L’ossessione dell’Eiger

di Alberto Pezzini

John Harlin Jr., L’ossessione dell’Eiger, Cda & Vivalda Editori, 2008, pagg. 320, euro 25,00, trad. di Mirella Tenderini.

Viene da pensare a quello che Elio Vittorini disse a Cesare Pavese quando ricevette da questi Paesi Tuoi. Era il giugno del 1941 e Vittorini disse all’uomo officina della Einaudi che occorrevano tre o quattro libri così all’anno per sfatare tutti quei pregiudizi secolari posti alla base dei falsi libri.
Se c’è un libro di montagna bello ed assoluto, per l’anno 2008, è questo. La storia di John Harlin e della sua famiglia narrata in prima persona dal figlio Junior.
Non è un libro di ricordi classico. Non ci sarebbe stato posto per un uomo come John Harlin. Amico di Gary Hemming, audace fino alla sconsideratezza, ardito quanto inquieto, uomo di punta di una nuova visione della montagna negli anni ’60. Scala per primo la parete sud del Fou e poi fa due vie dirette sulla Ovest del Dru. Si allontana poi da Hemming e comincia a sognare soltanto l’Eiger, la montagna più problematica ed interiore di tutte le Alpi. L’Eiger è una montagna assoluta, dove salgono soltanto gli dei o gli sciamani. Non gli alpinisti normali chè ci possono morire. Per questo motivo Harlin se ne innamora perdutamente. E’ un amore sventurato, il suo. Coinvolge da vicino ed anzi travolge tutta la sua famiglia. La moglie Marilyn Miler, ed i due bambini, John ed Andréa.
“Subirete enormi pressioni per conformarvi agli altri, per cambiare il vostro percorso con un altro, per seguire quello più comodo. Non fatelo. Siate sempre fedeli ai vostri sogni”. Questo è quanto ricorda di John Harlin padre, detto il Dio Biondo, Bruce Bordett, un suo allievo di quando faceva l’insegnante di educazione fisica a Leysin in Svizzera.
Fu per questo motivo che John Harlin non rinunciò mai all’Eiger. A costo della sua vita e del suo sogno.
La parte dedicata ai suoi rapporti con Hemming è spassosa come è giusto che sia stata la vita dei primi alpinisti americani a tutto tondo negli anni 60’ in un parco a dismisura come quello delle Alpi. Sembravano una coppia di coniugi in perenne lite e tormento. Tranne unirsi come fanno tutte le coppie di età quando le difficoltà lo richiedono. Hemming rimproverava ad Harlin i ceppi del matrimonio e della vita borghese nonchè il fatto che non arrampicasse secondo una tecnica impeccabile su roccia. Harlin, invece, gli rimproverava la sua inesperienza ed il fatto che Hemming non fosse a suo agio sulla neve e ghiaccio. Di sicuro c’è che quei due americani, così diversi fisicamente ma così affini nel profondo della loro interiorità consumata da un drago in perenne estasi, portarono una vita nuova sulle Alpi durante gli anni ’60. Il loro fu un alpinismo magico, intriso di una ricerca del bello e della novità in senso assoluto. Harlin voleva scalare l’Eiger con la tecnica della “goccia d’acqua”. Una via diretta in maniera perfetta. Un capolavoro sulla roccia dell’impossibile. Una camminata sulla gola dell’assoluto guardando la morte negli occhi verdi che le sorridono quando ti piglia per la gola.
Quando si ruppe la corda, nel 1966, Harlin lasciava una moglie bellissima, e due figli bambini. John aveva nove anni.
Da questo momento il libro si incardina dentro un viaggio interiore che non ha eguali e non trova coincidenza alcuna in altri libri di montagna. Di qui inizia la strada verso la ricerca di cosa spinga un uomo a mettere in pericolo la propria vita. E di cosa ci sia dopo, per chi resta.
Nell’introduzione al libro, tradotto da Mirella Tenderini con un italiano brillante come stelle su ghiaccio, la traduttrice ci dice che è forse la prima volta in cui un alpinista faccia outing in questo senso. Il termine è brutto, suona ancora meno bene ma può far capire la forza dirompente di una rivelazione fuori dai canoni a cui ci hanno abituati.
Harlin Jr. ci porta per mano, senza paura di soffrire, all’interno della sua vita familiare. Quella dopo la tragedia. La madre e la sorella vengono viste senza veli. In presa diretta anche se con tatto e dolcezza psicologica. Ciò non toglie che Harlin ci dica come sia andata. Ci dice che le sue donne non hanno mai accettato la morte del marito e del padre. E che questi sembrava continuare a vivere insieme a loro. Soprattutto la sorella visse la morte del padre come un tradimento. Grande rabbia e grande amarezza per essere stata abbandonata a metà del guado.
John Jr. sembra vivere in maniera più preziosa la morte del padre. Fa tesoro di quello che gli può avergli lasciato. Comincia a sciare, partecipa tante volte al trofeo Topolino, e cerca di prendere la montagna alla lontana. Cerca di capire perché suo padre fosse un animale assetato di montagna tanto da giocare con delle sirene che possono apparire fari assurdi agli altri uomini. Fari senza luce. A quelli di pianura che non conoscano la “fratellanza della corda”.
Capisce crescendo che la sua catarsi interiore, la sua definitiva liberazione, non avrebbe mai potuto prescindere dalla scalata dell’Eiger, quella maledetta montagna che aveva disarticolato il padre. Spaccandone il corpo e maciullandolo come una marionetta di carne trafitta da milleduecento metri di caduta verticale. Ironia della sorte, a goccia d’acqua.
Un’eredità pesantissima da trasportare sulla propria vita. E’ come l’anello di Frodo. Sai di portare addosso un tesoro che ti perderà se non saprai liberartene al momento giusto.
Comincia quindi ad arrampicare in Nord America, dove si pensa che le vette siano meno acuminate delle Alpi. Cerca sempre di circumnavigare la sospettosità e l’inquietudine di sua madre già bruciata una volta come un’indiana dal fuoco.
Comincia anche a scrivere. Oggi John Harlin Jr. dirige l’Alpine American Journal, la bibbia delle riviste di montagna americane. Anche per le dimensioni da infolio. E’ strano che la scrittura sia così compagna ed ancora più sorella di cordata dell’alpinismo. Forse perché lo scrivere equivale sempre a compiere un viaggio dentro quello che di più antico e primitivo si cela dentro alcuni anfratti interiori. Difficili da raggiungere come alcune vette innevate.
Per Harlin Jr. scrivere diventa quindi un’occupazione fissa, un lavoro retribuito ed un modo per gettare un ponte sicuro e professionale tra la scalata e la vita di tutti i giorni. Un modo per distillare l’incubo quotidiano di una perdita costante. Una forma di antidoto capace di mitridatizzarla ogni giorno. La grande capacità terapeutica della scrittura a muso duro. Quel calarsi dentro di noi senza corde e con uno scheletro accanto.
L’alpinismo è una delle manifestazioni nobili dell’uomo. L’ascensione è ascesa verso l’alto, è ascesi liberatoria. Forse è per questo che Harlin Jr. riesce a mettere in luce, isolandola, la definizione più toccante e più vera dell’alpinista in due pagine secche come ghiaccioli d’inverno: “Il vero alpinista segue il canto delle sirene perché ama danzare con loro e si illude di poter sfuggire alla loro stretta”.
L’illusione è forse ciò che suo padre non riuscì a vincere. Fu una sirena talmente dolce da farlo perdere. Ma Harlin Jr. – e qui sta la bellezza del libro – ci dice anche che c’è un altro modo per diventare alpinisti: la passione per la bellezza della natura.
E’ quella pulsione lontana e vicina per cui l’alpinista vuole a tutti i costi trovarsi al centro della natura per toccarla. Non vuole guardarla dalla finestra di uno chalet, vuole scalarla, la Natura. Ma c’è anche un mucchio di divertimento.
La vita di Harlin Jr. sembra condannata ad essere soltanto quella del figlio del vero John Harlin. La IMAX, però, società che ha creato uno spettacolo originale consistente nella proiezione su maxi schermi di filmati d’avventura girati alla bisogna, gli commissiona la scalata dell’Eiger.
E’ il momento verità che un uomo aspetta per una vita intera.
Harlin Jr. si rende conto che ormai non può più rifiutare quello spettro ed accetta dopo aver superato la madre e la moglie ed i loro sentimenti di paura, terrore puro, ed amore ancora una volta ferito. La salita deve essere compiuta in sicurezza assoluta ed anzi avrà la piccola figlia Siena come spettatrice.
Il figlio si libera del mostro scegliendo di guardare dentro gli occhi che videro il padre cadere. E’ una liberazione, un salto definitivo verso la luce e sopra un mondo folto di un buio denso come liquido.
E’ il segno che un’attesa di vita si è consumata in bene e che il liquido denso della paura si trasformerà in una sostanza volatile. Infinitamente più leggera da portare.
Scrive il libro e sembra che le sirene della montagna gli abbiano indicato una via di luce misteriosa. Quasi una fonte miracolosa da cui prendere a piene mani. Ciò che fa di questo libro un pezzo unico resta però quel dramma interiore vissuto per una vita. Sempre con un pensiero condiviso da una famiglia e subito da alcuni. Questo è un libro confessione. Una denuncia di ciò che l’alpinismo chiede a chi sta vicino alla persona che avverte le sirene dentro di sé. Una vita di sacrificio e di attesa.
L’ombra della montagna non è un concetto astratto.
E’ una realtà di vita che non lascia scampo a chi subisce una certa scelta e non ha armi per rifiutarla o in qualche modo cercare di batterla. Non c’è razionalità che tenga per i compagni dei fratelli di cordata. C’è attesa, malinconia serale continua, e poche cose da dire ai bambini quando le sirene si tramutano in orchi esigenti.
Di solito un alpinista si dice sia un grande, inguaribile egocentrico. E questo è il dilemma. A volte è difficile perdonare una passione che non guarda in faccia alla famiglia. Qui Harlin Jr. ci lascia una grande testimonianza di verità senza timori e scacciando tutte le paure dell’alpinista moderno. Che non è più soltanto quella di cadere e morire. E’ quella di lasciare la famiglia nuda, spoglia di un padre e di un marito. Questo seme di dubbio comincia a dirci che una rivoluzione profonda è ormai sorta nell’alpinismo attuale. Lo spostamento verso il compagno ed i figli. Il tentativo difficile da morire di far coesistere una passione che divora i suoi figli ed il senso caloroso della famiglia. E’ la fissazione di un principio che prima nessuno ha mai avuto le palle di mettere sotto processo, o di denunciare pubblicamente. E’ un maledetto rovello, il vero problema dell’alpinista, quello che forse non si riuscirà mai a risolvere se non a prezzo di sacrificare l’alpinista all’uomo che preferisce scrivere e vivere in sicurezza assoluta ciò che può donargli una quiete silenziosa come certe vette soltanto. Lassù in alto c’è il vento. Ma l’uomo sa imparare. Anche a costo di uccidere le sirene.
Però questo vale forse soltanto per chi ha udito le sirene uccidergli un padre. E per la sua vita – dopo – ha voluto crearsi una giustificazione capace di farlo dormire al riparo da quei canti così insidiosi. Soprattutto di notte. C’è voluto tutta una vita. La montagna è comunque sempre, per chi la pratica e per chi gli è compagno, una lunga attesa.

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9 Commenti

  1. “Subirete enormi pressioni per conformarvi agli altri, per cambiare il vostro percorso con un altro, per seguire quello più comodo. Non fatelo. Siate sempre fedeli ai vostri sogni”.

    Abbiamo, nella nostra famiglia, perso una persona cara in montagna, dieci anni fa. Ognuno ha un pezzo di vita in quella morte. Nel mio piccolo sottoscrivo l’essere fedele ai propri sogni, non abbandonarsi a paure…
    Mi viene in mente una poesia di Adrienne Rich del 74, “Fantasia per Elvira Shatayev : ” Nel diario mentre il vento/cominciava a strappare / le tende sopra di noi/ scrissi:/ ora sappiamo di essere sempre state in pericolo/ laggiù nella nostra separatezza/e ora quassù insieme/ ma sinora non avevamo mai toccato la nostra forza/.

    Un saluto

  2. Complimenti, caro Gianni, per questo post – e anche per il precedente sulle vergogne dell’astrologia. Tra l’altro sarebbe opportuno inserire statuto e riferimenti dell’associazione presieduta da Angela. Ti lascio questi versi che legano la montagna alla guerra partigiana. Franco
    Le rocce di notte sono gelide
    E più lisce al tatto quelle a Nord,
    La firma di granito del polso che schiantava
    Dall’ultimo gradino della ferrata ghiacciata.

    Scomparsa ogni traccia di sentiero
    Solo l’incontro con la luce sbieca della luna
    Orientava i passi radi nella neve.

    Sferzati dal vento glaciale accecati dalla bufera
    Lì inchiodati alle rocce dure fino al sorgere del sole.

    Quando giungemmo in cima
    Salvi nel sole ci spogliammo.
    Prima della discesa nel Vallese
    Scrutammo l’orizzonte
    I tronchi torti di costole e licheni
    Come querce al vento tese.

  3. Pezzini, da buon ligure di scoglio, dá il meglio di sé in montagna.
    Quei versi Franco sono davvero importanti. Grazie.

  4. Nell’alpinismo tornano sempre alcune riflessioni: la sensazione di potercela fare, di controllare il rischio; la figura della famiglia, a cui si rubano tempo e affetti, e che talvolta sopravvive orfana di una persona cara. Interessante questa recensione.

    La scrittura di Pezzini però, con certe figure retoriche un po’ trite e da tavolino, mi è piaciuta qui poco, mi fa pensare che non sia un alpinista o una persona che pratica la montagna. Gianni tu lo conosci?

    Di montagna e alpinismo avevo riportato qui tempo fa il racconto di un incidente da valanga:

    https://www.nazioneindiana.com/2008/11/09/il-giorno-della-valanga/

  5. per parlare di mare bisogna essere marinai?
    Pezzini é un ligure di scoglio contaminato dalla roccia, usa la retorica che si usa in liguria quando si guarda su verticalmente e si sogna d’essere su. E’ un avvocato, per quanto ne sappia io, e appassionato di ars retorica, e mi
    dicono che conosce tutte le montagne occitane, che non é un merito, ma lo dicono lo stesso.
    Mi sono letto i racconti che hai proposto. Molto ma molto belli.

  6. Marino scrive:

    per parlare di mare bisogna essere marinai?

    No, anzi a volte gli alpinisti scrivono male. Ma a me, che vado in montagna e faccio cose che comprendono la possibilità di un infortunio anche grave, interessa molto la testimonianza ragionata al di là del suo valore letterario.

    Mi fa piacere davvero che tu abbia apprezzato “il giorno della valanga”.

  7. per Jan:

    La dimensione che l’angoscia controllava
    Appeso in parete da sei ore:
    Un sistema incrociato di caselle
    Orizzontali e verticali
    Le venature della roccia
    Sbarrate dalle ciglia
    Che il guanto non poteva toccare.

  8. Non sono un alpinista, forse neanche un normale escursionista della Domenica… desidero leggere questo libro che penso mi piacerà.
    Ho letto l’articolo ed i commenti di voi lettori alpinisti, li ho trovati intensi, interessanti, interessati e pieni di passione.
    Le poche volte che ho occasione di “camminare” in montagna, accostarmi con timore ed attrazione al tempo stesso ad essa, anche solo guardarla, scrutarla e pensare di essere lassù tra pareti scoscese ….be per un attimo mi sento in una dimensione diversa, quasi fossi anche io attratto dalle “Sirene” degli uomini veri di montagna. Quell’attimo. seppure sia una goccia del tempo, mi da sollievo e mi riconcilia, anche se per poco, con la vità avara di belle sensazioni, che normalmente conduco.
    Essere fedele ai propri sogni …non è stata spesso la mia condotta di vita.
    Non credo di essere l’unico purtroppo; la paura chè è più forte delle sirene o la riflessione sulle cose che spesso ti porta ad esser sordo a tali Canti? Quale la verità…?
    Chi è stato o è fedele ai propri sogni…in montagna come nella vita, ha una gran forza e fortuna, soprattutto se ciò non ha causato dolori ad altri.
    Leggerò con attenzione questo libro, sapendo che susciterà sensazioni profonde anche ad un profano come me della vera montagna. Forse anche un pizzico di sogni…
    Un saluto a tutti Voi
    Fulvio

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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