Ma di quale relatività parliamo?

di Antonio Sparzani

Max Planck e Albert Einstein
Max Planck e Albert Einstein

George Duroy, quando gli viene offerta dal ministro Laroche-Mathieu, che cerca così di sdebitarsi del molto che gli deve, la Croce della Legion d’Onore afferma sprezzantemente «Tutto è relativo. Avrei dovuto aver di più, oggi.». Siamo in Bel ami, romanzo scritto da Guy de Maupassant nel 1884. Einstein aveva cinque anni e gli avrebbero presto regalato una bussola che l’avrebbe fatto fantasticare sulla meraviglia di quell’ago che si orientava da solo e sull’avventura di cavalcare un raggio di luce.

Dubito che Maupassant avesse letto il leopardiano Zibaldone, inesauribile miniera di riflessioni, proposte, congetture e racconti, che purtroppo non viene mai letto, neppure in parte, nelle nostre scuole. Scrive Leopardi il 22 dicembre 1820: «Ella è cosa certa e incontrastabile. La verità, che una cosa sia buona, che un’altra sia cattiva, vale a dire il bene e il male, si credono naturalmente assoluti, e non sono altro che relativi. Quest’è una fonte immensa di errori e volgari e filosofici. Quest’è un’osservazione vastissima che distrugge infiniti sistemi filosofici ec.; e appiana e toglie infinite contraddizioni e difficoltà nella gran considerazione delle cose, massimamente generale, e appartenente ai loro rapporti. Non v’è quasi altra verità assoluta se non che Tutto è relativo. Questa dev’esser la base di tutta la metafisica.»

E così, fin dall’Ottocento, quella frase Tutto è relativo è sinonimo di mancanza di un fondamento sicuro per qualsiasi affermazione. È il capogiro dell’incertezza del contesto, l’abisso della mancanza di un appoggio qualsiasi chiaro e distinto, non solo per i sensi del corpo ma anche per quelli della mente, che si perde e non galleggia più in alcun luogo. Ricordate la vertigine di Zenone, ormai prigioniero, nell’Opera al nero, di Marguerite Yourcenar: «La camera sbandava; le cinghie della branda cigolavano come fossero ormeggi; il letto scivolava da occidente ad oriente, inversamente al moto apparente del cielo. La sicurezza di riposare stabilmente su un angolo del suolo belga era un ultimo errore; il punto dello spazio ove si trovava avrebbe contenuto il mare e le onde appena un’ora dopo, e un po’ più tardi le Americhe e l’Asia. Quelle regioni dove non sarebbe andato si sovrapponevano nell’abisso all’ospizio di San Cosma. E lo stesso Zenone si disperdeva come cenere al vento.»

Max Planck, poco dopo l’uscita nel 1905 del fondante articolo di Albert Einstein (io dirò così, ma non dimenticate il contributo di Mileva), articolo che portava come titolo “Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento” e nel quale la parola relatività neppure era menzionata, chiamò la proposta di Einstein Relativitätstheorie, teoria della relatività. Questa teoria venne nel sentir comune pensata, da allora in poi, come la teoria del tutto è relativo.

Un fraintendimento epocale.

Permettetemi di cominciare a spiegare questo punto dicendo chiaramente che cosa si intende con le parole “sistema di riferimento”. È molto semplice: ogni osservatore che intende studiare il mondo che lo circonda, siccome da molto secoli ormai le esigenze quantitative hanno prevalso largamente su quelle qualitative (che ad Aristotele bastavano), deve avere a sua disposizione strumenti per misurare le distanze e un affidabile orologio per misurare il tempo. Spesso si dice che un sistema di riferimento è una terna cartesiana ortogonale fissata su un’origine O, ma in realtà quello che davvero occorre è quello detto sopra e cioè un affidabile strumento per misurare le distanze. Questo è il sistema di riferimento di quell’osservatore.

La ricerca di Einstein parte da due richieste entrambe di tensione verso l’assoluto: la prima è una richiesta che già prima di lui era presente nella meccanica e cioè che le leggi della fisica avessero la stessa forma – si scrivessero nello stesso modo – in tutti i sistemi di riferimento. Io descrivo la caduta dei gravi qui nel mio riferimento e uso le mie coordinate e tu che sei ad Atene, oppure stai andandovi su un treno che viaggia su rotaie diritte con velocità costante scrivi anche tu la legge della caduta dei gravi, usando le tue coordinate per descrivere gli esperimenti che fai nel tuo sistema di riferimento, ma le nostre due formulazioni hanno la stessa forma, questo è il punto importante. Si potrebbe rovesciare l’argomento e dire così: le leggi della fisica buone, cioè accettabili, sono quelle che tu ed io scriviamo nello stesso modo. Perché se vi sono regolarità che nel mio sistema di riferimento io scrivo in un modo e tu nel tuo in un altro, essenzialmente diverso dal mio, significa che quella regolarità è una cosa che dipende dall’osservatore e dunque non ha quelle caratteristiche di intersoggettività e comunicabilità che qualsiasi legge scientifica deve obbligatoriamente avere. In altre parole, se quella regolarità è relativa all’osservatore, allora non ce ne importa niente, non ha la dignità di legge della fisica.
Dunque già da qui vedete che ciò che è davvero relativo non conta, conta invece solo ciò che è uguale per tutti gli osservatori.
Il secondo principio da cui parte Einstein l’abbiamo già visto ed è quello che afferma che la velocità della luce è la stessa in tutti i sistemi di riferimento. Dunque un altro assoluto.
E allora perché chiamarla teoria della relatività. Forse Planck, che certamente non era uno sprovveduto, intendeva dire quella teoria che studia quali sono gli aspetti relativi all’osservatore, per poter così tener conto solo degli altri.

Dunque è così; la relatività einsteiniana è una ricerca di assoluto.

Al fine di scansare obiezioni da parte degli intenditori, mi corre l’obbligo di precisare una cosa, su cui sono stato generico. Quando ho detto “tutti i sistemi di riferimento” ho esagerato. Con la teoria del 1905, che fu poi chiamata teoria della relatività speciale, o ristretta, si richiede che le leggi della fisica siano le stesse non in tutti i sistemi di riferimento pensabili, ma soltanto in quelli detti inerziali, che sono quelli nei quali valgono le leggi della meccanica standard, quella di cui avrete almeno sentito parlare a scuola, quella dell’effe uguale a emme per a, forza uguale massa per accelerazione (questa è tra l’altro la ragione per cui ho menzionato il treno che va a velocità costante su rotaie diritte).

Ma tanta era la sete di assoluto di Einstein che, subito dopo il 1905, egli, già insoddisfatto di quella limitazione ai sistemi di riferimento inerziali, si mise a cercare una teoria che mettesse le leggi della fisica in una forma tale da essere valide davvero in tutti i sistemi di riferimento possibili, tutti, capite, anche una giostra fissata su un razzo che accelera verso il Sole, per dire, ecc. E questo lo portò a formulare, dopo varie vicende e utilizzando una matematica più complicata di quella assai elementare usata nel 1905, una teoria, che stavolta egli stesso chiamò teoria della relatività generale, che aveva finalmente questa caratteristica di estrema assolutezza. Le sue leggi hanno la stessa forma in qualsiasi, ma proprio qualsiasi, sistema di riferimento. Il tipo di matematica usata per questa formulazione si chiamava calcolo differenziale assoluto!

Senza dunque entrare nel merito tecnico della teoria, questo punto di fondo deve esservi chiaro. Tutta la ricerca di Einstein è stata volta a eliminare dissimmetrie all’interno delle leggi della fisica (con questa esigenza forte inizia il testo dell’articolo del 1905) e a trovare per queste la forma più generale possibile, completamente indipendente dunque dall’osservatore.

Tanto per dire: nulla c’entra col relativismo culturale, col relativismo etico e con tutti gli argomenti di questo tipo di cui in questi anni si discute da varie parti.

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14 Commenti

  1. “Assolutamente” chiaro e preciso, grazie Antonio. A margine, volevo dire che una volta provai a contare il numero di appunti che per ogni anno scrisse Leopardi nello Zibaldone. Il grafico che ne uscì (si va da un massimo di più di mille a un minimo di 1) era affascinante, ti lancio l’idea nel caso avessi voglia di svilupparla, io oramai mi contento di fare come il protagonista del libro di Jostein Gaarder, “Il venditore di storie”:-) Tanti auguri

  2. sparz,
    prima o poi ti spremerò come un limone, per sapere un po’ di queste cose che vai postando con una certa regolarità su NI. e che mi richiamano attenzione e ne generano altre.

    devi sapere che quando ho visto nei tags Yourcenar sono andata in fibrillazione perché mi sono detta m’è sfuggito Marguerite e relatività.

    invece forse. ma (spero tu trovi il fil rouge) e per ora, grazie per aver messo zenone in questa agape.

    non tutto è relativo;-)
    chi

  3. Scusa Sparz,
    se mi assumo il ruolo del pignolo, rispetto ai tuoi articoli.

    Ma in un testo, naturalmente divulgativo, ché quelli io leggo:

    Fabio Toscano, Il genio e il gentiluomo. Einstein e il matematico italiano che salvò la teoria della relatività generale, Sironi 2004 – dove si cita anche una tua frase: “[Einstein]ponendo assiomaticamente a fondamento della propria nuova teoria quanto prima andava spiegato” – viene detto:

    “Alfred Bucherer fu probabilmente anche il primo a impiegare per essa il termine *Relativitatstheorie* (teoria della relatività) modificando leggermente la precedente denominazione *Relativtheorie* coniata da Planck.

    Il fatto è che un altro autore afferma : “Il primo a implicare questo termine fu Bucherer, un fisico sperimentale, in una lettera a Planck.”
    [A.Brissoni, Una denominazione da chiarire: la Teoria della relatività, in “Albert Einstei. Realtività speciale e dintorni, Interntional AM Edizioni, 2004],
    lasciando quasi intendere, al contrario di Toscano, che non di una modifica si tratta, ma di una anticipazione.

  4. Credevo fosse chiaro che relatività e relativismo sono cose assai diverse tra loro.
    E tuttavia la parola “relativo” ha un significato e, se viene usata come radice di ambedue i termini, qualcosa vorrà dire.
    Ammetto di non avere ben capito cosa intende Sparz per assoluto einsteiniano, al di là di quella che a me sembra l’esigenza di riuscire ad esprimere nei medesimi termini ciò che situazioni fisiche diverse hanno in comune.
    È questo?
    Non so.
    Però chiedo a Sparz una cosa: perché la fisica contemporanea insegue anch’essa una sorta di assoluto, che ai miei occhi consisterebbe nell’unificazione delle forze?
    Perché cerca l’eleganza e la semplicità di espressioni matematiche che punterebbero all’universale?
    E se il mondo fosse invece impreciso, traditore, incoerente, episodico, scrauso, peloso, incostante?
    E se l’eleganza matematica non fosse altro che idealismo metafisico?
    E se la matematica stessa fosse un linguaggio capace solo di esprimere la regolarità e incapace di leggere/dire quello che ci appare come caos?
    E dunque fosse strumento alla fine inadatto a dire il Tutto?

  5. io credo che il concetto di assoluto sia legato a quello, molto posteriore, di complessità. assoluto non come opposto a relativo, anzi lo comprende. riuscire a studiare le leggi della fisica con ottica non-occidentale significa concepirlo in tutte le dimensioni. soprattutto l’incertezza non è intesa in senso negativo ma come apertura al possibile (alla bataille). assoluto è il divenire che rende relativo ciò che era sicuro e viceversa. l’ottica nostra è difficile da scalzare: dico la linearità. i ‘quanti’ permettono di considerare la luce come onda e come corpuscolo. ed è assolutamente falso che la matematica sia incapace di leggere il caso. pensiamo al pigreco, alla sezione aurea e alla matematica dei frattali. ecco: nei frattali c’è questo ripetersi di forme andando dal macro al micro ma anche l’insieme di ‘vuoti’ di non soluzione costitutivi dell’oggetto frattale. che non è solo la forma della nuvola che muta ma anche noi, come esseri umani. siamo ciambelle.
    la fisica non cerca ma tenta di dimostrare l’unificazione delle forze, la teorie delle superstringhe che vuole armonizzare il comportamento delle particelle elementari (planck) e quello delle galassie (einstein). l’universo sarebbe fatto di stringhe, oggetti ad una dimensione, e non di oggetti puntiformi. queste teorie non sono ancora dimostrate. ma il presupposto, secondo me, è giusto: non esistono solo le dimensioni che percepiamo ogni giorno.
    infatti soggettivamente, se non sto in acido, percepisco tre dimensioni più il tempo, ma in realtà probabilmente esistono mondi tipo flatlandia a 10 dimensioni.
    io credo che sia così, d’accordo con f. capra e l’ipotesi di gaia.
    insomma il concetto non è l’opposizione caos-cosmo ma l’integrazione del caosmos, per usare un felice neologismo del mio amore joyce.
    p.s.
    scusate se non si capisce nulla. non sono mica sparz!!! :))
    più che altro mi chiedo se sia possibile una teoria quantistica dei memi….
    bellooooooooo sto post!

  6. Sergio, grazie, auguri anche a te; non ho intenzione di fare conteggi sullo Zibaldone, che mi vien freddo solo a pensarci….
    Chiara, sapevo di catturarti con Marguerite, ma guarda che quel passo dell’opera al nero è davvero sconcertante.
    Caro Tash, fai domande da un milione di dollari. Cosa sia l’assoluto di Einstein credevo di averlo spiegato abbastanza, provo a dirlo così: è che lui aveva la fissa di trovare una legge sola, scritta in modo tale che andasse bene per tutti gli osservatori: se tu provi a scrivere la legge di caduta dei gravi dal tuo punto di osservazione, tu, che stai girando su una giostra, mica puoi semplicemente scrivere F=ma, ovvero puoi al prezzo però di aggiungere a quell’effe che rappresenta la forza di gravità, un altro pezzo, che tiene conto che sei su una giostra. Dunque la tua legge ha una forma diversa: no buono. La formuletta di Einstein è scritta nello stesso modo da tutti gli osservatori.
    “se il mondo fosse invece impreciso, traditore, incoerente, episodico, scrauso, peloso, incostante” dici, certo, se così fosse probabilmente non ci sarebbe nessuna fisica come almeno la conosciamo oggi. O si potrebbe anche dir così: il mondo reale è così come dici tu (impreciso, ecc.), ma la fisica descrive sempre situazioni ideali, talvolta ben approssimate, talvolta no: non sa fare altro, povera, cara grazia che fa questo. Lo stesso dicasi per l’eleganza e la matematica e via cantando: per quel che funziona, prendiamo quel che storicamente è stato fatto, per il reato vale l’ultima proposizione del Tractatus wittgensteiniano.
    Lo stesso vale per Sergio, ovviamente.
    Di quel che dice bimodale, come lui/lei stesso/a sospetta, ho capito poco, almeno nel senso che si tratta di proposte o dubbi un po’ fumosi, mi perdoni. Il testo di Capra non è certo consigliabile per una discussione che riguardi una conoscenza ragionevole del mondo che realmente abbiamo intorno.

  7. scusa sparz, non comprendo il tuo giudizio su F.Capra e il Tao della fisica e perché consideri fumosi i miei dubbi… non sei d’accordo con la teoria delle superstrighe? o con la matematica del caos? con il fatto che non esistono solo le dimensioni che percepiamo quotidianamente?

  8. mah, tutte cose da vedere: le superstringhe stanno passando di moda perché non ci sono conferme sperimentali attendibili.
    La “matematica del caos” è un’espressione generica per indicare il tipo di strumenti matematici che si utilizzano quando si parla di “caos”, in senso tecnico, però, mica è il casino incontrollato: gli strumenti matematici sono una cosa, in sé attendibilissima, se utilizzata correttamente, ma la fisica cui vengono applicati, mah…
    E il fatto che “non esistano solo le dimensioni che percepiamo quotidianamente” non l’ha ancora dimostrato nessuno. Le ipotesi formulate dai fisici sono tante, il che è bene, naturalmente, ma uno comincia a crederci quando ha qualche riscontro ragionevole, ti pare?

  9. mi riferisco alle teoria delle superstringhe come possibilità di coniugare planck e einstein, quantistica e relatività.
    per caos matematico mi riferisco a quello di cui parla leonard smith nel suo libretto “caos”: sensibilità, determinismo e ricorrenza.
    non esiste solo ciò che vediamo, secondo me. tendo ad assumere una visione ‘olostica’ e complessa. non mi interessa il materialismo storico o il realismo socialista, in questo senso.
    soprattutto credo che non sia giusto il pregiudizio occidentale della dimostrazione scientifica e razionale. usiamo solo il 7 per cento delle capacità cerebrali, per cui, senza credere in un aldilà divino, suppongo che il mondo non sia solo quello che vediamo. ci sono cose che appartengono ad una sfera del sentire. ti dico questo forse perché unisco conoscenze scientifiche e letterarie, o forse perché ho una visione femminile, pur essendo ‘maschio’, della realtà.
    rileggendo il tuo post alla luce dei tuoi commenti, mi rendo conto che sbagliato a considerarlo ‘bello’: ho frainteso e infatti non mi sembra produttivo andare oltre. rileggendoti, comprendo una sorta di ‘dogmatismo’ monolitico, che proietti sulla visione eisteiniana.
    la relatività di einstein e il relativismo antropologico, secondo me, possono andare molto d’accordo.
    ho l’impressione che tu voglia ‘assolutizzare’ il tuo punto di vista, dicendo: è così e basta. non so, ho questo sensazione. forse hai ragione. non saprei, ripeto: il tuo discorso più che aprirsi all’altro si chiude in maniera monodirezionale. forse sbaglio, forse no. chi lo può dire.
    buona notte

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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