El boligrafo boliviano 20

di Silvio Mignano

Trovate il perimetro dell’allegria,
la superficie della libertà,
il volume della felicità…
Quest’altro poi
è un po’ troppo difficile per noi:
Quanto pesa una corsa in mezzo ai prati?

Gianni Rodari, problemi di stagione

11 giugno 2008

Il taglio della mano precipita, coltello opaco che fende il fluido, generando un’esplosione silenziosa di sfere tralucenti che mi vengono incontro, catturando e sparandomi in faccia la luce obliqua dell’ultima parte del giorno. Quattro, la destra, la sinistra, cinque, la destra, la sinistra, sei, torsione dello sternocleidomastoideo, la bocca si apre a cercare l’aria, l’arco della bracciata segue il disegno del compasso e affonda davanti ai miei occhi, subito raggiunto – o meglio, sostituito – dall’altro avambraccio.
Seguo la linea gialla della corsia tracciata sul fondo azzurro della piscina. È la quarantesima vasca, sbaffi di nuvole biaccose sul ceruleo pulito oltre le vetrate della cupola piramidale da Louvre, polvere in sospensione sulle diagonali di luce che attraversano l’ambiente riscaldato, umidità piacevole, appena stagnante, sui dorsi delle quattro o cinque persone che si riposano in costume sulle piastrelle del bordo.
Altre bollicine, mazzi di perline iridescenti che fioccano dal basso verso l’alto e in orizzontale, puntando alle clavicole. Come una strana nevicata liquida.

Neve a quattromila metri, una cosa normalissima a pensarci bene, tanto più che sta entrando l’inverno. Neve abbondante sul Gran Paradiso, sul Plateau Rosa, primi fiocchi sui passi dolomitici, chiusi il Gavia e lo Stelvio, transitabili con uso di catene il Rolle e il San Pellegrino.
Qui un po’ meno, sull’altopiano tropicale. Più su, dove le montagne vere – sembra assurdo fare questa distinzione – si arrampicano fino a cinquemila e poi a seimila, seimilacinquecento, luccicano per tutto l’anno nevai compatti, glassa zuccherosa che ci osserva da lontano e scuote il capo in sincronia con lo sviluppo dei miti, Illimani il Signore dell’Acqua, Wayna Potosí il Signore della Pietra, Illampu il Signore della Luce, e Mururata, il dio ribelle dalla testa mozzata.
Oggi invece ci siamo svegliati con i fiocchi che cadevano spessi e compatti su tutto il pianoro di El Alto: ce l’hanno raccontato, a noi che viviamo quasi nel fondo dell’avello che precipita giù lungo i gironi de La Paz e non abbiamo avuto la fortuna di vederli di persona. Le notizie scendono, scivolano a valle, parlano di una città, lassù, trasformata in un campo bianco che trasfigura l’architettura altegna, copre la polvere delle strade, incornicia le casette di mattoni a vista, disegna ville e sentieri sulle aiole e gli spartitraffico stopposi.
I contrafforti della nevicata ci sfiorano, rocce spolverate di zucchero a velo incombono a bordo valle che sembra quasi di poterle toccare, come la testa di ghiacciai morenici. Il telegiornale apre con la notizia, evidentemente inconsueta: mostra colonne di pacegni che vanno in pellegrinaggio sui passi andini che chiudono l’imbuto della città, per ammirare da vicino la neve, mescolandosi ai turisti che scendono dai pullman o dalle grosse jeep.
La vecchietta che vende pochi pacchetti di gomma da masticare, biscotti al cioccolato e qualche torrone, stendendo la mercanzia su un telo poggiato per terra, all’angolo della nostra piazzetta, se ne sta accoccolata, rinchiusa dietro un usbergo di coperte e mantelle, la testa piccola nascosta da un cappello di lana, la fronte incartapecorita e bruciata dal gelo.
«Fa molto freddo», osservo passandole accanto e chiedendole un pacchetto di gomme, «Come fa a resistere?».
«Sì, mi’hijo, si gela, però hai visto la neve, hai visto com’è bella? La bellezza, mi’hijito, è la bellezza la cosa più importante. E’ un regalo della Pachamama, e che cosa te ne importa di tutto il resto, scusa?».
(Non deve aver mai letto Keats, non ne ha bisogno).

Adesso sono quarantaquattro vasche, se stiro il collo tra una bracciata e l’altra lo sguardo davanti a me arriva fino in fondo alla piscina, un tubo di tante sfumature azzurre, oltremare, cobalto, cianotiche, indaco, esplosioni di luce bianca, l’ombra del mio corpo sotto di me, un siluro o un’otaria allungata, sfratta in pezzi di materialità smontata.
Era un’altra lontananza, più profonda, quella che sperimentavo nel mare dell’infanzia o in quello della maturità, il Tirreno o il Caribe, la vista che rifiutava di fermarsi e scappava metri e metri davanti al petto e alle spalle protese, proiettandosi sul tappeto di velluto della sabbia, grigi ocra che perdevano la loro guerra con il verde più profondo, e allora dalla steppa di smeraldo, Veronese, vescica o cinabro ci si aspettava che prendesse corpo un mostro, la sagoma di un pesce spada o di un barracuda, e invece ne usciva fuori appena un’ombrina o un piccolo banco di pesci angelo, incuriositi dalla nostra goffaggine mammifera.

Timmy si chiama proprio così, un nome nordamericano, da cartone americano, come quello dei Padrini magici che ha visto qualche volta, a casa di una zia che vive in centro e che ha una televisione decente. Però, nome a parte, Timmy ha una faccia inequivocabilmente quechua-aymara e viene da Achachicala, un quartiere arrampicato in verticale a metà dell’autostrada che porta all’aeroporto di El Alto, senza strade asfaltate, dove ci si sposta soprattutto lungo scalinate ripide e strette su cui si affacciano i numeri civici delle stamberghe di legno, di adobe e quando va bene di mattoni rossi.
Timmy è riuscito a salire fin quassù, alla Cumbre, dove la città si perde a cinquemila metri e non si capisce se ci si trovi più su o più giù dell’altopiano, smarriti nella vertigine dell’imbuto in basso e del massiccio del Wayna Potosí in alto, oltre il laghetto di melma grigioverde e il grande arco scuro della diga.
Timmy è un bambino delle Ande ma non aveva mai visto la neve, prima d’ora. Come del resto non ha mai visto il mare. Però sa che cosa siano, l’una e l’altro, gliene parlano a scuola, quando riesce ad andarci, di solito nel turno serale, dopo aver lavorato in plaza San Francisco lucidando le scarpe per un boliviano alla volta. Non è nemmeno proprietario della cassetta di legno con le spazzole e le creme, quelle appartengono all’imprenditore che le distribuisce in affitto, in cambio della metà dei guadagni.
Affonda le mani annerite nella neve, Timmy, ridendo sotto lo sguardo incuriosito di una coppia di svedesi biondi. Adesso ha visto anche la neve, gli manca il mare, quello che ancora appartiene ai boliviani, come gli hanno insegnato a scuola, anche se è stato perso in una guerra centoventinove anni fa.
Per fortuna Timmy non conosce nemmeno la guerra.
Il mare almeno può provare a immaginarlo, da quella parte, oltre le Ande, una massa di fluido azzurro che si spande come la macchia di lucido da scarpe nero sulla neve, e che si spacca in gorgoglii tralucenti, come quando la mano cade di taglio sulla corsia della piscina, ferita dalle lame dell’ultimo sole.

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8 Commenti

  1. Ma ce la fai a quelll’altezza? Io nel 2006, arrivando in pullmino a Los Altos da Puno-Copacabana, qualche problema di pressione l’ho avuto. Anche a La Paz, ma… ne è valsa la pena.

    PS.: E’ vero che il vicepresidente Linera ha deciso di non ricandidarsi alla prossime elezioni?

  2. Perdona, ma a me questa cosa pare un grande menata.
    Scritta ottimamente, te lo concedo.
    Secondo me potresti fare il pittore iperrealista.
    O il fotografo documentario d’assalto.
    Quello che si perde volentieri (purché me ne scappo via, aho!) nei paesaggi altri della serie “Gaia” o “Alle falde del Kilimangiaro” (cito a memoria) ed evita come la peste di fotografare i cassonetti aperti sotto casa perché non sono abbastanza glamour.
    Io qui vedo solo diapositive, immagini.
    Uno che nuota in piscina.
    E mentre nuota, immerso nell’acqua (per forza), ha anche il tempo di tirarsi fuori e descrivere a puntino

    (“È la quarantesima vasca, sbaffi di nuvole biaccose sul ceruleo pulito oltre le vetrate della cupola piramidale da Louvre, polvere in sospensione sulle diagonali di luce che attraversano l’ambiente riscaldato, umidità piacevole, appena stagnante, sui dorsi delle quattro o cinque persone che si riposano in costume sulle piastrelle del bordo”)

    tutto ciò che gli sta intorno.

    Perdona la volgarità: ma quanti cazzi di punti di vista c’hai?
    Sei dentro e sei contemporaneamente fuori?
    Se me lo racconti in prima persona, allora mentre nuoti (e lo descrivi meravigliosamente) non puoi essere così presuntuoso e totalizzante e onnipresente e onnicomprensivo (in altre parole: onnipotente) da essere contemporaneamente “dentro” il punto di vista e “fuori”.
    Questa è la prima cosa che si impara alle scuole di scrittura, dicono (io purtroppo sono autodidatta).
    Poi però non c’è più la piscina (di grazia, tanto per dire: a quale latitudine o longitudine si troverebbe questa piscina? Dal testo non si evince. E te lo chiedo perché dopo, con un colpo di bacchetta magica, il tutto svanisce e ci troviamo – indovina un po’? – alle falde non del Kilimangiaro ma delle Ande, le nostre famose Ande).
    Qui devo essermi perso.
    Come lettore ho cominciato a mandarti a quel paese.
    Cioè: bella scrittura, pulita, tornita, precisa, fotografica (bella quell’ombra del nuotatore in fondo alla vasca come un delfino, o un’otaria, che tenta continuamente di smaterializzarsi), però, temo, fine a se stessa.
    Poi dalla piscina si passa alla neve.
    Prima quella europea (stavi guardando il telegiornale o cosa?), poi quella vera, quella che ci riguarda, quella di El Alto (‘ndo sta sto posto?).
    Qui possiamo soffermarci.
    Siamo in Sud America, of course. C’è una donna che vende ciungomme in montagna (e parla, udite udite, persino in spagnolo e alla fine dice persino “scusa”, come si fa con un compare o un complice o un amichetto di scuola, dopo essersi concessa quel po’ po’ di citazione sulla bellezza, cioè praticamente il massimo della banalità).
    Poi, mentre cominciamo a gustarci (sic) la saggezza andina di prima mano (sicuri?) , ecco di nuovo la piscina maledetta.
    Allora: è un nuotatore che ricorda un viaggio fatto, mi pare.
    OK.
    Ma dopo un altro giro di snervanti bracciate, ecco Timmy (da dove è sbucato fuori?)
    Qui entriamo nel regno dei cartoon.
    Chi è Timmy?
    “Timmy è un bambino delle Ande ma non aveva mai visto la neve, prima d’ora.”
    E be’, sfido.
    Qui i casi sono uno: o non è delle Ande oppure Timmy è cieco (ops: non vedente; riops: diversamente abile).
    Io, che sono ugualmente disabile, a questo punto mi aspetto di vedere Remy e tutta la reincarnazione dell’immaginario collettivo e televisivo dei miei figli (mi’hijos de ‘na …) riuniti insieme una volta tanto a piangere col cioccolato in mano sulle sfortune della vita dei diseredati.
    Perché Timmy, meschino, è un lustrascarpe.
    Proprio così.
    Siamo nel regno di Oliver Twist, di Mark Twayn, di Chesterton, di Dickens che ne so.
    Vedi, non faccio colpe a te.
    Sei giovane, e si legge.
    Sai scrivere, hai talento.
    Ma non basta avere la macchina fotografica.
    Bisogna avere l’occhio.
    Anche un occhio vecchio.
    Con la cataratta.
    Ma con la qualità di riuscire a “vedere”.
    Veder le cose che stanno dietro.
    Oltre.
    Queste cose qui.
    E conoscere la vita.
    Quella vera.
    Volevi farci petà, con Timmy, e non ci sei riuscito.
    Non è colpa di Timmy, che non esiste, ma è colpa tua che non sei stato bravo a suscitarlo.
    E di chi ti ha sottoposto, con un ghigno, a questa gogna,

  3. Paolo Sciola,
    questa è la ventesima (ripeto: VENTESIMA, come si evince dal numero progressivo nel titolo) puntata di un diario BOLIVIANO tenuto da Silvio Mignano, che lì vive da qualche tempo per lavoro. Questo per dire che se avessi letto le precedenti puntate molte delle tue domande non avrebbero senso alcuno. (per leggerle tutte: https://www.nazioneindiana.com/?s=boligrafo+boliviano).
    Quello che comunque continua a non avere senso è il tuo tono da sotuttoiosignoramia che mi indispone sistematicamente.

  4. Però: un pò di noia ormai è arrivata da tempo. Sciola in certe parti del suo discorso l’azzecca. Dobbiamo accettare le critiche fatte con garbo, penso.

    Ho preso una frase a caso: “Oggi invece ci siamo svegliati con i fiocchi che cadevano spessi e compatti su tutto il pianoro di El Alto”. Non bastava scrivere che erano spessi, i fiocchi? o meglio, compatti?

    Ridonda, il testo. E’ eccessivo, minuzioso. Ben scritto, non ci piove, con delle cose notevoli (Sciola l’ha evidenziato, mi pare).

    Non so, mi sembra che qui ci sia un pò di poca familiarità con le critiche. Come anche il fatto che tra indiani non ci spuò criticare. eppure io so (eccome so!) che certuni non possono soffrire la scrittura di certi altri. Ma per carità, non è bene criticarsi in piazza.
    Insomma Gianni, fattene una ragione: venti puntate dell’ambasciatore sono troppe. Da lettore dico che c’è un limite.

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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