Richard Avedon, prima di tutto lo stile

di Mauro Baldrati
richard-avedon

Forse è stato il fotografo più patinato della storia della fotografia. Tutto in lui era stile. Non solo i servizi di moda, le sterminate pubblicità per Versace o i redazionali per Vogue o Harper’s Bazaar dei primi anni ’50, fino alle soglie del 2000, anche i ritratti, i reportages. Persino il lungo racconto della lenta morte del padre, bianchi e neri crudeli, immagini di amore e sofferenza, era velato di stile.

Si può dire che Richard Avedon, fotografo del mito ultraglamour americano, abbia sempre cercato di filtrare la vita, in tutti i suoi aspetti duri, violenti, sporchi, con lo stile. Cercava i contrasti, l’eleganza e la bellezza contrapposta alla brutalità del reale, la rugosità di un asfalto che sembra grattare la schiena di una ragazza nuda, il volto delicato della donna in una oscurità ostile. Contrasto che sarà enfatizzato fino alle estreme conseguenze da Helmut Newton, un altro mito del Novecento, coi suoi servizi di ragazze in costume da bagno sulle spiagge della Costa azzurra attorniate da uomini grassi, goffi, donne vecchie e sdentate. Newton ci metteva l’humor, Avedon no. Avedon era serio, quasi drammatico nel suo stile levigato e violento, anche quando realizzava ritratti bizzarri o buffi, come Charlie Chaplin che fa le corna, o uno stravolto Larry Pine che si strafoga con un gelato, o un appesantito Elton John vestito da donna che si mette in posa da pugile. Newton era un borghese, e da borghese cercava di stupire, di scandalizzare la borghesia operando riduzioni comiche dei suoi stessi archetipi, Avedon era un aristocratico, sempre: quando fotografava gli attori, i musicisti, gli uomini politici, il jet set mondiale (famosissima una foto di Marella Agnelli col lungo collo di cigno, un’icona del secolo scorso); oppure quando percorse l’America con uno studio portatile, un sistema di lenzuoli bianchi per diffondere la luce e la gigantesca fotocamera a banco ottico, che scattava un’immagine unica (poi bisognava cambiare la lastra manualmente), catalogando tutti i tipi di americani, minatori e contadini della provincia profonda, appena smontati dal lavoro, ancora sporchi di caligine o di terra, immagini dure, spettacolari nella loro durezza. Eppure che differenza dagli altri grandi archivisti, come August Sander, che vent’anni prima catalogava i tipi tedeschi, macellai, operai, impiegati, dandy; oppure come Diane Arbus, fotografa della disperazione che cercava i freaks (molto efficace l’interpretazione di Nicole Kidman nel film Fur); Avedon ritraeva con distacco i suoi soggetti, non cercava mai il rapporto umano con loro, manteneva una distanza che talvolta sembrava crudele, asettica, quasi ostile. Non c’era denuncia sociale, né solidarietà coi suoi soggetti. Era lo sguardo spietato dell’osservatore, e se rideva, il suo era un sorriso cinico.

Avedon è stato anche un grande scopritore – o creatore – di icone femminili che hanno segnato gli immaginari di generazioni di ragazze. Veruschka, Twiggy, Lauren Hutton gli devono gran parte della loro fama.
Come i pittori, dai quali sono divisi da una limitazione della libertà creativa, essendo dipendenti dal mezzo tecnico e dal soggetto, i fotografi eleggono spesso delle muse, per creare immagini femminili trasfigurate su cui riversare ricerche stilistiche, fantasie, desideri. Sono innamoramenti artistici che talvolta segnano passaggi all’atto, con fidanzamenti, o addirittura matrimoni. Avedon ebbe la sua prima musa nell’immediato dopoguerra, quando era agli inizi della carriera di fotografo commerciale, e fu inviato a Parigi dalla rivista Harper’s Bazaar per fotografare le sfilate di alta moda. Iniziavano gli anni Cinquanta, il mondo che usciva dalla guerra e correva veloce verso la ripresa, cercava una rinascita, un nuovo entusiasmo. Era una modella americana, Ann Theophane Graham, detta Theo, che Avedon portò con sé il giro per il mondo, per circa cinque anni. Quelle foto non sono mai uscite dai suoi archivi, non sono state pubblicate nei numerosi libri monografici sulla sua opera, né esposti in mostre. Nessuno è mai stato in grado di capire il motivo di questo riserbo.

Ora quelle immagini vengono esposte per la prima volta a Roma, a Villa Medici e all’Accademia di Francia, in Viale Trinità dei Monti 1, dal 1 febbraio all’8 marzo. E’ una documentazione rappresentativa non solo del lavoro iniziale di uno dei più importanti fotografi della storia, ma anche di un’epoca, e dello stile che inaugurerà gli anni Cinquanta.

Questo è il sito di Villa Medici:

E questa è una biografia e la testimonianza di un fotografo italiano che ha conosciuto Avedon:
http://www.culturagay.it/cg/biografia.php?id=77

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7 Commenti

  1. Concordo con Alcor. E al glamour (anche e soprattutto se ben fatto), preferisco quei fotografi che s’immergono nel soggetto fotografico. Le loro immagini sono più crude, più oneste, più poetiche e si avvicinano alla complessità della vita (delle vite). Penso a Robert Frank naturalmente (di cui ricordo una bella mostra fino a marzo 09 al Jeu de Paume di Parigi), ma anche a Diane Arbus, Anders Petersen, Ed Van Der Elsken, Antoine d’Agata, etc.

  2. @ schillo

    il mio non era un commento riduttivo, al contrario, che il più crudo sia più onesto e più poetico non lo ho mai pensato e perchè anche la crudezza è una forma di retorica e perché il concetto di onestà in arte è ambiguo.

  3. @alcor

    La fotografia, come tutti i linguaggi, è pervaso di retorica e ambiguità: su questo non ci sono dubbi. Il mio riferimento all’onestà e alla crudezza è relativo alle sensazioni che provo (come osservatore/fruitore) davanti alle opere dei fotografi che ho citato, non alle intenzioni dell’artista o a un presunto valore oggettivo dell’opera.
    Scusa se ho interpretato le tue parole in modo riduttivo, non vorrei neanche aver dato l’impressione di polemizzare sul valore artistico di Avedon o addirittura Newton.
    Mi chiedo soltanto quale sia lo statuto della fotografia oggi, in tempi di sovraesposizione all’immagine (e al glamour), e così trovo un senso profondo e una necessità nelle opere di quei fotografi che cercano di grattare la superficie (patinata) dell’immagine.

  4. Vorrei dire a schillo e alcor che le due cose non sono per forza in contrasto. Il cosidetto filtro glamour non annulla una certa durezza nell’approccio al reale, non impedisce di scavare “sotto”; diciamo che la patina potrebbe essere una forma di sottrazione di responsabilità da parte del fotografo, una presa di distanza attraverso una stilizzazione continua. Però a mio avviso sia le immagini di Avedon sia quelle di Robert Frank (ringrazio schillo per averlo evocato) sui loro viaggi nelle profondità dell’America potrebbero illustrare certe pagine de “L’incubo ad aria condizionata” di Henry Miller.

    Paolo, grazie a te.

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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