La vittima, la memoria, l’oblio

di Christian Raimo

Nello spento dibattito politico italiano, ossia in quel palcoscenico sfasciato che può venir occupato per giorni da un dito medio di Bossi, da una caduta dal gommone di D’Alema o dagli apprezzamenti di Berlusconi per una schermidora olimpica, c’è forse un tema meno farsesco che ha carsicamente attraversato gli ultimi mesi, ed è quello della memoria.

 

Da Veltroni che quest’estate ne ha fatto una piccola apologia con una lettera aperta a “Repubblica” in coda alle geremiadi di Scalfari e Moretti sul disastro civile immanente, alla rivisitazione in chiave post-ideologica del fascismo da parte di La Russa e Alemanno, alle dimissioni conseguenti dello stesso Veltroni e di Amato (rispettivamente, dal comitato del museo della Shoah e dalla commissione interpolitica promossa da Alemanno), alla querelle Fini contro Azione Giovani, fino allo scontro tra Mario Calabresi, giornalista e figlio del commissario Luigi ammazzato nel maggio 1972, e Adriano Sofri, giornalista e detenuto da ormai dieci anni per quest’omicidio: si parla tanto di memoria, di memoria disprezzata, mancante, perduta, non condivisa.

Si potrebbe partire proprio dall’inedito scatto di Sofri per individuare alcune costanti che caratterizzano questi e altri episodi. Il destro, all’ex-leader di Lotta Continua, era stato fornito da un articolo di “Repubblica” del 10 settembre, in cui Mario Calabresi faceva un dolente reportage dell’assemblea che le Nazioni Unite avevano indetto a New York, chiamando a raccolta una cinquantina di vittime di atti terroristici avvenuti a ogni latitudine del mondo. Seduti, uno accanto all’altro, una donna africana coinvolta nell’esplosione dell’ambasciata americana a Nairobi nel ’98, la bambina di uno dei morti delle Torri Gemelle, la maestra della scuola di Beslan, Ingrid Betancourt da poco liberata, il figlio di un pacifista indiano ammazzato da integralisti… e non ultimo lui – Mario Calabresi –, invitato come orfano di un padre ucciso trentacinque anni fa da un commando ancora non identificato. Lo scopo dell’incontro, secondo le intenzioni dell’Onu, era di cominciare ad ascoltare la voce delle vittime, per riuscire in futuro a trovare una definizione di terrorismo, cosa che, riconosceva lo stesso Calabresi, pare oggi non semplice, soprattutto per le immaginabili contrapposizioni dei rappresentanti israeliani e arabi.

L’indomani sul “Foglio”, Adriano Sofri replicava a caldo, dichiarando: Io non sono un terrorista, e soprattutto quell’omicidio per cui io sono stato condannato, pur professandomi innocente, non fu comunque un atto terroristico. Era l’ovvio innesco per editoriali, commenti, precisazioni, polemiche e contropolemiche che occupavano le pagine dei quotidiani nei giorni successivi. Nessuno di questi però centrava un punto. Ovvero: il fatto che l’affermazione di Sofri (“Io non sono un terrorista”) avesse del tautologico in sé. Chi mai al mondo si definisce terrorista?

Lo scorso anno per Bompiani è uscito All’ordine del giorno è il terrore, un pamphlet di Daniele Giglioli, che proprio da questo paradosso prendeva le mosse: “Il terrorismo è la violenza degli altri”, era la frase d’attacco. “Nessuno si definisce terrorista. Non al-Qaeda, non i guerriglieri dei movimenti di liberazione nazionale, non i brigatisti, non i fanatici religiosi che spargono gas nella metro di Tokyo, non i regimi autoritari che praticano sistematicamente il Terrore di Stato; e meno che mai i governi democratici, anche quando bombardano civili inermi”. È quello che devono aver pensato anche all’Onu. Se nessuno di quelli che piazza bombe o spara nella folla, si proclama terrorista, per capire cosa è il terrorismo partiamo dai racconti di chi la subisce la violenza. Partiamo dalla voce delle vittime.

Ecco che però, se pure con tutte queste buone intenzioni iniziamo a rovesciare il punto di vista e non ascoltiamo più la voce detonante dei terroristi ma il silenzio agghiacciato di chi sopravvive, all’aporia precedente se ne sostituisce ben presto un’altra. Quella di trovarci di fronte a una teoria infinita di testimonianze emotive, molto spesso laceranti, strazianti, che però: quanto riescono a dirci delle irragionevoli ragioni che stanno dietro un attentato o un sequestro?

Il paradosso dell’attenzione alla vittima è proprio questo. Se noi immaginiamo una società che invece di interrogarsi sulle cause dei conflitti, debba prima di tutto elaborare i lutti e proteggere dalle sofferenze, chi riuscirà a darci conto della giusta considerazione di un trauma? A una madre che ci dice che niente mai potrà compensare l’assassinio di un figlio, cosa potremmo mai obiettare? Chi può pronunciare parola davanti alla testimonianza di un uomo – come scrive Calabresi – “che ha perso 27 tra amici e parenti per l’esplosione del ristorante in cui stava festeggiando il suo matrimonio”? È per comprensibile attitudine empatica che si può finire per appiattirsi sulla prospettiva delle vittime, fare del loro il nostro punto di vista, fino a fargli un torto mascherato da ragione: monumentalizzarle, farne delle icone viventi. Testimoni, vittime, superstiti, al posto degli eroi, dei militanti, dei vincitori che fino all’altroieri facevano la storia, e la politica.

È questo un rischio che a partire dagli anni ’90 è stato evidenziato da vari storici, prima fra tutti Anniette Wieviorka, che coniò la famosa espressione l’Era del testimone, indicando un’epoca come la nostra, nella quale i perdenti, le vittime, ignorati per decenni, diventano d’amblais coscienza civile di un paese e incarnazione vivente di un passato da ricordare in modo prescrittivo.

Generata dal processo di santificazione in vita dei superstiti dell’Olocausto, di questa corsa alla “vittimizzazione” hanno parlato in tanti (pochi in Italia): Susan Sontag (Davanti al dolore degli altri), Luc Boltanski (Lo spettacolo del dolore), Slavoj Žižek (Contro i diritti umani), Denis Salas (La volonté de punir) l’ha messa ben in evidenza parlando di “irruzione della vittima nella nostra società”, Daniele Giglioli ne ha sostenuto la sua centralità nella costruzione dell’identità nella coscienza contemporanea, René Girard (Vedo Satana cadere come la folgore) ha addirittura individuato in questa tendenza la comparsa dell’Anticristo. All’improvviso, nel nuovo millennio, lo status sociale della vittima sembra essere diventato l’unico soggetto di diritti, degno di ascolto, e portatore di verità.

Ma l’immediato effetto perverso di questa sostituzione (all’essere umano che agisce subentra l’essere umano che patisce) l’hanno giustamente intravisto vari teorici del diritto, come Robert Cario o Andrè Bellon: in un clima di depoliticizzazione, il conflitto delle ideologie lascia campo totalmente libero allo scontro binario vittima-carnefice. Le rivendicazioni politiche acquisteranno valore soltanto se troveranno non delle idee da difendere o per cui combattere, ma delle vittime da compatire e da compensare. Come sintetizza Richard Sennett (Autorità): “Nulla di più pericoloso di una condizione in cui l’idea stessa di diritto, ‘quello che mi spetta’, si può esprimere solo nella forma di ‘quello che mi è stato negato’”. E bene l’hanno capito molti nuovi conservatori, che del loro essere vittime di uno Stato oppressivo, del senso di insicurezza, del fisco aggressivo, o dell’acrimonia di magistrati ideologizzati hanno fatto l’arma strategica principale.

Ma questa tendenza è indicativa di un’altra sostituzione che ne è a fondamento, ed è forse più problematica, soprattutto nella sua versione progressista: quella della memoria che si mangia la storia. La memoria, come la vittima, era un emerita sconosciuta nel dibattito culturale, nelle scienze sociali fino a vent’anni. Oggi, come sintetizza perfettamente Ezio Traverso nel Passato: istruzioni per l’uso, “ha invaso il terreno”, ormai ingloba in sé il passato e lo fa con una rete a maglie più larghe di quelle della disciplina chiamata storia: depositandovi una dose ben più grande di soggettività e di “vissuto”. Ci appare come una storia meno arida, più toccante, più “umana”.

Questa capacità emotiva della memoria, rispetto alla “freddezza” della storia, viene invocata consapevolmente da Calabresi nell’articolo, così come da Veltroni nella sua lettera a “Repubblica”, quando esalta, rispetto alla Grande Storia che sorvola le nostre teste, le mille piccole storie singolari e drammatiche raccolte nei recenti archivi di storia nazionale: “Il grumo di vita vera che le vicende umane di Pieve Santo Stefano e di bancadellamemoria.it raccontano ci ricordano che tutto non può essere riassunto in grafici colorati e in parole sagge. […]La storia grande, quella sistemata ordinatamente nei libri, ha significato un padre scomparso in Russia, una sorella devastata dal tifo, un figlio trasformato in una sagoma dipinta con il gesso sulla strada. La memoria. Ciò che ci fa, storicamente e soggettivamente, quello che siamo”.

La memoria, il dovere della memoria, il dovere della memoria perché la storia non ripeta i suoi errori: questa esortazione è ormai organica alla nostra sensibilità. Ma è vero che la memoria crea la nostra identità? È un processo così lineare, così automatico? Il richiamo alla memoria, alla sensibilizzazione non rischia invece autoconfutarsi? Quando Veltroni reagisce in modo fermo e indignato alle affermazioni di Alemanno e La Russa che cercano di riabilitare il fascismo e i repubblichini che “dal loro punto di vista” combattevano per la patria, non si accorge che in fondo l’autorevolezza del suo discorso è quella di una celebrazione della memoria che si oppone a un’altra celebrazione della memoria? Non si rende conto che la sacralizzazione che lui incoraggia di questa memoria non può che portare a una contrapposizione di due eredità vittimarie? I caduti per la patria in disfatta e i caduti per la Resistenza. I ragazzi delle montagne e i ragazzi di Salò. I superstiti che festeggiano la giornata della Memoria e i superstiti che festeggiano quella del Ricordo. I cuori rossi e i cuori neri. Se si sdogana la contesa delle vittime, nessuno avrà mai scampo. Ognuno, dal suo punto di vista, se ci fidiamo della memoria, sarà più vittima dell’altro. E ogni vittima, come ricorda Hannah Arendt, produrrà altre vittime. Mentre le ragioni di queste ferite andranno perdute. Perdute, cancellate, in nome di attenzione così grande alla fragilità dell’essere umano tale da oscurarne la sua complessità di individuo.

Riempire troppo la memoria lascia uno spazio vuoto. Come capita ad esempio nella laconica didascalia che lo stesso Veltroni, da sindaco, ha fatto apporre intitolando una via a Paolo Di Nella, militante neo-fascista, brutalmente assassinato nella Roma degli anni ’70: Paolo Di Nella, (1963-1983) vittima della violenza. La questione principale non è la doverosità dell’omaggio, ma la domanda non esplicitata: Quale violenza? Cosa accadde allora? Uno tsunami sconvolse l’Italia? Un’epidemia di spagnola? Come si chiamava la violenza che uccise Paolo di Nella?

La vicenda della morte di Paolo di Nella che Luca Telese che ricostruisce in Cuori neri, vero libro rivelatore di questa memoria che cannibalizza la storia, diventa emblematica proprio per l’enfasi sull’emotività, sulla soggettività che finisce per rendere opaco il contesto che si vuole illuminare. Come per il caso Calabresi, come per le ultime polemiche su fascismo e Olocausto.

Tobia Zevi, sull’Unità del 10 settembre, richiamava a se stesso e alla sua generazione la responsabilità primaria dei giovani di rammemorare il passato, ricordando una ragione “tecnica” che mina ogni giorno di più la nostra memoria sulla Shoah: il fatto che i superstiti hanno novanta e più anni, stanno morendo. È una considerazione con cui non si può che concordare, che fa risuonare le parole di Primo Levi pochi anni prima di morire, nei Sommersi e i salvati (“Per noi parlare con i giovani è sempre più difficile. Lo percepiamo come un dovere, ed insieme come un rischio: il rischio di apparire anacronistici, di non essere ascoltati”), ma che deve tenere conto di un altro processo imprescindibile.

Quello che la nostra epoca sta dimenticando, nella sua capacità di riproducibilità della memoria, è proprio il valore dell’oblio. Oblio è oggi sinonimo di ignominia. Mentre è invece dell’oblio che bisognerebbe fare un’apologia, riscattando la sua funzione dialettica da contrapporre agli eccessi di memoria che cristallizzano il passato. Rivalutare questa capacità della memoria di perdere se stessa vuol dire riscoprire il valore di un “oblio attivo”, come lo definiscono Paul Ricoeur e Marc Augè, opposto all’ “oblio passivo” che è coazione a ripetere senza fare esperienza, desiderio di fuga, o nel peggiore dei casi revisionismo e negazionismo.

L’oblio invece può dimostrarsi quella possibilità che la nostra umanità ci concede di gestire, di diminuire il carico emotivo con cui affrontiamo le difficoltà della vita: ma senza che ciò produca una rimozione. D’altronde è questo il quiproquo: l’accelerazione dei processi di elaborazione emotiva ha fatto sì che molto spesso, alla dialettica memoria-oblio, noi siamo costretti a supplire con quella più rapida registrazione-rimozione.

L’emotività, senza che sia accompagnata da un parallelo processo di conoscenza teorica, rischia di finire come un nastro magnetico su cui si registra sopra in continuazione. È per questo che anche l’esperienza più intensa – che può essere quella di visitare Auschwitz o di parlare vis-à-vis con un ex-deportato, se non comprendiamo la complessità storica, se non siamo capaci di distanziarcene per capire da noi stessi dove collocarla emotivamente, può avere soltanto la funzione di uno shock momentaneo, un input di sensibilizzazione che registreremo insieme a tanti altri, e che non ci consentirà di costruire la nostra identità come scelta. Non dovrebbe essere invece preservato il nostro ambito di scelta, ossia di responsabilità? Di distinguere, senza ovviamente separare, le nostre convinzioni dal nostro vissuto emotivo? Non è eclatante in tal senso la parabola di Benny Morris? Grande new historician e paladino della sinistra, dopo aver riscritto la storia della nascita di Israele e aver attribuito a Ben Gurion la responsabilità di una deportazione dei palestinesi avvicinabile a un disegno di pulizia etnica, Morris ha negli ultimi anni distinto sempre di più la sua prospettiva di studioso dalla sua visione politica, tanto da affermare in una recente intervista: “Capisco e dunque approvo i crimini di guerra e le espulsioni di massa di allora. Si deve essere pragmatici, il moralismo nella storia è un impiccio, un ostacolo. La verità è che non poteva sorgere uno Stato ebraico che avesse al suo interno una minoranza araba ostile e numerosa. Ben Gurion ne era convinto e aveva ragione. Se non li avesse espulsi, non ci sarebbe Israele”.

 

Come la storia ci insegna un uso attivo della memoria che può paradossalmente portare anche alle posizioni di Morris, così dovremmo esercitare un uso attivo dell’oblio. Ossia, renderci capaci di un lavoro selettivo che interessi i processi della comprensione e del racconto, e quindi diventi al pari della memoria matrice della storia, e costituente della nostra identità. L’oblio attivo ci permette di non considerare il passato un cristallo del tempo, e quindi di “fare nostro” quel vissuto. In definitiva, è ciò che ci rende capaci di giudicare come di perdonare.

A ricordarci il valore di quest’arte perduta, l’ars oblivionis, è l’esempio meta-storico delle tante occasioni in cui si è inverato quel motto che rilanciava la possibilità di coesistenza ad Atene dopo la guerra civile: mè mnesikakein, non ricordare il male subito. Da allora fino alla commissione di riconciliazione in Sudafrica, gli esseri umani hanno spesso preservato l’oblio come unica possibilità di sopravvivenza della specie.

(Pubblicato a ottobre sul Riformista)

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48 Commenti

  1. Grazie C.,
    i tuoi pezzi sono sempre pieni di senso: una rarità in questi tempi di “voluptas vacui”…

  2. Posso dire che ammiro la chiarezza con cui Christian Raimo introduce questo problema forse decisivo per la nostra cultura.
    Ma altrettanto mi meraviglia la dimensione limitata in cui viene trattato, sino ad arrivare, assieme ad altre, ad affermazioni surrreali come questa

    “All’improvviso, nel nuovo millennio, lo status sociale della vittima sembra essere diventato l’unico soggetto di diritti, degno di ascolto, e portatore di verità.”

    Tra Cristo e gli infiniti martiri, sino al recente “Il secolo del martirio. I cristiani nel Novecento” di Andrea Riccadi, non è forse stata la Chiese – di cui non si fa parola nel’articolo – ad assumere questa forma di “diritto della sofferenza” per poter annullare il diritto della ragione e governare i poveri di spirito attraverso il ricatto del sentimento?

    Niente di nuovo nel nuovo millennio, solo la riconquista da parte del cristianesimo dell’egemonia nella vita civile che sembrava aver perduto.
    E che si rafforzerà ancora di più grazie a tutti quei “mediatori” che in campo laico non riconoscono nella lotta contro la chiesa rappresetntata da Benedetto XVI uno dei principali doveri per chi vuole restare laico e non oppresso da alcuna chiesa.

  3. E’ una questione cruciale e anche se mi trovo di trovare ragione in soldato blu credo che anche il mondo laico si sta lasciando avvolgere da questa regressione per cui si è molto più definiti dai propri traumi e dai loro segni piuttosto che da quello che la vita di ognuno significhi e dalle scelte e i percorsi voluti e costruiti. Speculare e meno cruciale è che la vittima diviene solo la portatrice del trauma e imprigionata non riesce quasi a farsi percepire per persona complessa definita dalle proprie scelte e non dagli eventi.

  4. Caro Soldato Blu. Ecco un esempio di come i propri fantasmi personali (o culturali) possono far travisare completamente un testo. Il testo si pronuncia contro e non a favore della vittima quale unico testimone, del vittimismo come sistema di riferimento giuridico. L’autore di riferimento è Girard, che identifica nel mito e nell’individuazione del capro-espiatorio la base della violenza sociale. Sempre secondo Girard, il cristianesimo ci ha liberati da tutto questo non solo perchè Cristo è la vittima innocente (che smaschera l’accusatore mitico) ma soprattutto perchè si offre in espiazione dei peccati dei suoi stessi assassini, disinnescando il vittimismo e il suo perpetuo risentimento-vendicativo. Rappresentarsi la teologia cristiana come da bigini del Diamat non aiuta. Se vuoi esplorare meglio l’ideologia della vittima perpetua, rivolgersi piuttosto in sinagoga, sapendo però se spari sul Vaticano ti toccano applausi, se chiami le cose di Tel Aviv col loro nome è l’accusa di antisemitismo e la morte civile. Così magari impari anche dove sta il potere, quello vero.

  5. Temo che non solo la “memoria” sia stia mangiando la storia, ma che pure il “vittimismo” ideologico stia divorando le vittime reali. Che esistono, prima di tutto. Sempre. Ovunque. Sono convinta che si possa – e che si debba- continuare astare dalla parte delle vittime (che non sono né buone né sante ecc) e continuare insieme ad esercitare il ragionamento e il giudizio. Così come – molti ottimi storici ce lo dimostrano- si può benissimo fare il mestiere dello storico usando le testimonianze, ricostruendo una microstoria “più umana” che non perda d’occhio l’analisi e il quadro di insieme.
    Il nodo dolente è un altro: che, secondo la più classica dialettica dell’illumisismo, quello che doveva essere un’aquisizione importante per misurare sui reali casi umani la Storia con la maiuscola, ma sempre all’interno di un pensiero tendente verso un’ universale, si è – nei casi più estremi- letteralmente pervertito nel suo contrario: il un rifiuto del pensiero, della ragione, dell’universalità. In un uso rivendicativo e identitario e per sua stessa natura aggressivo, della nozione di memoria e di vittime.
    Il riconoscimento delle vittime doveva unire e invece ora divide. Per questo capisco che Girard ci veda lo zampino del diavolo.
    Però- e mi preme ripeterlo- se una cosa viene girata nel suo contrario, questo non vuole dire che all’origine era sbagliata. E invece vuole forse dire proprio quel che poneva come condizione di partenza era talmente pietra dello scandalo che il modo più efficace per neutralizzarla, consisteva proprio nel suo ribaltamento.

  6. Vacci piano, Valter. Io non sono quella che difende i propri morti azzannando gli altri. Non vi va per niente: vedi sopra. Ma a Bombay oggi sono stati ammazzati tre degli ebrei presi in ostaggio in un centro che con le tue parole posso chiamare Sinagoga. Perché continuiamo ad essere anche vittime reali, non solo quelli là che a Tel Aviv o altrove difendono l’ortodossia del primo posto fra le vittime.

  7. @ helena
    E’ proprio per quello che dici che si deve distinguere tra vittime e loro diritto ad essere ovviamente tutelate e riconosciuto e il diritto di criticare una politica e un pensiero senza confondere i due piani.

  8. La prima difesa contro la genericità è rifiutarsi di mettere sotto la voce terrorismo fenomeni politicamente e storicamente del tutto diversi tra loro.

  9. Bel pezzo, forse un po’ veloce. Raimo riassume lucidamente il libro di Traverso (i primi due capitoli) e lo integra con alcuni riferimenti allo spettacolino partitico italiano. Non sapendo cos’è il terrorismo si parte dalle vittime. E’ vero che si deve stare dalla loro parte, ma la vittima non può essere una categoria. Non può rientrare nelle appartenenze, nelle squadre. I morti non si possiedono. Ricordate Celan? “Nessuno testimonia per i testimoni”.
    Ci sono dei punti sui quali sarebbe necessario tornare. Nell’ombra la distanza e l’obiettività della storia, sulla ribalta la soggettività e la singolarità della memoria. Ha pesato il bisogno di risarcimento simbolico di chi ha sofferto. Ma forse è emersa anche un’altra esigenza: il passato costretto ai piedi del presente, che lo ingloba e assimila, espellendo e neutralizzandone la perturbante alterità. La scorciatoia della memoria permette di saltare gli ostacoli della riflessione e della pazienza, ferri del mestiere del detective del passato. Politicizzazione, presentificazione e soggettivizzazione sono invece gesti semplici e di sicuro successo. Privilegiare i punti di vista dei singoli testimoni significa abdicare alla missione incarnata dal cammino arduo della verità storica. Lo storico ha dei doveri scientifici, quindi sociali. La condivisione del passato che dovrebbe far scorrere il sangue nelle vene della nostra società, la verità dei padri che dovrebbe rappresentare l’ossigeno della nostra convivenza, è in crisi da un secolo. Finite le ideologie onnicomprensive, è facile lasciare campo libero all’esperienza dei singoli e al relativismo che evita o depoliticizza i conflitti. Ma c’è di più. L’enfasi sulla memoria e le vittime non ha solo messo in difficoltà la disciplina storica.
    In un tempo in cui l’umanitarismo costituisce la foglia di fico del politico, la crisi dell’esperienza del dolore è il trauma inconfessabile. La graduatoria dei dolori è quello a cui assistiamo da tempo. Il problema o il rimedio non è l’oblio attivo (e perché mai cadere sulle contingenze partitiche: la chiesa, il versante progressista, Veltroni!). Quando Ricoeur dopo 600 pagine del suo La memoria, la storia, l’oblio, parla di OBLIO FELICE, dice poi anche che è impossibile, e che lo iato tra storia e memoria è insormontabile. Davvero non si scorge questa presunta “attitudine empatica”. L’empatia grida la sua assenza proprio nell’atto del ciarlare ripetuto sulle vittime. E il dolore resta in esilio in un’epoca di sentimentalismi e santificazione dei vissuti. Pensiamo infine a come concepiamo anche il concetto di diritto: la frase di Sennett andrebbe riformulata. Diritto, ciò che mi spetta, è proprio che mi evita l’eventualità dell’esperienza della vittima. Spero di non essere stato troppo verboso, è un tema che mi sta a cuore (la memoria!).

  10. @ Valter Binaghi

    C’è molta differenza tra chi cerca di capire – talvolta sbagliando – e chi (stavo dicendo: pensa, ma poi mi è parso che non era il caso) crede che non ci sia niente da capire e che tutto è chiaro.

    Il caro Girard, caro Binaghi, te lo puoi tenere, non tutto certo, ma almeno da quando ha preso quella sbandata irrazionale illustrata in quel libro simbolo di menzogna che è “Delle cose nascoste”, A.D. 1983.
    In cui, come sembra tu abbia odorato, sentendone il fetore culturale, questo signore si permette di affermare che il cristianesimo sarebbe l’unica vera religione perchè non ha mai usato né usufruito del meccanismo vitttimario.
    Che poi questo Girard sia diventato un leccaculo di Benedetto XVI, uno potrebbe anche fregarsene, se non fosse, appunto, che lui è diventato un militante di un esercito che considero nemico.
    Fortuna che la sua stessa ambizione le spunta le armi, rendendolo ridicolo sin dalla fondazione del mondo. Questa è una primizia: nei prossimi mesi una casa editrice neo.con italiana pubblicherà del sopraddetto l’ultimo parto: “Anoressia e desiderio mimetico”.

    E poi Binaghi queste favole:”il cristianesimo ci ha liberati da tutto questo non solo perchè Cristo è la vittima innocente (che smaschera l’accusatore mitico) ma soprattutto perchè si offre in espiazione dei peccati dei suoi stessi assassini, disinnescando il vittimismo e il suo perpetuo risentimento-vendicativo”. Io non ci credo, ma tu che ci credi, come cazzo fai a pensare che uno che figlio e che è dio è innocente. Dillo a Giobbe o dillo a quelli di Gerico.
    Se qualcuno le raccontasse in mia presenza, penserei a un’intenzione di offesa.
    Perchè non considerando, come in questo caso, un imbecille chi le racconta (questo mi pare di averlo comunicato direttamentea Binaghi, anche se ha detto che non aveva capito), penserei che è lui che considera imbecilli quelli a cui le racconta.

    La disonestà intellettuale di cui accuso Binaghi è la stessa disonestà intellettuale con cui ogni buon cristiano, come in questo caso, quando
    si mettono in forse certi meccanismi in cui la chiesa ha sguazzato per secoli, ti accusa di non avere compassione o di non essere dalla parte delle vittime.

    Ecco carissimo Binaghi: io provo sempre compassione per le vittime, ma non sempre le vittime sono vittime, e qualche volte provo compassione, ma sono contro di loro.

    In qualche caso, confesso, sarei addirittura contento che qualcuno cadesse vittima.

    Per finire.
    Questa, secondo me, è la differenza, in generale, tra la vittima cristiana e le vittime ebree: le vittime ebree – nella lotta attuale non voglio entrarci – storicamente sono state vere vittime. Quelle cristiane, per la maggior parte, erano militanti, conducevano una guerra santa o entravano in territorio nemico per far proselitismo: non era vittime erano combattenti.
    E, per quanto mi riguarda, in questi casi, sono cazzi loro.

  11. @Soldato blu
    Se dobbiamo parlare di cattivi credenti finiamola subito: ogni religione ha i suoi, che la squalificano. Io vorrei restare su un piano teologico, cioè ciò che una rivelazione religiosa dice di Dio e del mondo. E qui, mi pare evidente che, per quanto ogni tradizione abbia un’origine etnica e particolare, le religioni hanno diversamente contribuito allo sviluppo di quel bene indiscusso (per me e per te, credo), che è la libertà individuale, l’universalità del diritto, la laicità dello Stato, la modernità buona insomma.

    @Helena
    Ci vado piano, son disposto a riconoscere che tutte le culture religiose hanno messo i loro bravi ostacoli all’affermazione della buona modernità di cui parlo sopra. ma tu mi spieghi perchè all’islam e al cristianesimo viene chiesto di dissolversi in essa mentre all’ebraismo è concesso di rappresentarne l’unica eccezione con uno Stato che si fonda sulla presunzione dell’Elezione, la discriminazione nella cittadinanza e la violazione sistematica del diritto internazionasle?

  12. @Soldato blu
    Se dobbiamo parlare di cattivi credenti finiamola subito: ogni religione ha i suoi, che la squalificano. Io vorrei restare su un piano teologico, cioè ciò che una rivelazione religiosa dice di Dio e del mondo. E qui, mi pare evidente che, per quanto ogni tradizione abbia un’origine etnica e particolare, le religioni hanno diversamente contribuito allo sviluppo di quel bene indiscusso (per me e per te, credo), che è la libertà individuale, l’universalità del diritto, la laicità dello Stato, la modernità buona insomma.

    @Helena
    Ci vado piano, son disposto a riconoscere che tutte le culture religiose hanno messo i loro bravi ostacoli all’affermazione della buona modernità di cui parlo sopra. ma tu mi spieghi perchè all’islam e al cristianesimo viene chiesto di dissolversi in essa mentre all’ebraismo è concesso di rappresentarne l’unica eccezione con uno Stato che si fonda sulla presunzione dell’Elezione, la discriminazione nella cittadinanza e la violazione sistematica del diritto internazionale?

  13. @Valter Binaghi

    Forse, nella foga – lo devo ammettere – non sono stato molto chiaro: non considero la religione la mia nemica, ma la Chiesa.

    Chiesa che è mia nemica perché, sono parole tue: “è uno Stato che si fonda sulla presunzione dell’Elezione, la discriminazione nella cittadinanza e la violazione sistematica del diritto internazionale.”

    Per l’altro, sono trent’anni che parlo di teologia, qualche volta anche divertendomi, a causa di amici che sono come te.

  14. Valter: non confondere Stato e religione. Poi anche nell’opzione per uno stato ebraico – rispetto a quella pure appogiata da alcuni sionisti all’origine di uno misto- non conta nessuna idea di elezione religiosa in senso stretto, malgrado la teocrazia e tutto. Le cose stanno più complicate, ma basta rammentarti che gran parte (non tutta) l’ideologia sionista fondativa, Herzl in primis, avevano una visione laica, nazionalistica della questione ebraica. Dal punto di vista della religione le cose stanno anche lì in molti modi. Ci sono ebrei ultraortodossi, anche e soprattutto in Israele, che ritengono lo stato qualcosa di illegittimo, visto che solo il messia ecc. Ci sono ebrei praticanti, anche rabbini, che sono critici della politica dello stato israeliano. Poi ci sono i vari fondamentalisti che per me sono ugualmente deleteri a qualsiasi religione appartengano. E infine, ultima cosa – ma non prenderla per una mossa pubblicitaria pro-ebraismo: l’ebraismo non è una religione espansionistica. E non ha mai ammazzato in nome della religione. In senso stretto – pochi fanatici a parte – non lo fa nemmeno oggi. L’islam sì. E’ al cristianesimo credo spetti comunque il primato della conversione ottenuta col sangue (anche rispetto all’islam) e della persecuzione degli infedeli fino alla morte. Questo non vuol dire nulla sulla sua sostanza. Che, almeno per il Girard dei primi tempi, è bi-fronte. Da un lato rivelatrice del meccanismo vittimario, foriero di istanze di libertà, dall’altro vittimaria. Il cristianesimo che ha dominato nei secoli, che si alleato col potere, che ha formato nei credenti una certa cultura della sofferenza, è il secondo. Cosa di cui Gesù e i suoi apostoli non hanno alcuna colpa.

  15. La mia posizione in materia religiosa è che l’uomo che custodisce (o sente di custodire) la parola di Dio dovrebbe annunciarla, dopodichè ritirarsi sul monte (di Dio) e dire agli altri: chi desidera di questo pane mi segua. Il proselitismo è violento quando è esercitato da uomini violenti. La discriminazione che nasce da una presunzione di elezione può esserlo altrettanto. Come cristiano, considero il pontificato di Woytyla una sciagura: ha mischiato il linguaggio della testimonianza di fede con la retorica dello spettacolo e la ricerca del consenso politico. Io credo in uno Stato o meglio in una Cosmopolis libera, non laicista, dove chiunque può testimoniare la sua fede e nessuno imporla.

  16. Io credo in uno Stato o meglio in una Cosmopolis libera, dove chiunque può testimoniare la sua fede e nessuno imporla.

  17. “Mentre è invece dell’oblio che bisognerebbe fare un’apologia”. Prenendo in parola questo augurio:
    (PS.: il testo non è di macondo)

    “Ode dell’oblio”

    Dono dell’unico neurone
    esausto, in ciabatte, che fa accetto
    col suo russare da ghiro il sipario
    calato sul passato, è l’oblio,
    il festante oblio che illumina
    delle sue frusaglie lo schermo dove
    speaker afasici mimano il futuro
    di risultanti privo, ma di promesse ricco.

  18. @tedoldi
    C’entra moltissimo. Il meccanismo vittimatio (che agisce nei due sensi: individuazione del capro espiatorio per assolvere la comunità e monumentalizzazione della vittima per assolvere il crimine) è precisamente il risultato del ritorno di un sacro pagano e barbarico, al posto di quella celebrazione universale dell’umano che sono state proprio le religioni monoteistiche a fondare. La civiltà giuridica, filosofica e democratica dell’Occidente è veramente preservabile quando se ne recidono le basi spirituali?

  19. La civiltà giuridica dell’Occidente non dovrebbe avere basi spirituali. Senza pruriti, dovrebbe ridurre lo spirito a mera forma.

  20. “Se dobbiamo parlare di cattivi credenti finiamola subito: ogni religione ha i suoi, che la squalificano. Io vorrei restare su un piano teologico, cioè ciò che una rivelazione religiosa dice di Dio e del mondo” (Valter Binaghi).
    INHO: Non c’è un cristianesimo buono, astratto, e uno cattivo, storico. Il cristianesimo si misura secondo il proprio operato e le sue responsabilità storiche. E il cristianesimo rappresentato dalla Chiesa, ha svolto un ruolo storico negativo. Definisco negativo il fatto di aver condotto o approvato guerre, provocato genocidi (od olocausti: dagli albigesi alle decine di milioni di indigeni americani, in questo caso la sua azione si è mescolata talmente con quella della Corona spagnola da formare un tutto inestricabile), essersi alleato a regimi dittatoriali, e tutto quello che tutti sappiamo. Come può una parola di pace e di amore aver causato tanti lutti? Quando si è avuto il “tradimento”? A mio avviso, non c’è mai stato un “tradimento”, ma la storia. Ed è a partire da questa storia che dobbiamo considerare la dottrina. Non dai buoni propositi. Al di fuori di questo ci sono e ci sono stati cristiani di tutt’altra ispirazione, sempre minoritari, che però mai hanno contato, mai sono riusciti a cambiare nulla nella struttura e negli orientamenti della Chiesa, mai hanno potuto cambiare la storia della Chiesa come ora ci si presenta.

  21. Macondo, ti è piaciuto il libro nero del comunismo? Riduce l’intero movimento operaio e l’ideale socialista a una sequenza di orrori. Sarebbe facile per me (insegno storia) dimostrarti che quello che scrivi qui sopra è una serie di aberrazioni, e la storia bimillenaria della Chiesa è ben altro. Ma non lo faccio. Tu non hai voglia di studiare, ma di confermare pregiudizi imparaticci. Tieniteli pure e buon pro ti facciano.

  22. Pinto, la tua ingenuità è commovente. Ma non lo capisci che la redazione di libelli del genere (storia criminale di questo e di quello) è esattamente il presupposto per una situazione quale quella descritta nel testo di Raimo? Ma non ne avete ancora abbastanza di pamphlet settari e controsettari? Ma i morti della mia generazione non vi hanno insegnato niente? La vostra giovanile idiozia, questa sì che è criminale. Rivedere la stessa ottusa parzialità degli anni Settanta, questo è criminale. Dopo la tragedia della storia, la farsa beota degli epigoni, questo è criminale.

  23. Binaghi ormai mi sono convinto di una tua qualche sindrome J.H.

    Da una parte una persona abbastanza lucida, del tutto rispettosa di certe regole, quando, in modo sereno, argomenta su certi temi.
    Che però devono essere abbastanza lontani, non avere alcuna possibilità di interferire direttamente con quello che – ne sono certo – più di un credo pare un “complesso”.
    E non ti devi offendere, Binaghi. Ognuno ha i propri.
    Ma vedi ci sono anche metodi di misurazione dei complessi e il tuo sembra situarsi a una scala davvero alta.

    Come si misura? Il complesso ha un aspetto emotivo. E questo fattore emotivo influisce sul nostro corpo. Per esempio sulla capacità di conduzione elettrica della pelle.
    Funziona sullo stesso principio della macchina della verità. Soltanto che è la macchina della verità che è stata costruita sul principio della macchina che venne inventata da Jung al Burgholzi.

    Come si fa a misurare l’aspetto distruttivo di un complesso? Attraverso le associazioni verbali. Io dico ostia, tu rispondi cristo e la macchina misura 100. Io dico messa, tu rispondi cristo e la macchina misura 100. Io dico merda, tu rispondi ancora cristo e la macchina misura ancora 100.

    E’ un complesso distruttivo.
    Dai retta a me, tu non credi. Tu patisci Binaghi.

    A proposito. Leggila la “Storia criminale del cristianesimo”. Quello è un libro serio e tu hai detto di essere uno storico.

  24. @soldato blu
    Ecco bravo, e tu leggi la storia di Papi di Hubert Jedin. E migliaia di altri libri scritti senza tenere il pugnale tra i denti. Poi, un manuale di pragmatica della comunicazione alla voce: dare del pazzo o del complessato a chi contraddice.

  25. Tu non contraddici, Binaghi, né ragioni quando si tratta di Cristo.
    Tu ottundi.

    Io lo faccio con la mia libertà.
    E, in questo caso, io terrò sempre il pugnale tra i denti.

    Non voglio per niente essere migliore di te.
    Se tu sei pazzo o complessato, anch’io sono pazzo e complessato.

    Faccio i miei tentativi per rubare, utilizzare idee, confrontarle con le altre.
    E non certo alla ricerca della verità – me ne frega un accidente della verità, se mai potesse esistere – ma pensando se possono servire ad aumentare la libertà e diminuire la sofferenza umana.

    Il fatto è che anch’io, come te, sono stato cattolico sino ai vent’anni, e quindi non puoi insegnarmi niente in merito, mentre la conoscenza che ho acquisito in questi ultimi quarant’anni rafforza ogni giorno di più la mia convinzione che il Cristianesimo – la sua Chiesa e la sua attuale ideologia – non voglia far altro che diminuire la libertà di cui disponiamo e che, ancora peggio, per poter affermare certe sue dogmatiche convinzioni, è pronto a passare sopra – ad imporre – sofferenze evitabili. E ai più deboli.

  26. Solo una cosa… Scrivete di cattolicesimo italiano. Per favore. Il Cristianesimo altrove rischia di essere una mera forma. Da riscoprire. Per memoria storica.

  27. Il cattolicesimo qui è il vostro capro espiatorio. E’ talmente evidente, viste le aberrazioni e ridicolaggini cui è concesso diritto di cittadinanza, purchè anticlericali. Vi va bene tutto, persino il vincitore di un Reality Show come prossimo leader della sinistra radicale. Mostrate sottigliezza e rispetto per qualsiasi posizione anche cervellotica in materia politica e letteraria, ma quando si parla di cristianesimo spegnete il cervello. E io, cristiano sì, ma clericale non lo sono per nulla, per cui non vedo perchè dovrei insistere a invitarvi a un minimo di oggettività e di universalità nell’approccio teorico e storico anche alla questione religiosa. Così come a essere meno grossolani: soldato Blu, un cattolico che predica a sfavore dell’aborto non ostacola l’adempuimento della legge 194: l’ordine della persuasione è diverso da quello della legislazione, ma che te lo dico a fare? Solo, ogni tanto, fatevi un giro fuori di qui. Questa, più che Nazione, è diventata una Riserva Indiana e tra poco sarà un museo.

  28. Binaghi, dipende da che parte stare.
    C’è che crede in Cristo, come te, e magari anche in Dio.
    C’è chi non ci crede.
    Un approccio universale ed oggettivo alla questione religiosa credo non sia possibile. Dipende, infatti, se viene operato da un cristiano, da un ateo, da un agnostico.
    Presuntuoso, se credi di essere uno dei pochi che ha studiato, ed è in grado di compiere l’approccio citato con le dovute cognizioni di causa.
    Inoltre, quello che tu chiami un libello, proprio libello non lo è. Lo hai definito così senza neanche andare a sbirciare il link di Pinto.

  29. “Vi va bene tutto, persino il vincitore di un Reality Show come prossimo leader della sinistra radicale”.
    Anche i papisti hanno come leader una checca (omofoba) bavarese travestita in bianco…

  30. Dal mio Vangelo apocrifo (quello patito dalla storia umana):
    E i discepoli, che avevano ascoltato la parola di Gesù, alla sua morte dissero: – Noi siamo i depositari del Verbo, perciò è nostro dovere andare a farlo conoscere ai nostri fratelli. E così fecero. Poi si dissero: – Perché la nostra azione sia incisiva, dobbiamo organizzarci e darci degli strumenti efficaci. E così fu fondata la Chiesa cattolica apostolica romana. E si dissero inoltre: – Fondando la nostra Chiesa, quella universale del Dio unico, noi sappiamo che verremo peseguitati dal Potere, peché la nostra Chiesa è invisa al Potere in quanto è ad esso estranea. E così fu. Ma col tempo la Chiesa cristiana si rafforzò, il Verbo si diffuse a tal punto che le pesecuzioni cessarono. E il Potere si convertì alla religione cattolica. A quel punto la Chiesa cristiana, divenuta un’istituzione, volle continuare da quella posizione di potere la propria evangelizzazione. Allora i detentori della Verità si sparsero nel mondo, e imposero il loro credo a quello delle genti. Nel loro affanno evangelizzatore, imposero la loro religione ricorrendo alla forza, decidendo che quelle genti selvagge a cui si rivolgevano non avevano anima, e che dovevano convertirle alla Verità a tutti i costi. E qui cedo volentieri la parola alla storia secolare di lutti e dolori. Fino a che una religione monoteista più giovane mossa dalla volontà di imporsi non entrò in scena e continuò con i lutti e i dolori nello stesso solco tracciato dall’altra. Solo che oggi, nell’Occidente vecchio e più democratico, li definiamo barbari.
    Cos’è che non va, a parte la mia ignoranza filologica dei dettagli?

  31. Niente. Sembra la PaperOdissea, supplemento agli albi di Topolino degli anni Novanta. Ha fatto venir voglia a mio figlio di leggere Omero, poi mi ha detto: “babbo, l’Odissea è un’altra cosa, molto più difficile”.
    Ed è tornato ai Paperi. Son più comodi.

    @Plessus
    “Un approccio universale ed oggettivo alla questione religiosa credo non sia possibile. Dipende, infatti, se viene operato da un cristiano, da un ateo, da un agnostico.”
    Grandissima sciocchezza. Ci mancherebbe altro che occorra convertirsi a una religione o dichiararne apostasia per parlarne correttamente. La ricerca storica (quella vera) pretende all’oggettività, non nasce per confermare pregiudizi culturali ma per sbarazzarsene, soprattutto non nasce per essere pro o contro ma per trovare un piano onnicomprensivo in cui testimonianze (attenzione: ci sono vittime di conversioni forzate ma anche martiri di persecuzioni) documenti istituzionali, storia materiale e sociologia della cultura si integrino. Poi c’è quel minimo di competenza teologica, che serve quando si parla di una religione. Se Carlo Magno ha convertito i Sassoni a bastonate (verissimo) bisogna capire se questo è ciò che è coerente con la predicazione dei Vangeli o è la tecnica imperialistica di un sovrano barbarico ecc.

  32. Vedi, Valter, tu hai la Verità (“Sarebbe facile per me (insegno storia) dimostrarti che quello che scrivi qui sopra è una serie di aberrazioni, e la storia bimillenaria della Chiesa è ben altro. Ma non lo faccio”), ma non me la riveli. Non sei un buon evangelizzatore.
    PS.:
    Avendo parlato di storia del cristianesimo, non vorrei aver ingenerato un equivoco: Non esiste la storia del cristanesimo, esiste solo il cristianesimo nella storia. Il resto? U-topia. Del resto, appunto, tutte le religioni monoteiste hanno iniziato con un Testo, Verbo, Libro sacro che proclama amore universale e pace. Ma poi…

  33. Ma essere credenti cristiani cosa vuol dire?
    Credere che un tizio di duemila anni fa ha detto di essere il figlio di Dio,e per questo l’hanno condannato a morte? Credere che dopo tre giorni è resuscutato? Credere che dopo aver bazzicato per un po’ in giro è asceso in cielo in una nube luminosa? Credere che dopo un po’ sarebbe tornato dal cielo e avrebbe trasformato chi rimaneva in un essere spirituale che però ha anche un corpo spirituale e quelli che nel frattempo erano morti sarebbero resuscitati anche loro con un corpo spirituale? Credere che quelli morti sono morti e basta, cioè non sentono più niente e poi Gesù li farà resuscitare?
    Oppure, siccome passa il tempo e Gesù non torna, quelli morti non sono più solo addormentati, bensì stanno in una dmensione spirituale tripartita tipo inferno e pa,radiso (il purgatorio lo hanno aggiunto secoli dopo)?
    Credere che siccome passa il tempo e Gesù proprio non se la sente di tornare giù dal cielo, è meglio istituire una cerimonia per ricordarne il sacrificio e cioè mangiare un pezzettino di farina secca non lievitata nel quale Lui in carne ed ossa (naturalmente con l’imposizione delle mani del sacerdote) rivive? E siccome Lui in quel pezzettino di farina secca c’è DAVVERO (non è un simbolo), cosa c’è di meglio che mangiarselo per introiettare il suo divino Amore? Credere che questo meccanismo sia la Verità Assoluta a tal punto da voler catechizzare tutto il globo terrestre e chi non è d’accordo viene costretto con la forza (dell’amore, naturalmente)?
    Credere che la Chiesa sia il depositario unico del brevetto di questa storia delirante? Oppure se si protestanti credere che questo mondo sia essenzialmente in mano a Satana e quindi istituire tutta una serie di paure bigotte su cosa dire e cosa fare? Credere che un signore vestito di bianco sia il vicario di Gesù in terra e NON PUO’ SBAGLIARE? Credere in un fondatore che diceva di dare tutto ai poveri e creare un regno basato sul potere e sui soldi? Credere che i bambini che muoiono prima di ricevere il battesimo finiscano nel limbo? (no, questa roba l’hanno tolta: hanno capito che non tirano più cose così). Credere che questo tizio bianco possa stabilire chi è santo e chi no, in base ai miracoli che uno fa? Credere che gesù sia nato da una vergine? Credere nell’anima immortale nonostante che viene instillata da DIo a seconda delle fonti al quarto mese, dopo quaranta giorni, fin dalla fecondazione dell’ovulo? Credere nella fine del mondo alla fine dei tempi?
    E non mi si venga a dire che queste sono tutte metafore di un più profondo senso della vita. Per queste metafore la gente veniva bruciata.
    Le persecuzioni che i poveri primi cristiani hanno subito sono state ampiamente ripagate dai successori. La carica di pietas cristiana nei confronti degli ultimi (a patto che non diventino mai primi) è l’unica cosa che può avere un valore, ed è una contaminazione orientale di una dura setta di origine ebraica.
    Essere cristiani è credere a queste cose?

  34. Certo sotto il segno del cristianesimo sono state create opere d’arte straodinarie. D’altra parte quale artista resiste all’idea di rappresentare il cammino dell’uomo dall’oscurità alla luce e vice versa?
    Anche il comunismo e il socialismo più umanitario sono mutuazioni del cristianesimo originario. La dice lunga il fatto che il più tenace, se non il più feroce, avversario del comunismo sia stata la Chiesa cattolica, che pur di non avere i comunisti tra le palle era disposta ad apoggiare gente come Hitler e Mussolini.
    Il cristianesimo non ha il copyright della bontà, dell’amore e del rispetto del prossimo. Ha provocato sfracelli nei secoli. E tuttavia resiste. Forse corripsonde dunque a un bisogno irrinunciabile dell’uomo.
    Come giustificare e sopportare altrimenti il dolore, il vuoto, la smania di chi grida in un deserto di indifferenza, la violenza dell’uomo e della natura, senza sperare che un Padre si prenda cura e si sacrifichi per noi?

  35. Essere cristiani significa constatare che Cristo ha portato nel mondo un amore e una sapienza che rappacificano l’uomo con se stesso e, poichè non sono di questo mondo, solo da Dio potevano venire.
    Essere cattolici significa credere che c’è una tradizione del verbo, una custodia che è un luogo materiale ma soprattutto un sacramento attraverso cui la presenza mistica di Cristo si comunica agli uomini. Quei muri servono a custodire un Corpo. Se no, sono solo muri. I ministri sono non gli autori ma appunto i ministri (mezzi) del sacramento. La loro indegnità personale (quando è effettiva e non leggenda) non inficia il sacramento nè la tradizione del verbo.
    Adorare Dio in Spirito e Verità significa sapere che Dio si manifesta misteriosamente ad ogni uomo di buona volontà, e l’appartenenza o la non appartenenza a una confessione religiosa significa poco se questa unione spirituale manca.
    Il cristianesimo non ha il copyright, perchè è copyleft per definizione: ha seminato il messaggio di Cristo nel mondo in un modo tale che ne fruisce persino chi ne misconosce l’origine. Lo studio della storia, però, dovrebbe servire a comprendere ciò che era il mondo prima di Cristo e cosa diventa quando rinnega non il nome di Cristo, ma la sostanza della sua eredità.
    E con questo, vi saluto e mi scuso se ho esagerato nei toni, come accade qualche volta a chi prova a fare l’agnello ma ha vissuto sempre da lupo.

  36. Credo proprio che il Cristianesimo, come altre forme di religione, corrisponda a qualche esigenza profonda dell’uomo.
    C.G. Jung la chiama “funzione religiosa” e se ne potrebbe parlare, proficuamente, per libri.secoli.

    Ma mi pare che il post iniziasse parlando di terrorismo.

    Il terrorismo si distingue dalla forma normale di guerra,
    in quanto, invece di voler diminuire la forza materiale dell’avversario,
    distruggendone le singole componenti – un fatto quantitativo – organizza le proprie azioni in modo tale che ne risulti un fiaccamento complessivo dell’avversario – un fatto qualitativo.

    Ebbene, in quale modo ha agito la Chiesa sin dalle origini – pur non negandosi l’omicidio, se era necessario – nei confronti delle moltitudini se non con il terrorismo?

    Che cosa è la minaccia di bruciare all’inferno per l’eternità? Se non terrorismo psicologico.

    Che cosa è la minaccia a un adolescente di farlo bruciare all’inferno per l’eternità se si fa una sega?

    La Legge è quella che una comunità si dà. Io penso che una comunità che praticasse veramente la Giustizia insegnata dalla Bibbia condannerebbe questi portamale adoratori di una cadavere inchiodato a essere bruciati vivi, senza metafora, loro.

  37. Ultimissima, Blue Soldier. Il terrorismo psicologico esercitato sugli adolescenti della nostra generazione (non oggi però, le forme della catechesi sono molto cambiate) è innegabile. Resta sempre da analizzare se questo corrisponda a cattiva teologia o a cattiva catechesi, cioè presunti educatori che non hanno essi stessi la maturità psicologica per comunicare in profondità, nè quella spirituale per comprendere il verbo oltre la lettera. Però si potrebbe dire lo stesso di tutti coloro che si trovano a dover impartire insegnamenti più grandi della loro personale attrezzatura umana e culturale. Poi ci sono limiti epocali. Io non chiedo che si chiuda gli occhi su questo, ma che si considerino con serenità storica, alla stregua di ciò che si fa con tutto il resto, per cui ci si impegna a contestualizzare ecc.
    Rivediti cosa dice Gesù ai Farisei, che chiudono lo spirito in una precettistica e in un moralismo soffocante, chiudendo ai semplici il Regno dei Cieli anzichè aprirlo. Rivediti quello che dice di chi dà scandalo, e vedrai che la condanna di cui parli c’è eccome.

  38. Il problema della memoria credo sia di difficile approccio, anche perche’ e’ correlata al problema delle responsabilita’, delle colpe dei padri, perche’ a volte la memoria diventa selettiva, decide di ricordare solo determinate cose e non altre. Anche il sig Raimo ha parlato dei cuori rossi e dei cuori neri che scelgono la giornata della memoria o la giornata del ricordo, politicizzando, dunque eventi che per la loro natura (periodo storico ecc.) sarebbe inopportuno inquadrare semplicemente entro delle cornici politiche, o meglio di orientamento politico.
    Fino a che punto e’ giusto ricodare a tutti i costi determinati momenti storici e dimenticarne altri? Che cosa si puo’ aggiungere, di piu’ profondo coivolgimento personale, all’effetto di immediato impatto di sensibilizzazione che Raimo stesso cita? Quanto coinvolgimento propriamente sentimentale dobbiamo avere nel momento della memoria? Fino a che punto sentirci responsabili?
    Altra cosa che vorrei aggiungere e’ che la memoria e’ qualcosa che i media hanno acuito ancora di piu’,e prorpio per questo motivo, quali sono i suoi limiti di genuinita’? o e’ tutto mascerato da un sentimentalismo che assume un non so che di falso e compunto?

  39. Sul terrorismo mi viene da dire che è la forma propria della guerra del XX secolo, nel 1932 il generale Douhè dell’esercito italiano scrisse un saggio intitolato “il dominio dell’aria” prefigurando e auspicando le scelte belliche del futuro, da queste poche righe risulta evidente come il terrore sui civili sia l’arma privilegiata:
    “« Basta immaginare ciò che accadrebbe, fra la popolazione civile dei centri abitati, quando si diffondesse la notizia che i centri presi di mira dal nemico vengono completamente distrutti, senza lasciare scampo ad alcuno. I bersagli delle offese aeree saranno quindi, in genere, superfici di determinate estensioni sulle quali esistano fabbricati normali, abitazioni, stabilimenti ecc. ed una determinata popolazione. Per distruggere tali bersagli occorre impiegare i tre tipi di bombe: esplodenti, incendiarie e velenose, proporzionandole convenientemente. Le esplosive servono per produrre le prime rovine, le incendiarie per determinare i focolari di incendio, le velenose per impedire che gli incendi vengano domati dall’opera di alcuno. L’azione venefica deve essere tale da permanere per lungo tempo, per giornate intere, e ciò può ottenersi sia mediante la qualità dei materiali impiegati, sia impiegando proiettili con spolette variamente ritardate.

    Immaginiamoci una grande città che, in pochi minuti, veda la sua parte centrale, per un raggio di 250 metri all’incirca, colpita da una massa di proiettili del peso complessivo di una ventina di tonnellate: qualche esplosione, qualche principio d’incendio, gas venefici che uccidono ed impediscono di avvicinarsi alla zona colpita: poi gli incendi che si sviluppano, il veleno che permane; passano le ore, passa la notte, sempre più divampano gli incendi, mentre il veleno filtra ed allarga la sua azione. La vita della città è sospesa; se attraverso ad essa passa qualche grossa arteria stradale, il passaggio è sospeso. »
    (Gen. Giulio Douhet, Il dominio dell’aria, Verona, 1932)

    Il libro gli costò la rimozione dal comando dell’aviazione, ma ebbe comunque fortuna internazionale, è stato infatti usato da tutti gli stati moderni come testo di riferimento per la strategia dei bombardamenti.

    Per quanto riguarda la memoria direi che l’articolo è veramente chiaro e mette in luce il limite di questo nuovo moloch ideologico, quando lessi la storia delle isole Solovky, il principale gulag dell’era di Stalin, mi colpì molto il fatto che una volta chiuso come bagno penale, fu riadibito alla sua primitiva funzione di insediamento monastico, la memoria delle vittime vive nel ricordo dei morti negli uffici liturgici propri, ma non ha trasformato il luogo in un museo dell’olocausto russo, non ha “monumentalizzato” la memoria.
    Il problema infatti è che dietro le celebrazioni ufficiali della memoria si cela sempre una grande ipocrisia, tutto sta a dimostrare che queste kermesse non impediscono il ripetersi di atti analoghi, ma sempre più spesso vengono usate per giustificarli.
    Senza entrare nel dettaglio sembra molto attuale la frase di Robespierre, secondo cui: “La repubblica è retta dalla virtù o dal terrore” e l’apertura dell’articolo è molto eloquente circa la virtù dei governanti attuali.

  40. Si usa questa memoria per tenere gli ascoltari in uno stato di perturbazione emotiva che rende meno critici e meno capaci di reagire e avere convinzioni anche politiche complesse. Come si struttura una società facendo leva solo su partecipazione emotiva che quando serve diventa finta compartecipazione di vittime e del loro vissuto di vittima? Non c’è una sollevazione popolare parlando del possibile ritorno al nucleare perché allora la scelta si strutturò solo su un impeto emotivo e non ci sono obiezioni basate su altro, fossero anche convinzioni a favore.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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