Malcolm Holcombe, i movimenti della solitudine

 

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di Marco Rovelli

I movimenti della solitudine. Un canto di stanza. Il dondolio al buio. Malcolm Holcombe, sul piccolo palco del Pegaso di Arcola, si muove avanti e indietro sulla sedia con la sua chitarra, il tronco che dondola, e il tronco trascina la sedia, le punte in bilico, un equilibrio di bilico, sta per cadere e non cade, perché è il ritmo che lo porta, il racconto del suo canto, il suo tale-telling senza fine, che coincide con l’ampiezza stessa del suo corpo che traccia forme nella penombra del piccolo palco. Digrigna i denti – e quando incrocia occhi sprofondati e acquisiti alla sua corporeità ride come giubilo di guerriero.

Scuote la testa, come se la musica fosse acqua che schizza dalla pelle del suo cranio.

Durante le sue canzoni, verso la fine, si alza dalla sedia, si aggira per il palco – e sempre con il dono della solitudine. Sempre, l’ostensione di una verità che digrigna i denti. Mostra il suo lucido, preciso, consapevole sogno. Quanto smette di cantare, è come si svegliasse da un sonno, e restasse impigliato nella soglia, e pare sonnambulo. Racconta. Della moglie che lo ha lasciato, di quant’è bella – lui ne porta il segno d’anello al dito. Racconta storie fatte di parole strascicate, come tra sé e sé – e poi ricomincia a suonare, con la perfezione geometrica di un tocco di chitarra, e la voce che riporta di mondi e la testa che scuote.

La voce di Holcombe è un’estensione del suo corpo? No, è il suo corpo un’estensione della sua voce. O forse, più probabilmente, Holcombe è l’ostensione della verità della teoria del parallelismo spinoziano. “There are no tears, no sadness found, Only love can make a sound.” La voce di questo grande folksinger raccoglie ogni suono – oltre che le memorie materiche di Bob Dylan, Tom Waits, Johnny Cash… La voce raschia la gola, a scavare un’intimità esposta – c’è una vera oscenità che ha del sublime in quest’uomo, in questa voce che ha lo stesso movimento del corpo in scena. Un corpo con i capelli lunghi e radi raccolti in coda, la calvizie sul cranio, un ciuffo di riporto sulla fronte, il giubbotto di pelle troppo grande. Lui c’è tutto, qui – senza resti.

Poi, fa irruzione il bancone del bar della North Carolina, e racconta una barzelletta stupida, ma forse no – Un bimbo che si fa il bagno e si guarda i testicoli, Mama these are my brains? Not yet, son. E ripete come un’elargizione: Not yet. E riprende a cantare con un brano che batte la scarpa sul piccolo palco, e sogghigna cantando come il Jack Nicholson dell’Overlook Hotel, solo che qui non c’è finzione, questa è verità, fulmina il pubblico con gli occhi della sua verità – e d’improvviso, una tenerezza feroce, alla ricerca di altri occhi – e dice, mentre canta, in un italiano scivolante, Grazie. E riprende a cantare, la voce che riporta di mondi e la testa che scuote.

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5 Commenti

  1. “con il dono della solitudine”.

    E come calza Carmelo, e come si cita: ” si nasce e si muore soli, che è già un eccesso di compagnia”. E ancora: essere. Essere soli. Non è da tutti, non è per tutti. Il corpo/voce necessita di attributi [ not yet and NEVER – quelli di chi si guarda sempre: l’ombelico e la strada che dall’ombelico porta all’orcheis ].

    Nei giorni/gironi in cui tutti [ Molto Superbo del PASSATO, dico a te! ] si dicono ATTORI: all’agire/agito VERI – si renda grazia e giustizia. Al nome PROPRIO: Malcom.

  2. Ho sentito l’odore della polvere del palco …ed ho visto la sua ombra mentre cantava….grazie a questo commento .!!!
    Facci scoprire ancora …

  3. Grazie a voi tutti, nomi propri e impropri, per aver condiviso questa condivisa solitudine – che poi la musica, forse, quella cosa che, come scriveva messieur Destouches, “fa danzare la vita”, è una miracolosa intesa di cuspidi che, nell’istante del canto, sono davvero insieme – colti nel medesimo sogno.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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