L’annerita, prosa per De Signoribus

di Marco Ceriani

Che cosa o chi guida la direzione di scrittura di Eugenio De Signoribus, ora che Garzanti mette a disposizione del lettore il suo “quasi tutto” («Raccolgo in questo volume i cinque libri a oggi pubblicati. I libri, non altro. Non le prove che precedono o affiancano, non i versi d’occasione o d’adesione, magari compiuti ma non entrati nel respiro dell’opera» ci dice il poeta), sagomato sapientemente in percorso da un “dentro” a un “fuori”, questo in apparenza: l’intradosso o l’estradosso? il moto centripeto o quello centrifugo? Turris eburnea e agorá…

Sono ancora nell’eco delle mie parole, ricognitive prima ancora che tentative, che già la mente solleva dubbi. Perché mai “in apparenza”? Dunque la strada che ci si snoda dinanzi è ingannevole, il fine perento e fallace (o sfalsato) il traguardo? Il «romito di Cupra Marittima» (secondo una suggestione di Andrea Cortellessa) non esce dalla sua Tebaide, o più il romito abbandona il suo romitorio e con esso i suoi colori primarî per altri ben più plenarî, più quella plenaria tinta cui egli indulge assevera una sua natura declinante verso il fenomenologicamente impuro?

Eppure in pochi poeti, come invece in De Signoribus, un titolo rivela tutta la sua perniciosa approssimazione. Esso Poesie (1976-2007), arcignamente distante per imprensilità, è come in altri mai di uno sbigottito anòdino. Giacché ai miei occhi è attirato nel campo magnetico di un suo contiguo eppure eccentrico per abbondanza di cuore, per generoso dissesto di quella «pronuncia inclusiva» che la «tentazione della prosa» pare carsicamente produrvi, per apertura anche più generosa del diaframma nonostante i colori sciorinativi congiurino a una sottrazione di campo (da colori del divieto ma né umiliati né mendaci, per quanto, in apparenza ancora, essi si umilino e si emendino…) – che così alla mia mente suona, popolandola di echi e di fantasmi: Romanzo con poesie. Sì, Romanzo con e non Romanzo di invece dell’inerte Poesie, anzidetto. Insomma il duplice in luogo dello scempio, il molteplice in luogo del semplice. (Vale la pena di ricordare che per “colori” qui intendiamo la particolare natura haute pâte dell’endecasillabo di De Signoribus, e tuttavia la sua direzionalità dispersa e come sospesa nel velo di una subliminale dissolvenza o eccedenza; un endecasillabo che si può anche scalare da due versanti: dell’ipercorrettismo come sola scienza e della negligenza come sola realtà; e comunque un endecasillabo ingordo perché in grado di attrarre nel suo recinto i campielli melici detti minori, di dorsale piumata da serenata scherzo cassazione, o di contro in grado di far recitare, sullo sfondo di una lastra impressionata dall’arco d’obbedienza alle sue regole, i più sbandati ordigni ipermetri: con la parola che si «immolecola» fino al borborigmo e fin quasi alla sua denucleazione in balenìo.) Questo per il gremirvisi di figure in ogni senso romanzesche che ne animano la struttura e sin quasi la stramano. E varrà la pena di soffermarsi su questo punto.

Soffermarvicisi, anzitutto, sostando e insistendo in un paragone, esemplificativo di una dicotomia che percorre tutto il Novecento, con un poeta, Scataglini, conterraneo di De Signoribus, di una grandezza diversa da quella del nostro, perché incistata in un suo acrocoro, che parla con parole “numerate” da una sua cittadella fortificata, e petrarcheggia nonostante gli ammicchi a Dante (sia detto senza intenzione di diminuirlo, Scataglini, artefice nella cui sfera d’influenza entrano oggetti pronti a fissarsi in araldica o in emblema sùbito, a dire sùbito del saettare della retta contro la radianza del delta, dell’ascetica struttura contro la non pacificata membratura, e a far precipitare il sistema ramificato ben dentro il monomio del nucleo più radicale!) mentre in De Signoribus vige l’opposto: un sermo brevis – che dilaga mentre più pare trattenersi e va per via di sperpero in mezzo alle sue genti quando, come un cenobita, più pare vocarsi all’eremo – chiama in appello il suo Dante. Si pensi al “principio di individuazione” di tutte le pronunce difettive dell’Inferno, operato in prestigioso censimento da Mandel’štam!

Ma vale la pena di sentire i due poeti. Ecco Scataglini, sedicenne, che scopre per sé solo Montale e getta il seme della sua poesia futura: «Fu come se i più deietti oggetti dell’universo si mettessero a parlare in sanscrito». Ed ecco De Signoribus rispondere a domanda in un questionario promosso, per «Studi duemilleschi», da Riccardo Held: «Chi usa la lingua italiana si accorge ogni giorno di più di quanto ampia sia la sua esposizione ad altri strumenti linguistici, in primo luogo l’inglese, naturalmente, ma anche a tutte le lingue dell’immigrazione, e poi a quella vera e propria lingua seconda, che deriva essenzialmente dalla televisione. In che misura queste trasformazioni vengono accolte dentro il processo della scrittura?». Così risponde De Signoribus: «Credo che uno dei doveri (se non il dovere) di chi usa poeticamente la lingua italiana sia quello di salvarla: non da parole altre che servono per comprendere – o anche per riconoscere – l’estraneo… ma dall’assunzione, convenzionalmente supina e pigra, dell’inglese mercantile e dei gerghi televisivi…».

Non può sfuggire al lettore più attento come questa divaricazione – nella coppia «deietti oggetti-sanscrito» in Scataglini, e nella monade «altre», ammantellata di terrosa durezza, e che induce a provocatoria souplesse fonica per tutti i richiami del corsivo, in De Signoribus – scavi il più profondo fossato tra questi due poeti, divarichi le due lame della forbice fino a disegnare il più ampio arco. Dunque nel primo corno, lo scatagliniano, l'”esclusività” marca l'”occasione” e pertanto la esilia nell’acrocoro tonale; nel secondo, il designoribusiano, questa gerarchia – o pointe o tratto eminente – è abbandonata in favore del suo (tenacemente, nonostante negli esiti vi appaia mendacemente perseguito) dissolvimento. Ed è a questo segno che occorre entrare nel segmento testimone della prima, forte maturità del poeta, Istmi e chiuse, e registrare alla sua altezza quella soglia ossimorica, nelle coppie di sostantivi e aggettivi (strada ingannevole etc.) di cui più sopra si diceva, e nel sostantivo contro il sostantivo (intradosso vs estradosso), che ne rappresenta, a sancirla, l’entelechìa. Dunque perché la strada inganna, il traguardo fallisce, la meta dubita? Perché l’estradosso, così puntutamente additato dalla partitura sincopata del segmento contiguo, nel succedergli, a Istmi, Principio del giorno, l’eco dell’intradosso di quelli non cancella ma rafforza? Si va verso il superno richiamati per appello da ciò che è inferno. Questo principio di contraddizione è il segno della vitalità della scrittura in versi di De Signoribus. Perché il lettore, mio complice, che sin qui m’ha seguito, intenda in pienezza quanto dirò, è necessario che si volga ancor più complice a quanto sarà detto, nella sua apodissi: e cioè egli, De Signoribus, a un tal segno è convinto, così da esserne consumato, del suo assolutismo metrico che si butta senza requie ad attraversare, per giungere sull’altra sponda, acque anche troppo rigogliose e impervie; insomma a insidiare la sua compagine fino a stramarla nella graphé, fino a lanceolarla nella phoné («i versi, nonversi e quasiprose» di Ronda dei conversi). Di base egli è, allora, un formalista, poiché sa che solo la forma può aiutarlo a salvare quello che ha da dire. Dunque, per comprovarne la resistenza, si adopera con tutti i mezzi per distruggerla. Senza punto riuscirvi, beninteso. Ma questo egli sapeva da devoto a quei suoi versi-cerniera per ora estremi (Ronda) o versi-breccia mediani da cui «smiccia» (…) «la sghemba orrenda faccia del mondo». E a questo suo scopo adibisce non solo la zoppìa dell’informale o dell’atonale ma, pregressa a questa, anche la saettata inquietudine degli pseudoidillii o degli inni (Berchet o Parini istruiti in una loro violenta istologia per restituirli icone di una mnemonica semplicità melica, e certi “terzi” di un Manzoni, ma un Manzoni senza più il suo teatro) e la ben scettrata impurità del moncherino metastasiano. Eppure nonostante questa sua «lingua vaga e strana», posta-imposta sempre sul crinale così rischioso della maniera, da questo crinale egli ci parla con commovente trasparenza. E se in Scataglini gli oggetti più umili, “manti” nel saio della loro deiezione, suggono novità dal noviziato ma anche dogma dal dogmatico, dall’essere esiliati alle radici della loro fondazione in una sorta di pre-etimologia che li assottiglia come reliquie e li trae a lamine per la calma voluttà d’una furia da orafo del Duecento, in De Signoribus quegli stessi oggetti «smanti» perché «inermi» non vanno al loro sanscrito, sono – con spostamento metonimico – essi stessi sanscrito, recano, nella loro mappa, le stimmate di sé come «popolo futuro». Ma adesso, indicate sotto l’egida del loro nome, per i romiti della Marca, due diverse grandezze, offerte nel segno della continuità per l’uno e della discontinuità per l’altro con il secolo nascente-morente, vediamo cosa da esse discende e cosa da esse dirama, essendo un comune denominatore il rapporto che questi due poeti istituiscono con la Tradizione, ma liquidatorio nel primo, rifondativo nel secondo. E se il primo, allora, guarda a Montale e alle sue “occasioni” come ad altrettanti “correlativi oggettivi”, dunque a Eliot come modello ancora attivo, nel secondo la negligenza di questo metodo o piuttosto la più radicale indifferenza ad esso, gli permette non solo di scavalcare all’indietro due secoli, fino a sentire il suo Principio del giorno nell’innologia manzoniana o nel Lied più ombroso annerito e introspettivo di Metastasio o di Parini, ma anche di affacciarsi sul loro magistero dagli “storti” o “gobbuti” sentieri della deformazione neologistica, del falsetto popolare, della punta culta, lasciati mormorare come «detti» o compagini «spatriate» sulle fiaccole corali di labbra allo sbando di sbandati o di senza patria. E così, mentre il primo si affaccia sulla corrente del Novecento, da una posizione dominante maggioritaria, il secondo lo fa da una sua “linea d’ombra” ben minoritaria eppure così tenace, sia sotto il riguardo della sintassi – che predilige le penombre, la caduta degli icti, un paesaggio senza adempimenti quando trapassa nella cruna dei tre puntini di sospensione… – che del lessico, cauto e tuttavia ispessito, «ristretto prudente nel fortino» e ombrosamente vigile sulle proprie peste come un provvido cacciatore. Per non obbedire a tracciati assertivi egli, De Signoribus, è aporetico. Questo gli permette di infilzare sulla punta del suo schidione il manichino di tutti i possibili secoli. E di tracciare i suoi scolii in un anonimato da scoliaste. Ecco spiegate tutte le sue maschere: non solo il Manzoni anzidetto, ma il manichino di questi, poniamo, in un Caproni o in uno proscritto fuori le mura come un Richelmy, e quel che sopravvive di entrambi nel calco del metricismo assolato del gran lombardo… Ecco spiegata la disseminazione o meglio ecco quel che la disseminazione dispiega: una tecnica versificatoria, in De Signoribus, ch’è una critica stratigrafica da cui, una volta impigliati in essa, non sappiamo più uscire. Egli guarda dunque a Dante da un suo estradosso e vi attinge dalla buccia esterna della gran melagrana della Tradizione, la maggiormente rispondente alle sollecitazioni di una prima indagine sonora (i poeti del canone novecentesco, nostri maggiori appena), per poi attraversare i registri medi più sordi e resistenti alla manipolazione – i devitalizzati e per ciò stesso aumentati in senso minerale dalla sospensione del loro statuto melico (il Settecento e l’Ottocento come calchi di secoli dormienti) – che, nella loro apnea, fanno da salvacondotto al suono: per approdare a un pietrisco di rimanti, guittonianamente insocievole, che diresti preagonico dantesco. Questa dislocazione, strabismo o eccentricità fa sì che essi ricevano – i “pellegrini smanti” – una lingua “spostata”, non prossima al lapsus, ché il lapsus essa lingua risemantizza e ridice quasi per minorazione, per una manque che fa del colorito dantesco il più gran giacimento della nostra lingua intesa come ipotesto, ma proprio – come dirla! – spartita in due e bifocale. I venuti da fuori si appropriano della lingua da un osservatorio segnato da balbuzie irriverente. Dunque, si badi bene, egli, De Signoribus, non è nel reddito dell’artificio che ai nostri occhi si propone, quando ammanta delle sue parole gli “smanti”. L’inermità di costoro o “smantità” li preserva e con essi preserva anche il poeta, che può dire quelle parole in una lingua deviata, come per la prima volta, ponendole a fondamento d’ogni nostro futuro dire. Giacché una siffatta visione eccentrica, venuta da un fioco ovunque per affisarsi nell’hic et nunc più perentorio, e giunta dalle «storte spalle» di viottoli timorosi del rettifilo della via maestra, permette che si infilzino come su uno schidione tutti i loci communes della lingua letteraria, senza averne l’aria: così uno “spatriato” o un “senzacasa” infilza da questi suoi promontorii, come primo che incontra, un Caproni di colore scazonte e irtamente emorragico o svagato a una sua spinetta, la occhiuta durezza degli endecasillabi di Istmi e chiuse o di Principio del giorno tinge di nerofumo e pece, come in un infero Borinage, certi interni che diresti del belletto-balletto, da letto di Procuste (sì una sillaba estorta a un’economia sottraenda, o un’altra che per addizionarsi pilota lo spaesamento), di un Penna che fa più torbido il canone, le Terresante nel puntinismo dei cori alzano loro moniti luminosi, agucchiandovi un Manzoni carmagnolesco, e la mestizia del Lied trapassa nei cromatismi alteri dell’inno, il quale, a sua volta, risprofonda, destituendovisi, nelle strofette claustrali ed esiziali dell’impromptu e dell’epifania. Questa è la struggente solitudine di De Signoribus.

[In «Caffè Michelangiolo», Anno XIII n.2, Maggio-Agosto 2008, con il titolo: Raccolgo in questo volume i cinque libri]

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9 Commenti

  1. (Finalmente) un ottimo poeta (e un’ottima lettura complessiva della sua poesia). Quanto alla “forte maturità” del poeta a partire da “Istmi e chiuse” (1996) e, in relazione a ciò, quanto alla costante presenza nella sua poesia di forme metriche chiuse della tradizione poetica come l’endecasillabo, vorrei dire che De Signoribus sembra puntellare i propri frammenti poetici con questi moduli canonici della tradizione poetica, per poi rovesciarli proponendo una lettura altra dei suoi versi. Ossia una lettura fondata su un altro indicatore metrico-ritmico, decisivo per la poesia fine novecentesca, che è l’ictus o accento forte. E’ l’ictus, mi pare, in De Signoribus a dare la reale scansione ritmica dei suoi versi, giocato su un ventaglio che va da 3 a 4 (e, più raramente, da 2 a 5) accenti ritmici forti, non già la misura endecasillaba in sé (o di qualsiasi altra forma canonica chiusa della tradizione) dei suoi versi. Difatti, la metrica varia, ma la ritmica degli ictus è più regolare. Altrimenti detto, per la poesia tardo-novecentesca (che nel caso di De Signoribus si protende nel XXI secolo) è indifferente che un verso sia un endecasillabo o un settenario, quello che conta è il numero di ictus per verso, perché su ciò si basa la sua costante ritmica. E in questo aspetto mi pare rientrare l’opposizione o il gioco dialettico individuato complessivamente da Ceriani tra intradosso (qui endecasillabo, o metrica canonica) e estradosso (o ictus, a moto centrifugo). Insomma, nel dettaglio metrico-ritmico mi pare risuonare quell'”eco” della contrapposizione intradosso vs estradosso individuata da Ceriani, del quale mi piacerebbe leggere qui su NI altre sue “cose”. Mentre il “romito di Cupra Marittima” è così inaccessibile nel suo romitaggio pre-internettiano che forse non basterà un chiamo per farlo arrivare fin qui.

  2. questa prosa forse troppo Contineggiante (nel senso di gianfrancante) di ceriani è una di quelle che farebbero venire il latte alle ginocchia ai 24enni in ascolto (vedi commenti a trevi), e tuttavia è un’analisi ricca e stimolante, e che oltretutto analizza un autore irto ma rigoroso e proficuo come de signoribus, che tutti farebbero bene a conoscere. bello anche il commneto di macondo – e concordo con entrambi sulla crucialità e essenzialità della questione ritmica in d.s.

  3. davvero molto bella l’analisi proposta del lavoro di De Signoribus: precisa e centrata. Aggiungerei tutta la problematica relativa ai rapporti tra lingua e potere… penso infatti che De Signoribus sia uno dei pochissimi poeti che si possano dire civili e politici nel senso forte del termine: la sua lingua è quasi biologicamente un corpo a corpo con il potere e la retorica (nel senso che di quest’ultima assume la carica positiva, semiogenetica e quella negativa di connivenza con il potere) che non si riduce mai a facili prese di posizione di tipo esteriore e ideologico ma che avvengono NELLA lingua, in atto, in una pratica e non in una teoria… non è cosa da poco
    Con grande gioia devo dire che sono riuscito a strappare De Signobus al suo “romitaggio” per portarlo al nostro prossimo convegno a Camaldoli dal 24 al 26 aprile… il titolo sarà appunto “La parola e il potere”… se a qualcuno interessa posso fornire maggiori informazioni…

  4. gran bella pagina critica (“contineggiante” ne esprime appieno la qualità), condivido tutto quanto espresso nei commenti precedenti. aggiungo un invito a DP a ospitare Ceriani anche come poeta: notevolissima la sua scrittura in versi.

  5. ho letto poco di De Signoribus
    quanto ne scrive Marco ce lo fa sentire vicino, da perlustrare, compitare, amare come d’obbligo per la poesia di valore

    bene un bel “prelievo” dallo Scricciolo di Ceriani (e dagli “Apici” usciti su rivista) : altro grande “romito” cui dobbiamo una costante, elevata
    fedeltà (i suoi versi, il suo Holan)

  6. ho letto il poeta de signoribus dopo la vittoria del premio viareggio e quel poco che ho letto mi è piaciuto molto. ho letto questa recensione tra questa mattina e oggi pomeriggio e devo dire che non faticavo così tanto da quando ho provato, con insuccesso, a leggere lacan; ma l’impressione è che lì ci fosse un motivo più fondato, a tanto oscurismo. forse è solo mia mancanza di strumenti; però, se per salvare la lingua italiana si usa la sintassi di un principe del foro avellinese e un lessico tra puoti e il pedante manfurio, allora stiamo freschi, dalla scilla dell’intradosso alla brace dell’estradosso…

    pedante: che vuol dire quasi pede ante, utpote quia have lo incesso prosequitivo col quale fa avanzare gli erudiendi puberi…

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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