti occhi grigi» 34 – occhi che «sorridevano» 35 –; e quando, tremante, Anna prende la disgrazia occorsa al ferroviere come «un cattivo presagio» 36, il lettore è autorizzato a pensare a tutto meno che a un imminente suicidio.
Allo stesso modo, la giovane Fanny Price piange la morte del suo adorato pony grigio e nel quarto capitolo di Mansfield Park il cugino Edmund le regala uno dei suoi cavalli: una dolce, bellissima e tranquilla giumenta. Se rileggessimo il capitolo dopo aver finito il romanzo, la scena acquisterebbe un significato che lì, in quel momento, non deve avere.
Robert Burns invitò così la signorina Mary Campbell ad abbandonare i campi di fragole dell’Ayrshire e fuggire con lui verso l’America:

Vuoi venir nelle Indie, Mary
e lasciar questa vecchia Scozia
vuoi venir nelle Indie, Mary
attraverso il ruggir dell’Atlantico?

[…]

Promettilo, Mary, e dammi
la tua mano bianca come un giglio
promettilo, Mary, prima
che della Scozia lasci le rive. 37

Miss Campbell (sospetto) esistette veramente in quell’ultimo scampolo di Settecento, e la presupponiamo a Kilmarnock mentre passeggia lungo le sponde dell’Irvine rigirandosi la lettera dell’innamorato fra le mani. La costruzione delle sue fattezze nella nostra immaginazione non può che partire proprio da quelle mani bianche come un giglio, l’unico dettaglio che affiora dalla vaghezza dei versi di Burns. Per quanto riguarda la nostra esperienza di lettori, i due amanti resteranno per sempre cristallizzati nel momento in cui si scambiano la promessa sulla banchina del porto di Stranraer. E le loro figurine, perfettamente cesellate dalla nostra speranza nel ferruginoso cielo scozzese, non trascolorano se per un accidente venissimo a sapere che il poeta-contadino non arrivò mai nel paese «dove dolci crescono limoni e arance / e l’ananas vi cresce» 38, grazie all’intervento della facoltosa Miss Dunlop che gli fece pubblicare con successo i Poems e lo introdusse nei salotti più raffinati di Edinburgo.

6.
L’ambiguo tempo dell’arte

L’ingresso di un personaggio sul proscenio è un mistero che va salvaguardato anche quando della sua vicenda conosciamo già l’inizio e la fine. Pure nei romanzi storici, dove il lettore segue la trama, ma conosce anche l’ordito, ogni personaggio deve essere rappresentato in ogni momento al suo culmine, senza che il suo destino – che già sappiamo – irradi la sua luce fredda a rovinarci lo spettacolo.
Il grasso e bonario dottor Jekyll tiene in mano il bicchiere in cui ribolle per la prima volta il magico reagente che ha preparato nel suo polveroso laboratorio:

Mi feci coraggio e bevvi. Subito dopo fui assalito da spasmi atroci […] C’era qualcosa di strano nelle mie sensazioni, qualcosa d’indicibilmente nuovo e per ciò stesso d’indicibilmente gradevole. […] Allargai le braccia, esultando nella freschezza di queste sensazioni, e mi resi improvvisamente conto di essere diminuito di statura […]. 39

La prima trasformazione del dr. Jekyll in Mr. Hyde è puro racconto. Nella ripetizione del gesto, invece, s’intravede la fiacchezza degli intenti parabolici e allegorici di Stevenson. Come quando Jekyll, che ormai crede di aver risolto il suo problema, è seduto su una panchina di Regent’s Park e…

fui assalito da atroci spasimi, accompagnati da nausea e tremito convulso. […] Abbassai gli occhi: gli abiti mi pendevano informi sulle membra rattrappite; la mano che tenevo su un ginocchio era scarna e villosa. Ero di nuovo Edward Hyde! Un momento prima godevo della stima di tutti, ero ricco e benvoluto, una tavola apparecchiata m’aspettava a casa mia… e adesso non ero più che un proscritto, senza casa e senza rifugio, un assassino a cui tutti davano la caccia, buono soltanto per la forca. 40

Ecco, quando ha a che fare con un personaggio della storia, il romanziere deve fare attenzione a collocarlo nello scantinato di Jekyll, in un tozzo e sinistro edificio, e non sulla panchina di un parco pubblico. Quando le situazioni, nei libri, non nascono dai caratteri, ma sono i caratteri a essere stati immaginati per giustificare le situazioni, di solito si sente puzza di bruciato. Pensate al delitto di Madame de Bellegarde in The American di Henry James: è credibile solo come indice della corruzione di un’antica famiglia.

Nel primo capitolo de Il castello nella foresta di Norman Mailer ci imbattiamo in Heinrich Himmler, lo Chef der Deutschen Polizei che delegò Adolf Eichmann a portare avanti il programma di sterminio degli Untermenschen, ovvero degli “inferiori” rispetto alla razza ariana. Mailer ce lo presenta mentre espone una delle sue tipiche idee in una riunione dei capi delle SS. La scena è rievocata da Dieter, il protagonista del romanzo, collaboratore di Heinrich (Hieini) Himmler:

La sua vocazione intellettuale più amata e riposta ero lo studio dell’incesto, che dominava le nostre indagini più sofisticate. Alle scoperte erano riservate riunioni a porte chiuse. L’incesto, sosteneva Heini, era sempre stato molto diffuso tra i poveri di ogni dove. Nemmeno i nostri contadini tedeschi ne erano rimasti immuni, e questo fino all’Ottocento. «Negli ambienti intellettuali nessuno solleva mai l’argomento», osservava Heini. «Del resto, c’è poco da fare. A chi interessa certificare che un poveraccio è frutto di un incesto? Ogni singola istituzione di ogni singolo Paese civile mira soltanto a nascondere certe cose sotto il tappeto». 41

La scena non funziona. Himmler è da subito il suo epilogo – soprattutto coincide con le proprie idee; e resta per tutto il racconto rinchiuso nelle pagine in cui l’ha destinato la storia.
Sentite, per converso, come in Ventimila leghe sotto i mari dopo sette capitoli entra in scena il capitano Nemo, un altro che passava le sue giornate a bramare stragi e morti come l’Ottavio di Mozart. Appena lo vede, il narratore (un improbabile professore aggiunto del Museo di storia naturale di Parigi), nota subito

i tratti più salienti: fiducia in sé, da come la testa s’ergeva nobilmente sull’arco formato dalle spalle e gli occhi neri scrutavano con fredda padronanza; calma, dal fatto che la pelle – più pallida che colorita – mostrava una circolazione sanguigna regolare; energia, dalla rapida contrazione delle sopracciglia; coraggio, dall’ampio respiro attestante un grande empito vitale.
Aggiungerò che appariva fiero, che lo sguardo fermo e pacato pareva suggerire elevati pensieri e che dal tutto, dalla collimanza cioè tra gesti e viso, un fisionomista avrebbe dedotto la massima sincerità. 42

Non è (ancora) un’idea del suo autore, Nemo; semmai Verne si serve esplicitamente degli studi di Gratiolet 43 per descriverci un uomo rassicurante: «mi sentii, senza volerlo, rinfrancato», dice il narratore dopo averlo visto, «e previdi che l’incontro sarebbe finito bene» 44. Le sue qualità sono la fiducia in sé stesso, la calma, l’energia e il coraggio. Eppure, le caratteristiche fisiognomiche da cui queste impressioni sono desunte possono essere lette in negativo: lo sguardo è raggelante, il volto pallido, le sopracciglia si contraggono rapidamente come per un tic, il respiro è grosso. Potremmo scorgere in questi dettagli il ritratto di un megalomane, solitario, nevrastenico e impaziente amante del terrore.

Un personaggio – reale o inventato – vive solo se è ritratto, ad ogni pagina, al culmine della propria possibilità di esistere nella pagina successiva. D’altronde, la tragedia si fonda sul postulato che vede nella vita umana una mera fatalità e in ogni istante deve contenere la possibilità per l’eroe di sprofondare o redimersi; dove c’è tormento e rovina, c’è anche piacere e speranza.

È noto un caso in cui un personaggio resta in bilico fin oltre l’ultima riga dell’ultima pagina sul versante della possibilità, ed è il conte Ugolino della Gherardesca, ritratto nel trentatreesimo Canto dell’Inferno mentre rode senza fine la nuca di Ruggieri degli Aldobrandini, forbendosi la bocca insanguinata coi capelli del reprobo, e racconta a Dante la morte dei suoi figli nella Prigione della Fame. Sull’interpretazione del verso «poscia, più ch ‘l dolor, poté il digiuno», Borges ha costruito una superba lezione sulla natura dei personaggi romanzeschi. La maggior parte dei commentatori intendono che il dolore per la morte dei figliuoli non poté uccidere Ugolino, ma la fame sì. Dopo un giorno e una notte senza cibo, comunque, ci viene detto che Ugolino si morde le mani per la disperazione; ma i figli credono sia preda dei morsi della fame e gli offrono le loro carni. Tra il quinto e il sesto giorno li vede morire; «poi resta cieco e parla coi suoi morti e piange e li tasta nel buio; poi la fame poté più del dolore» 45.
Qualcuno, suggestionato dalla rapida concatenazione degli eventi e da quel verso sibillino, ha azzardato l’ipotesi che il padre finì per cibarsi dei cadaveri dei figli: secondo Benedetto Croce, è un’interpretazione improbabile ma che non è lecito scartare. Borges così commenta:

Il problema storico se Ugolino della Gherardesca abbia esercitato nei primi giorni di febbraio del 1289 il cannibalismo è evidentemente insolubile. Il problema estetico o letterario è di ben diversa indole. Conviene enunciarlo così: Volle Dante che pensassimo che Ugolino (l’Ugolino del suo Inferno, non quello della storia) mangiò la carne dei suoi figli? Io arrischierei la riposta: Dante non ha voluto che lo pensassimo, bensì che lo sospettassimo. 46

In effetti, Dante dissemina il Canto di suggestioni antropofagiche: leggiamo di Ugolino che rode il cranio dell’arcivescovo di Pisa, sogna cani dalle zanne acuminate che lacerano i fianchi di un lupo e si morde le mani. E allora, qual è il destino del Conte di Donoratico?

Penso che Dante non sapesse di Ugolino molto di più di ciò che riferiscono le sue terzine. […] Nel tempo reale, nella storia, ogni volta che un uomo si trova di fronte a varie alternative opta per una ed elimina o perde le altre; non è così nell’ambiguo tempo dell’arte, che somiglia a quello della speranza e a quello dell’oblio. Amleto in quel tempo, è assennato ed è pazzo. Nella tenebra della sua Torre della Fame, Ugolina divora e non divora gli amati cadaveri, e questa ondulante imprecisione, questa incertezza, è la strana materia di cui è fatto. Così, con due possibili agonie, lo sognò Dante, e così lo sogneranno le generazioni. 47

7.
Dentro il linguaggio

«Il mondo è una mia rappresentazione» 48. Lo pensavano gli scettici, Cartesio e Berkeley, e fu la prima considerazione di Schopenhauer, tratta dalla scienza sacra dei brahamani. Sostenere che «la materia non possiede un’esistenza indipendente dalla percezione mentale, poiché esistenza e percettibilità sono termini equivalenti» 49, può essere di grande conforto per l’artista; perché, per portare un esempio, riesco a indovinare la curiosità di Molière quando finalmente gli permisero di rappresentare Il tartufo alla corte di Versailles: avrebbe davvero il re scambiato il primo attore – il celebre Du Croisy – per quell’odioso ipocrita che era esploso come un’immagine vivida dalla mente del suo autore?
Quando, dopo ben due atti, finalmente Tartuffe entra in scena, chiede al servitore di metter via il cilicio e la camicia di crine e s’affretta ad annunciare che andrà a distribuire le elemosine ai carcerati. D’un tratto scorge la suivante Dorina, trae qualcosa dalla tasca e grida: «Ah, dio mio! Vi prego: primo di tutto, prendete questo fazzoletto. […] Coprite quel seno, ché io non devo vederlo. Sono cose che feriscono l’anima, e fanno sorgere pensieri peccaminosi» 50. La moda femminile, si sa, era uno dei bersagli prediletti della “cabala dei devoti” 51, quella cricca di ipocriti che, come scrisse lo stesso Molière nella prefazione alla sua commedia, «non accettano scherzi: si sono immediatamente inferociti, trovando inaudito che io avessi avuto l’audacia di rappresentare le loro messinscene» 52,quando invece «i marchesi, le preziose, i cornuti e i medici hanno pazientemente tollerato che io li rappresentassi sul palcoscenico, dando addirittura a vedere di divertirsi» 53. E non si pensi che l’assillo dell’acconciatura delle signore fosse una preoccupazione circoscritta solo ai bigotti seicenteschi. Anzi, visto che stiamo parlando della distinzione tra personaggi reali e immaginari, devo dire che quando per la prima volta lessi la scena d’ingresso di Tartuffe mi venne subito in mente un episodio che vide protagonista, negli anni Cinquanta del secolo scorso, un giovane deputato democristiano che anni dopo sarebbe addirittura diventato presidente della Repubblica. Questi, capitato in un ristorante romano, replicando meccanicamente e inconsapevolmente un gesto che Moliere inventò per il nostro divertimento, offrì il suo tovagliolo a una signora perché si coprisse il decoltè troppo vistoso; e secondo alcune testimonianze, al rifiuto di quella, rispose persino con uno schiaffo. L’incidente servì a Fellini come spunto per Le tentazioni del dottor Antonio, dove Peppino De Filippo protestava contro un enorme manifesto pubblicitario in cui Anita Ekberg reclamizzava una marca di latte mettendo troppo in mostra il seno.
Sì, sì, certo: la vita imita l’arte. Ma il punto è un altro. Ed è che l’arte e la vita – la realtà vivente, sub specie transeuntis – sono entrambe giochi di trasmutazioni governati dal Tempo e si manifestano in racconti. Lo sa qualunque scrittore dotato di un minimo di sincerità, e che non solo riesce a perdonare a Schopenhauer l’invito alla contemplazione passiva (finendo spesso per aderirvi), ma sa bene come l’imperativo etico dell’autosuperamento sia forse nelle possibilità soltanto di quegli «esseri di luce» cui il protagonista di un racconto giovanile di Thomas Mann guardava invidioso, «acquattato al buio, come un pipistrello, o come un gufo» 54.
Reietti, isolati, gli scrittori, alle prese con frasi da girare e rigirare perché in qualche modo “funzionino”, hanno un più immediato accesso alla verità secondo cui le nostre intuizioni di quello che esiste in realtà prima e fuori della verbalizzazione non sono altro che traduzioni in nuove metafore e analogie. Ogni cosa è il racconto di una cosa, e pure quando l’attenzione della nostra coscienza si attenua scivolando nel sogno, è impossibile prescindere dalla matrice linguistica con cui siamo stati fabbricati.
L’altra notte ho sognato che vivevo in un appartamento le cui stanze erano identiche a varie case che nella veglia abito o frequento. Solo dopo un po’ mi sono accorto che si trattava di una villa e c’erano pure un parco e un laghetto, sulle cui sponde un re asciugava le lacrime con una scheggia di vetro. Accanto al sovrano, sull’erba, stava una campana, anch’essa di vetro, dentro cui nuotava un pesciolino rosso: ma non c’era acqua, e dunque il pesciolino stava effettivamente volando; con le piccole pinne, a intervalli regolari, colpiva la superficie della sua prigione, e io potevo assurdamente sentire un rumore come di lancette. Intanto, alcune vergini, sulla sponda opposta, si passavano un lungo filo bianco, fino a che una di esse non ne lasciava cadere nell’acqua un’estremità che finiva con un amo; ben presto abboccava una corazza d’argento e nello stesso istante la campana smetteva di battere il tempo, lo specchio d’acqua non rimandava più alcuna immagine, il re era scomparso; restavano solo il profilo scuro della villa in lontananza, l’emiciclo di fanciulle, un principe senza polmoni e un storia che si ripete da quando è iniziato il mondo.
Anche nel sogno, semplicemente, immaginiamo. E la nostra immaginazione è esclusivamente verbale, e si sviluppa in racconti. Diversamente, un cane, una tigre, una zebra, quando sognano (e lo fanno, come è stato dimostrato) non fanno ricorso ad alcun codice linguistico. E, dunque, cosa fanno? Forse, come ha ipotizzato George Steiner, assistono al «dispiegarsi di immagini, di suoni, di dati tattili e olfattivi senza parafrasi concettuale, senza un significato che si possa verbalizzare. Tuttavia, non soltanto non possiamo dimostrare che i sogni degli animali siano fatti di tali immagini e percezioni sensoriali, ma siamo noi stessi incapaci persino di “pensare” questo modo di sognare senza adulterarlo in un discorso verbale» 55. Fermiamoci all’ipotesi e dimentichiamoci della sua indimostrabilità. Se, come gli animali, la nostra mente fosse governata esclusivamente da un susseguirsi sconnesso di dinamiche sensoriali non organizzate dal linguaggio, non saremmo in grado di raccontare, e sia l’arte che la storia sarebbero al di fuori delle nostre possibilità.

8.
Contro la storia

La storia, come la filosofia, è un genere letterario. Io non so che farmene della storia e m’è capitato di discutere pubblicamente con un paio d’archivisti che si domandavano: fin dove uno scrittore può spingersi nell’inventare quando racconta fatti realmente accaduti? Fino a dove gli pare è l’unica risposta possibile. E non perché mi prema attribuire allo scrittore chissà quale libertà; ma perché la storia è un’invenzione e non saprei dir meglio di quanto scrisse Büchner alla fidanzata nel novembre del 1833:

Mi sono sentito come annientato sotto il peso dell’orrendo fatalismo della storia. Trovo che vi è nella natura dell’uomo un’atroce uniformità, nei rapporti umani un’ineluttabile violenza, di cui sono forniti tutti e nessuno. Il singolo: pura schiuma sull’onda; la grandezza: nient’altro che un caso; il prepotere del genio: un teatro di burattini, una lotta terribile contro una legge ferrea; riconoscere tutto questo è il massimo, dominarlo è impossibile. Non mi passa più neppure per la testa di inchinarmi dinanzi ai destrieri da parata e alle cariatidi della storia. 56

Eschilo racconta che quando Atena decise di salvare Oreste dalla condanna per uxoricidio, le Erinni proferirono terribili minacce contro la città e fecero quasi perdere le staffe alla dea della sapienza, finché non le venne in aiuto Peitho, la dea della persuasione: se ti è cara la forza magica della parola – le disse Peitho – e la lusinghiera seduzione attuata dalla mia lingua, allora tu resisterai.
In un romanzo tedesco degli anni Trenta del secolo scorso, invece, veniva descritta la popolazione caucasica degli Okotscioki, dei selvaggi incapaci di utilizzare una qualsiasi forma di linguaggio. Per comunicare urlano, squittiscono e ridono; e sono così insofferenti alla parola che se un estraneo gliela rivolge, lo attaccano 57.
Lo scrittore, quando lavora, non sa mai se verrà ascoltato da Atena o gettato nel Mar Nero da un manipolo di armeni inferociti. Scrivere è comunque un rischio tremendo; osservava un poeta alessandrino nel V secolo:

All’inizio della letteratura c’è una maledizione
in cinque versi: il primo contiene «ira»
il secondo «funesta», e dopo «funesta»
ci sono «infiniti lutti» degli Achei
e il terzo invia le «alme all’Orco»;
nel quarto ci sono «salme» e i «cani»
veloci, e nel quinto gli «augelli», e il
«consiglio di Zeus»… 58

Ma il peggior sortilegio per chi scrive è sapere che in realtà nessuno – nemmeno il più grande – sa scrivere, e che il gesto serve unicamente per cercare di afferrare invano qualcosa che non si lascerà prendere. È così anche con la storia, se poi esiste davvero.

[La vera natura dei personaggi romanzeschi. Appunti sul romanzo è uscito sul numero 44 di Nuovi Argomenti attualmente in libreria]

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NOTE
  1. EDMUND HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (trad. it. Enrico Filippini), Einaudi, Torino 1965
  2. LEV TOLSTOJ, Anna Karenina (trad. it. L. Ginzburg), Einaudi 1945
  3. Ibidem
  4. Ibidem
  5. ROBERT BURNS, Vuoi venir nelle Indie, mia Mary? (trad. it. G. Conte), in La lirica d’Occidente. Dagli Inni omerici al Novecento (a c. di G. Conte), Guanda, Parma 1990
  6. Ibidem
  7. ROBERT LUIS STEVENSON, Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Sig. Hyde (trad. it C. Fruttero e F. Lucentini), Einaudi, Torino 1983
  8. Ibidem
  9. NORMAN MAILER, Il castello nella foresta (trad. it. G. Granato), Einaudi, Torino 2008
  10. JULES VERNE, Ventimila leghe sotto i mari (trad. it. L. Tamburini), Einaudi, Torino 1995
  11. Louis-Pierre Gatriolet (1815-1865), medico francese, s’occupò specialmente dell’anatomia e della fisiologia del sistema nervoso umano e dei mammiferi.
  12. JULES VERNE, Cit.
  13. JORGE LUIS BORGES, cit.
  14. Ibidem
  15. Ibidem
  16. ARTHUR SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione (trad .it. N. Palanga), Mondadori, Milano 1989
  17. WILLIAM JONES, On the Philosophy of the Asiatics; Asiatic Researches, cit. in ARTHUR SCHOPENHAUER, cit.
  18. MOLIÈRE, Il Tartuffo ovvero l’impostore, Atto III, Scena II (trad. it. L. Lunari), Rizzoli, Milano 1978
  19. Così, ironicamente, veniva chiamata la Compagnia del Santo Sacramento, una libera associazione – fondata nel 1629 per iniziativa del duca di Ventadour – che raccoglieva laici e religiosi con lo scopo dichiarato di sostenere nella società opere di carità cristiana, ma con il preciso e segreto intento di costruire una rete di interessi e uno strumento di intervento a difesa di un rigoroso integralismo cattolico, contro le insidie del progresso filosofico e scientifico e della libertà del pensiero e dei costumi.
  20. MOLIÈRE, Prefazione, in Il tartufo ovvero l’impostore, cit.
  21. Ibidem
  22. THOMAS MANN, Il pagliaccio, in Novelle e racconti (trad. it. E. Castellani e M. Merlini), Mondadori, Milano 1953. L’esperienza intellettuale di Mann, come era la regola nella Germania di fine Ottocento, era permeata dal pensiero di Shopenhauer al punto che nell’imminenza della propria fine, Thomas Buddenbrook, il penultimo di una dinastia destinata ad estinguersi, legge Il mondo come volontà e rappresentazione, e per l’esattezza il capitolo XLI dei Supplementi intitolato «Della morte e del suo rapporto con l’intrinseca indistruttibilità del nostro essere».
  23. GEORGE STEINER, La storicità dei sogni, in Nessuna passione spenta. Saggi 1978-1996 (trad. it. C. Béguin), Garzanti, Milano 1997
  24. GEORG BÜCHNER, cit. in PAUL CELAN, cit.
  25. BEY ESSAD, Zwölf Geheimnisse in Kaukasus, cit. in PAOLO ALBANI e BERLINGHIERO BUONARROTI, Aga megéra difúra. Dizionario delle lingue immaginarie, Zanichelli, Bologna 1994
  26. PALLADA D’ALESSANDRIA, All’inizio della letteratura c’è una maledizione (trad. it. G. Conte), in La lirica d’Occidente, Guanda 1990

4 Commenti

  1. “Ma il peggior sortilegio per chi scrive è sapere che in realtà nessuno – nemmeno il più grande – sa scrivere, e che il gesto serve unicamente per cercare di afferrare invano qualcosa che non si lascerà prendere.”

    Scandalosamente vero.

  2. L’uomo “è, nel momento in cui lo incontriamo, un’unità che si è costituita nel corso della sua vita, che è – a differenza di quella di un treno, di leone e di un baobab – uno sviluppo spirituale”.(LC)
    Se lo sviluppo spirituale ha a che fare con la psiche, allora ci sarebbe da tenere in conto quella grossa rivoluzione analitica novecentesca che è stata la psicoanalisi: Super-Io, Io ed Es. E ci sarebbe anche da tenere in conto, almeno in parte, l’analisi dell’ideologia (selon Marx e Althusser) quando si parla dell’uomo quale unità costituitasi attraverso il suo sviluppo spirituale.
    “Il mondo come mia rappresentazione”. Sarò démodé, ma la critica di Lenin a Berkeley, Mach e Avenarius andrebbe anch’essa tenuta in considerazione.

  3. Molto interessante. Io credo che l’unico realismo davvero auspicabile sia quello che riesce a svelarci l’essenza nascosta delle cose, “la nerezza segreta del latte”, per dirla con Celan e Audiberti.

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