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Autismi 5 – Il mio organo di riproduzione (2a parte)

francesco_clemente2 di Giacomo Sartori

Il suo concetto di amica era molto particolare. Per lui ogni ragazzetta che passava per strada era una sua potenziale amica, per non dire già un’amica di vecchia data. Era la prima volta che la vedeva, e molto probabilmente sarebbe stata anche l’ultima, ma per lui il legame era ormai indissolubile, si trattava solo di passare ai fatti. Bionda, bruna, piccola, stangona, seriosetta, oca giuliva, occhialuta, senza occhiali, pretenziosa, aveva dei gusti ampissimi. Se fosse stato per lui si sarebbe gettato seduta stante a stringerle la mano, si sarebbe fatto una delle sue sudate. Un cagnetto eccitato in confronto a lui era un pezzo di ghiaccio, un gentleman inglese. Non avevo mai visto una maleducazione e una sfrontataggine del genere. E poi il selvaggio ero io, secondo mia madre.

Lui però vedeva le cose altrimenti. Se la prendeva ogni volta con me. Mi diceva che era tutta colpa mia, se non aveva potuto fare conoscenza con questa o quella sua amica. Non mi ero impegnato, avevo fatto tutto il contrario di quello che avrei dovuto. Ero troppo timido, troppo imbranato, troppo timorato da dio. Il mio ideale erano in fondo ancora le innocenti coccole delle maestre dell’asilo. E per di più mi ero intestardito su una sola persona, come se vivessimo in un paese socialista con un unico tipo di vodka sugli scaffali. Ero un vero e proprio impiastro.

Le ragazze bisogna abbagliarle con un faro da mille watt, come fanno i cacciatori di frodo con le cerbiatte, mi diceva, con quella voce di chi lascia intendere che se fosse al posto tuo ti farebbe vedere. Gli occhi devono inumidirsi, è quello il segnale a cui si deve mirare. Io invece non tiravo fuori una cosa intelligente nemmeno sotto la minaccia di una pistola: tutto quello che sapevo fare era starmene zitto come un pesce in un angolo dell’acquario, aspettando che la manna piovesse dal cielo. La mia strategia del tenebroso interessante non aveva mai funzionato, e non avrebbe mai funzionato: i miei sguardi languidi sarebbero rimasti per l’eternità inosservati. Lo sapevo benissimo io stesso, in fondo. Non avevo le palle, e non le avrei mai avute, concludeva, adottando un tipico linguaggio da apparato di riproduzione maschile.

Ci pensava perfino di notte, alle sue cosiddette amiche. Anzi, era proprio di notte che si montava di più la testa: le sognava, sognava di spogliarle, di carezzarle, di farsi carezzare, di fare le peggio cose. Coinvolgeva delle donne alle quali si sarebbe vergognato anche solo di rivolgere la parola, quello sfacciato, o addirittura delle famosissime attrici che non l’avrebbero degnato di uno sguardo. Per una volta si rivelava l’autentico mitomane che era. E naturalmente mi svegliavo tutto bagnato e attaccaticcio, perché non era certo il tipo da lasciare le cose a metà.

Io ero diventato di sinistra, e allora anche lui era diventato comunista rivoluzionario. Ci si può benissimo immaginare quale fosse la sua interpretazione del comunismo rivoluzionario. Per lui comunismo rivoluzionario voleva dire abolizione di tutti i vincoli borghesi, alias il permesso di fare tutto quello che gli tirava di fare. Quando invece la mia prima amichetta era diventata una vera e proprio fidanzata, a forza di combattere tutti quelli che si opponevano. Con una famiglia come la mia l’unica speranza di salvezza era crearne subito un’altra, mi dicevo. Quattordici anni non sono moltissimi, ma neanche pochi, mi dicevo. Lui però non era per niente d’accordo: secondo lui noi due avremmo dovuto pensare piuttosto a spassarcela.

Mia madre aveva deciso di non parlarmi più, adesso che non ero un semplice depravato, ma un depravato comunista. Girava gli occhi da tutte le parti: si sentiva accerchiata. Ora non aveva più un solo nemico giurato, ne aveva due. Entrambi degenerati, entrambi irrecuperabili. Solo che non potevo fare comunella con mio padre, perché io ero comunista rivoluzionario, e lui era fascista puro e duro. Le rare volte che passava per casa ci salutavamo come si salutano due vaghi colleghi di lavoro.

Ogni tanto il mio delicato organo della riproduzione si ammalava, e allora sembrava che dovesse morire da un momento all’altro. Dovevo curarlo, fargli coraggio, consolarlo. Le pustole o i bruciori del caso non erano niente, in men che non si dica sarebbe stato come nuovo, dovevo dirgli. Avrebbe ripreso a fare le sue stronzate, esattamente come prima, non doveva pensare il contrario. Naturalmente avrebbe dovuto stare un po’ più attento all’igiene, e a chi frequentava, tutto lì. Lui mi ribatteva che saremmo morti tutti e due tra atroci dolori, esattamente come il mio nonno paterno schiattato di sifilide. Sicuramente anche nel mio caso mi sarebbe andato in aceto il cervello, e avrei cominciato a dire delle oscenità, mi diceva. Saremmo stati il disonore della famiglia, mi diceva. Ha sempre avuto un’inclinazione per il melodramma. Finiva per mettermi paura, quel commediante.

Ma anche dopo che eravamo stati dal medico, che ci aveva prescritto le pastiglie e le pomate del caso, e tranquillizzati, continuava a piangere merenda. Purtroppo non sarebbe più stato quello che era stato prima, sospirava, sottintendendo che comunque andassero le cose aveva ormai preso la risoluzione di mettere la testa a posto. È già tanto se sarebbe riuscito a stare seduto, di alzarsi in piedi nemmeno parlarne, mi diceva. Purtroppo avremmo dovuto cambiare completamente vita, sospirava, come se io e lui fossimo la stessa persona.

Gli piaceva molto il mare. L’aria del mare gli faceva bene, si vedeva subito. Si ritemprava al ritmo dell’alternanza del freddo dei bagni, che lo faceva diventare piccolo-piccolo, e del caldo del sole. Si dimenticava di essere uno sciancato, si metteva in testa di essere un feroce leone. Gli piaceva soprattutto quando mi stendevo bocconi sulla sabbia, e lui si ritrovava schiacciato tra la mia pelle tiepida e salata e la sabbia tiepida e accogliente. Si dimenticava le sue amiche, da quanto era contento. O meglio, le spiava senza darlo a vedere mentre passavano in costume da bagno o ancora meglio a seno nudo sul bagnasciuga, immaginandosi chissà cosa.

Ma anche i treni, soprattutto quelli con l’aria calda e stantia, gli piacevano molto. Così come gli aerei, le navi, le automobili, i torpedoni a lunga percorrenza, tutti i mezzi di trasporto con dei traballamenti che in qualche modo lo cullassero. Qualsiasi mezzo di trasporto, purché lo dondolasse con dolcezza, preferibilmente provocando dei fievoli strusciamenti contro la stoffa dei pantaloni. Non gli sembrava vero, quando partivamo in viaggio. Se ne stava lì beato a godersi il percorso per delle ore, fantasticando alle sue amiche e a chissà quali avventure. Diventava languido, si immaginava delle struggenti storie romantiche. Finiva per farmi diventare languido anche a me, quel buffone.

Con le mie fidanzate e mogli nel complesso andava d’accordo, anche se naturalmente la perfezione non esiste mai. Il problema è che per un verso o per l’altro riusciva sempre a indisporle. Sembrava che facesse apposta a andare a spifferare che aveva delle amiche, invece di tenerselo per lui. Giusto per il piacere di mettermi nei pasticci. Oppure era a me che inavvertitamente scappava detto che aveva delle amiche. In ogni caso loro se la prendevano con me, come se il solo e unico responsabile fossi io. Prendetevela con lui, mi sarebbe venuto voglia di dirgli.

Naturalmente quando si cominciò a parlare di aids si arroccò su posizioni negazioniste. Secondo lui erano tutte frottole inventate da degli scienziati frigidi e sessuofobi. Secondo lui c’era dietro in realtà l’ennesima crociata della chiesa. Secondo lui fare l’amore con un preservativo era come andare a fare la spesa con un sacchetto di plastica sulla testa, come fare la doccia con l’impermeabile, come lavarsi le mani senza levarsi i guanti da sci, come addentare un tramezzino avvolto nel cellophan. Secondo lui bastava stare solo un po’ attenti, se proprio si aveva la paranoia di ammalarsi.

Ogni tanto mi trascinava in situazioni davvero imbarazzanti. Una volta per esempio ha voluto farsi baciare appassionatamente dalla mia professoressa di entomologia. Lei faceva del suo meglio per mostrare che era aperta a qualsiasi tipo di esperienza anche non strettamente entomologica, ma in realtà si vedeva che era ancora più attonita di me. Lui però era tutto contento. Un’altra volta ha fatto una delle sue sudate nell’intimità di una mia collega al sesto mese di gravidanza.

Un’altra volta approfittando che avevo alzato un po’ il gomito mi ha rimorchiato nella abitazione di una ragazza che non mi piaceva né tanto né poco. A causa delle contorsioni che lui mi aveva obbligato a fare la vedevo dai piedi, e vista da lì sembrava un gran lumacone molliccio. Lui però era tutto pimpante, se ne fregava di quello che vedevo io. Poi però sono io che mi sveglierò nel letto di questa cara fanciulla, e dovrò trovare qualcosa da dirgli, mica tu, gli dicevo io. La verità è che sei un gran sporcaccione, gli dicevo.

Un’altra volta mi ha messo nel letto la fidanzata ufficiale del mio migliore amico. Il classico tiro da organo riproduttivo completamente irresponsabile, irrimediabilmente immorale, mi sono detto io, tremante di rabbia. E poi un’altra volta, con il mio migliore amico che iniziava a guardare fissamente dietro la mia testa. E poi altre volte ancora: se ne fregava lui che il mio migliore amico mi detestasse, cominciasse a affilare i coltellacci.

Un’altra volta mi ha fatto curare un dente che non aveva niente, solo perché c’era un aiuto dentista che durante le cure dentistiche premeva il suo seno contro la mia spalla. Un’altra volta ancora, e erano passati già diversi anni, e mi trovavo in Spagna, mi ha fatto frequentare un corso di un astruso linguaggio di programmazione informatica. Solo perché aveva intravisto per caso l’insegnante, e ne era rimasto irretito. Era un linguaggio complicatissimo, e io non capivo nulla, ma proprio nulla di nulla, e mano a mano che il corso avanzava capivo ancora meno, ma lui mi imponeva che andassimo due volte in settimana a lezione, senza perderne nemmeno una.

Anche ammesso che avessi saputo bene lo spagnolo, gli dicevo, non avrei capito lo stesso nulla, era inutile ostinarsi, gli dicevo. Lui se la prendeva con me perché non mi sforzavo di afferrare almeno qualcosina, e perché a casa non cercavo di mettermi in qualche modo al passo. Seguiva sull’attenti le impossibili equazioni sulla lavagna come se fossero la stella cometa che porta al presepio. Facendo finta di capire tutto, beninteso. Anzi, convinto lui stesso di capire tutto. E naturalmente pretendeva che arrivassimo ogni volta per primi, voleva che ci sedessimo nel primo banco. Nelle pause mi faceva parlare con i miei colleghi di corso, per paura di passare per i due disperati che sono lì chissà per cosa.

Io cercavo di spiegargli che in quel momento avevo già una fidanzata e mezzo, quasi una e tre quarti: non avevo tanta voglia di mettermi a fare il giocoliere tra dieci fidanzate diverse, anche ammesso che quella bellissima insegnante cadesse ai nostri piedi. Ma lui voleva che ci vestissimo bene, in modo da essere notati. Voleva che facessi la faccia intelligente di quello che capisce tutto alla prima frase, quando non sapevo nemmeno di cosa stesse parlando. Se la prendeva, se per caso mi distraevo un attimo, o mi scappava uno sbadiglio. Io gli facevo notare che quella magnifica docente era certamente sposata con un famoso torero, e aveva tre figli che assomigliavano tutti a dei torerini, ma lui nemmeno mi ascoltava. Non ho detto che a me non piace, ma è una partita persa in partenza, gli dicevo. Niente, lui voleva che arrivassimo per primi al corso di informatica.

Un autunno che eravamo entrambi un po’ depressi sono riuscito a convincerlo a intraprendere una psicoterapia. Così non poteva proprio continuare, pensavo, e lui sembrava essere d’accordo. Se ne stava lì tutto mogio, mentre io parlavo e lo psicoterapeuta ascoltava con enigmatiche espirazioni da psicoterapeuta: si sarebbe detto che riesumasse anche lui la sua infanzia e i difficili rapporti con i genitori. Poi però appena uscivamo per la strada si ringalluzziva seduta stante: lo studio dello psicoterapeuta era situato in un quartiere molto elegante, infestato da bellissime e altezzose ragazze. Guardava le inarrivabili giovani donne, lui, non ripensava alle pregnanti nonché costosissime parole che avevano mostrato cosa si nascondeva dietro alle sue grossolane strategie, che avevano ridotto in poltiglia i suoi abituali argomenti. Se le era già dimenticate.

Ma fare tutta la storia completa del mio sciancato organo della riproduzione sarebbe troppo lungo, e certo non interesserebbe a nessuno. Ci sono stati degli alti e bassi, come in tutte le lunghe convivenze. Dei momenti di continui battibecchi e qualche raro attimo di perfetta intesa. Dei frangenti in cui bisogna tirare la cinghia e dei periodi di relativa prosperità.

Adesso s’è parecchio calmato. Sembra anzi un vecchio signore sempre in pantofole. Quei pensionati con le loro abitudini, che alla data ora escono con il cane a comprare il giornale, e che poi ritornano a casa e si schiaffano davanti alla televisione. E che quando hanno finito di guardare la televisione fanno le parole crociate seduti in poltrona. Mi parla con un fastidio trattenuto, come un marito ormai rassegnato alla convivenza. Alza le spalle, quando gli ricordo le sue intemperanze. È ancora interessato al genere femminile, figuriamoci, solo che gli è venuta una propensione per la speculazione filosofica. Sta lì a menarmela per tre ore sulle presumibili peculiarità psicologiche di questa o di quell’altra, analizza con un piglio da numismatico il minimo gesto, pontifica e puntualizza. Parla, parla, e quasi quasi rimpiango quando faceva le sue stronzate senza dire niente. Adesso si direbbe che dovrei procacciargliele io, le donne, invece di andarsele a cercare lui. Gli fa fatica tutto, ormai.

Salvo poi eccitarsi come un ragazzetto quando meno me lo aspetto, e fingere di avere trent’anni di meno. O meglio, esserne convinto, di avere trent’anni di meno. Esattamente come quei signori con il riporto di capelli che sbavano dietro alle ragazzine, ignari delle risate inorridite che suscitano. Penoso. Alla sua età dovrebbe vergognarsi di fare certe cose, gli dico io. Lui mi prende di nuovo in giro per la mia risibile nostalgia delle coccole delle maestre dell’asilo: nemmeno io cambierò mai, mi dice.

Ogni tanto gli faccio presente che è proprio un fallito. Un organo della riproduzione che non si è riprodotto è come un fiore che marcisce prima ancora di essere sbocciato, come una ciambella che è venuta senza buco in mezzo, come un grattacielo che casca da una parte prima ancora di essere arredato, gli dico. Le persone della mia età hanno già tutte dei figli grandi, cominciano a avere i primi nipotini, gli dico. Loro non finiranno in un ospizio con i muri scrostati, si godranno la vecchiaia circondati da una gaia discendenza, gli dico. Lui argomenta che la riproduzione non è tutto nella vita, ci sono molte altre cose altrettanto importanti. Io gli chiedo di elencarmele, queste benedette altre cose altrettanto importanti che la riproduzione. Lui cerca di fregarmi, e mi dice: la scrittura. A te della scrittura non te ne è mai fregato nulla di nulla, cerca di non essere troppo ipocrita, ti scongiuro, gli dico io, cominciando a innervosirmi. Lui sbrodola delle frasi che non c’entrano niente: cerca in realtà di cambiare discorso.

Io sarò uno scrittorucolo fallito, e un agronomucolo fallito, e un essere umano fallito, tutto quello che vuoi, ma tu sei ancora più fallito di me, gli dico allora. Lui alza le spalle, e continua a fare le parole crociate.

*

[Immagine: Francesco Clemente, South, 1992, Lococo Fine Art Publisher.]

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31 Commenti

  1. Tra i racconti che ho letto in Nazione Indiana, questo è certamente uno dei più belli.

    Alla prima parte, mi è capitato di dire che era un grande racconto, perché rendeva creativo anche il lettore.
    E portai come prova una frase.

    Ora sono convinto che è un capolavoro, perché è la biografia ideale di ogni lettore costretto a convivenze di questo tipo.

    Per dare le prove di questo ho iniziato col citarne dei passi:

    “E poi il selvaggio ero io, secondo mia madre.”

    “Mia madre aveva deciso di non parlarmi più, adesso che non ero un semplice depravato, ma un depravato comunista. Girava gli occhi da tutte le parti: si sentiva accerchiata. Ora non aveva più un solo nemico giurato, ne aveva due. Entrambi degenerati, entrambi irrecuperabili.”

    Ma poi ho desistito.
    Perché mi sono accorto che avrei dovuto fare un copia.incolla dell’intero racconto.

    A Giacomo Sartori va tutta la mia ammirazione.
    E un sincero ringraziamento per lui e per Andrea Raos.

  2. Sì, Sartori è debitore di qualcosa al Moravia di Io e Lui, così come Moravia è debitore a Denis Diderot di Les Bijoux indiscrets (1748), che trovate anche in tutti i suoi 54 capitoletti su “La Page de Trismègiste”, ove in html v’è postata l’edizione Nageon del 1798. Diderot, un vero grande maestro del genere, prima che filosofo, un visionario dell’estetica della forma, uno che era più di cento anni avcanti ai suoi tempi (ed infatti, lui vivente, come riomanziere/narratore non ebbe grande successo, fu scoperto e rilanciato cento anni dopo da un altro grende raffinato della “forma”….Stendhal). Si, amici, leggere leggere Diderot : in Jacques il fatalista e il suo padrone. vi sono già i codici della “narrazione cinematografica” con duecento e passa anni di anticipo. Un vero godimento estetico, per chi ha la pazienza di avvicinarsi con amore a questo Grandissimo.
    Comunque il testo di Sartori non è male; forse avrei esplorato altri temi, appena accennati (l’ottuso “lui” l’avrei messo più ironicamente a confronto con il figlio comunista rivoluzionario e con il papà fascista puro e duro; (due facce della “stessa medaglia …maschilista, si può dire?) ; magari l’avrei messo a “singolar tenzone” con una “Lei”(lei nel senso di organo di riproduzione femminile) ispida, chiusa e femminista, giocando sui tasti dell’ironia e della leggerezza. Chissà, può essere materia di un sequel?
    Mi scusi Sartori, io userei l’espressione “da scienziati frivoli e sessuofobi”, piuttosto che “da degli scienziati”; è più ritmicva e meno pleonastica. Sia detto con rispetto, si capisce.

    Comunque complimenti.

    Saldan

  3. Riposto il commento di prima, pieno di errori di battitura (il freddo prende alle dita!)

    Sì, Sartori è debitore di qualcosa al Moravia di Io e Lui, così come Moravia è debitore al Denis Diderot di Les Bijoux indiscrets (1748), che trovate anche in tutti i suoi 54 capitoletti su “La Page de Trismégiste”, ove in html v’è postata l’edizione Nageon del 1798. Diderot, un vero grande maestro del genere, prima che filosofo, un visionario dell’estetica della forma, uno che era più di cento anni avanti ai suoi tempi (ed infatti, lui vivente, come romanziere/narratore non ebbe grande successo, fu scoperto e rilanciato quasi cento anni dopo da un altro grande raffinato della “forma”….Stendhal). Si, amici, leggere leggere Diderot : in “Jacques il fatalista e il suo padrone” 8penso ai racconti multipli dell’ostessa, flashbacks sviluppati come in un presente visuale) vi sono già i codici della “narrazione cinematografica” con duecento e passa anni di anticipo. Un vero godimento estetico, per chi ha la pazienza di avvicinarsi con amore a questo Grandissimo.
    Comunque il testo di Sartori non è male; forse avrei esplorato altri temi, appena accennati (l’ottuso “lui” l’avrei messo più ironicamente a confronto con il figlio comunista rivoluzionario e con il papà fascista puro e duro; (due facce della “stessa medaglia …maschilista, si può dire?) ; magari l’avrei messo a “singolar tenzone” con una “Lei”(lei nel senso di organo di riproduzione femminile) ispida, chiusa e femminista, giocando sui tasti dell’ironia e della leggerezza. Chissà, può essere materia di un sequel?
    Mi scusi Sartori, io userei l’espressione “da scienziati frivoli e sessuofobi”, piuttosto che “da degli scienziati”; è più ritmica e meno pleonastica. Sia detto con rispetto, si capisce.

    Comunque complimenti.

    Saldan

  4. E’ un delizio… leggendo mi sono venute le lacrime del ridere. Ero sola a mangiare prima di correggere comptiti, e non avevo la voglia di lavorare. Ma dopo aver letto, mi sono sentito un’energia, una felicità del cuore.
    Ignoro se il birichino organo della riproduzione del narratore mi ha dato per contagio la sua malizia.
    Mi sono detto anche che non potevo rivolgermi al mio propio uragano /organo di riproduzione, perché non è un piccolo personnagio di facezia, ignoro se ha un nome, se è un personnagio.
    Dovrei rileggere il monologo della vagina…

    Dunque complimenti : ho apprezzato il testo.

  5. io questo racconto me lo sono goduto così com’è, sarà che non sono mai andata matta per moravia, e “io e lui” l’avevo trovato pesante e ridondante, questo estremamente ironico e mai volgare, difficile sfida vista l’ansia da prestazione del personaggio principale :)

  6. @ véronique
    E fai bene, Veronì! non puoi che giovartene! Magari accanto ai deliziosissimi monologhi della vagina di Eve Ensler. A proposito, mi hai fatto ricordare che, dopo averli letti qualche anno fa, avevo scritto un monologo “sulla” vagina. Se lo trovo te lo mando. Un abbraccio
    A proposito di Io e Lui di Moravia, negli anni settanta (seconda parte di quegli anni) circolava un film tratto da quel romanzo, dallo stessdo titolo, diretto da Luciano Salce, con Lando Buzzanca e Bulle Ogier, in chiave comico/grottesca/popolare
    @g. sartori
    in tal caso sarebbe il non plus ultra.
    Ad maiora
    Salvatore D’Angelo

  7. scusate “ansia da prestazione” non è proprio esatto pensando all’organo di riproduzione dell’autore
    diciamo l’ansia di prestarsi!

  8. @véronique
    Veronì, se trovo in rete il “monologo” di Roberto Benigni che cerca, in diretta Tv, di “acchiappare” la “cosina” di Raffaella Carrà, e si lancia in una meravigliosa, esilarantissima “lauda” dell’organo di riproduzione femminile, chiamandolo nei mille e uno – e bellissimi e appropriatissimi – nomi della nostra tradizione popolare e dialettale, assieme alle definzioni dell’organo di riproduzione maschile, te lo segnalo. Vedrai che ti..”scompiscerai” (Totò) dal ridere!
    Infine, ho capito bene, hai forse litigato col tuo organo di riproduzione?
    e su, veronì, fai pace con la tua..frufru!
    Con affetto
    Saldan

  9. Non ho letto Moravia (e non me ne dispiaccio), non ho visto il film con Buzzanca (e un po’ me ne dispiaccio), Diderot l’ho letto a metà per dovere d’esame (e non lo ricordo quasi più), ma (forse per questo?) ho apprezzato il cuento di Sartori. Godibilissimo.
    E siccome gli autori scrivono perché i lettori ci possano ficcare il naso (… mi accorgo che le mie parole stanno prendendo una piega non voluta…), a me sarebbe piaciuto di più che alla fine si scoprisse, dato che si parla di interesse scrittorio, che il raccontino fosse stato dettato da “Lui”. E magari, proprio per questo, trasformare linguisticamente le “bellissime e altezzose ragazze” in “gnocche” (et similia), anche con reprimenda in corso d’opera per il linguaggio scurrile da parte dell’ “Io”.

  10. i suggerimenti sono micidiali: uno si mette subito a pensare “in effetti avrei proprio potuto fare così e cosà …”
    e aihmé la labile impressione di “compiutezza” viene inghiottita …

  11. ne ammazza più la penna… e affidando ai commenti una prosa, le penne virtuali brillano metalliche e sanguinarie

  12. A me invece i consigli all’autore, tipo “avresti potuto fare così o cosà” o “forse sarebbe stato meglio o più bello…” paiono di una supponenza impressionante.

  13. Con Io & Lui ( non certo tra le sue migliori produzioni) Moravia sceneggia le pretese dell’Es nei riguardi di un Io impaurito e fellone, con il datato Super Io a pretendere sublimazione nell’impegno cultural- rivoluzionario. Quel poveraccio di Io cerca di porre rimedio sia alle pretese del membro che alle istanze superiori sottoponendosi a umilianti confronti con un giovin fighetto, indisponente, intellettuale a modo suo, un po’ stronzillo, che non perde occasione di rimproverargli una cocente appartenenza alla classe borghese. Andrà, il nostro eroe, andrà perfino da un amico psicoanalista cui, non sostenendone i silenzi, rinfaccerà per ritorsione il fallimento esistenziale e professionale. Ma il fallito è lui, come si evince dalla narrazione e dagli esiti della vicenda, e se anche non lo fosse una cosa è certa: mai parlare di falliti in casa del fallo.

    Carlo Capone

  14. Ecco, in qualche modo Carlo Capone rende in parte giustizia al testo di Moravia il quale, si sa, non ha nelle sue corde la dote dell’ironia, ed ha una scrittura dallo stile scarno, talvolta piatto, ma di sicuro ha detto cose toste su una borghesia (piccolissima, piccola, media e grande) che è quella che è (anche adesso, rimasta tale e quale, mutatis “mutandis””… e mutandis inteso non solo nel senso letterale, ma anche maccheronico), lo ha fatto in tempi meno facili di adesso (a partire dagli anni trenta) e, come tutti i moralisti (nell’accezione positiva del termine), ha -per paradosso- una “tensione etica”, anche lui nonostante. Ma non si dica che la sua è una scittura “pornografica” (Che sciocchezza!). Però tutto questo c’entra solo marginalmente con il testo di Sartori, che , giustamente, è ironico e leggero. Ma, se Sartori me lo consente, ha comunque a che fare con i temi sollevati da Moravia e in qualche modo ripresi da Capone. Magari “nonostante” le intenzioni di Sartori. In tal caso, la cosa depone A FAVORE del suo testo. Vuol dire che non è affatto banale, ma denso di “sottotesti”. E dunque efficace. E mi pare di averlo detto. Se mi ero permesso delle osservazioni era proprio in virtù dell’efficacia del testo, che “funziona” e dunque “cattura” l’attenzione.
    Infine, posto che non ho nessuna ambizone di essere “penna virtuale” in sanguinoso agguato, ma – al pari di Vérionique, che sia sempre benedetta per il suo candore! – mi muove il solo “diletto” della lettura,; e allora dico, infine, che se ne fa uno scrittore del solo e solito coro plaudente e acritico?
    Comunque, bravo Sartori, le fa onore rivendicare un debito verso Diderot. Ma, mi creda, anche senza che lei l’abbia voluto, qualcosa ha a che fare il suo testo con qello di Moravia . E, opinione personale, non credo sia un danno. Mutatis “mutandis”.
    Con stima

    Saldan

  15. Un giorno andai a una festa in una casa molto ricca, piena di opere d’arte, di cui non conoscevo il proprietario.
    Mi accompagnava un amico.

    Appena entrati vidi uno splendido ritratto e chiesi al mio amico:
    – E’ lui? Il padrone di casa?
    – Mah, non proprio. Mi pare piuttosto simile a quella.
    Rispose il mio amico, indicando, appesa a un’altra parete, la fotografia di un famoso fotografo che ritraeva lo stesso personaggio.

  16. @ Salvatore
    giuro sulle mie mutande che non ho mai letto Io & Lui, anche se (molto tempo fa) ho letto altri testi di Moravia, apprezzando soprattutto i racconti. E quindi sembra pure a me interessante – non sei solo tu a dirlo – che ci siano delle analogie, di temi ma forse non solo. O meglio, a dir la verità non mi stupisce per nulla. Come ho cercato di dire più volte – forse molto male, e sicuramente con un approccio molto empirico – anche qui su NI, credo che gli scrittori che scrivono in una data lingua (grandi, piccoli, famosi, negletti…) e la “abitano”, esistano dei legami profondissimi e molto sottovalutati. Molto più forti, anche se viviamo in un mondo globale, e nonostante se dio vuole la letteratura globale lo sia sempre stata, con continue influenze e rimbalzi da una lingua all’altra (i francesi che influenzano gli americani che poi a loro volta influenzano i francesi …), dei legami appunto da scrittori di lingue diverse. I tabù, i cliché, le possibilità umoristiche, i rovesciamenti paradossali … sono esattamente gli stessi. Tanto più in Italia, dove le ristrettezze culturali le vivono beninteso anche gli scrittori, esattamente come tutti gli altri. Anche chi legge Diderot invece di Amelie Nothomb, anche chi – come il sottoscritto – vive da decenni all’estero. E purtroppo il periodo di Moravia (= Moravia è pur sempre uno scrittore della sua generazione, anche se è vissuto e scritto a lungo) ci è molto più vicino di quanto si potrebbe pensare, e di quanto sarebbe normale che fosse. Il fascismo e l’antifascismo, e i loro immaginari, sono onnipresenti, se non altro in filigrana, nella cultura italiana. E appunto, ma lo dici tu stesso, non è solo la borghesia cheè la stessa. E allora possono appunto succedere di queste cose. Certo potrebbe succedere anche che un mio testo ricalchi quello di un autore nepalese, per carità, o più verosimilmente di un belga, e qualche volta succede (si può benissimo conoscere un autore attraverso altri autori, del resto), ma credo che le analogie sarebbero meno serrate. Tanto più quando si parla di sesso e affini, dove abbiamo appunto le nostre ben specifiche e più o meno felliniane tare. Naturalmente leggerò Io & Lui

  17. @ g.sartori
    Caro Giacomo,
    siamo perfettamente d’accordo. E aggiungo che non ha nulla (non hai nulla, vada per il tu) da stare sulla difensiva. Uno dei valori comunicativi della letteratura sta proprio in quello che dici, cioè in quella sorta di “inconscio letterario” che presiede a ogni creazione . A volta la bellezza ( e la novità) la si coglie non tanto in COSA si dice ma in COME si dice la tal cosa. Ecco perchè il tuo racconto, nello stile e nell’impostazione è vicino a Diderot, ma ne è distante nei temi e contenuti, ed è – mutatis mutandis, si capisce- vicino all ‘ Io e Lui di Moravia nei temi e contenuti, ma lontano nello stile. Proprio per le ragioni da te addotte e che condivido. Il mondo evocato da Moravia, con le sue tare eccetera, è ancora largamente quello che viviamo,mutatis mutandis.
    Il fatto poi che vivi molto all’estero, mi spiega il francesismo di quel “da degli scienziati…” (par des savants), piuttosto che “da scienziati…”
    Quando posso leggo di tutto e di più, compresa la Nothomb, ma poi – gira e rigira- davanti a un testo, è più facile ricordarsi di Moravia o Diderot che di altri più “à la page”. Sarà per quei famosi “sottotesti” o per quel famigerato “inconscio letterario”. O , semplicemente, perchè sono ormai dei classici.
    Beh, è questo l’augurio che ti faccio. Che tu possa diventarlo.
    Saldan

  18. Non dobbiamo dimenticare che tra Moravia e chi oggi gli succede c’è un certo Calvino. Io non ho alcun dubbio che Sartori ignorasse tutto Io & Lui, ma se anche l’avesse fosse nulla di strano ci avrei trovato in quanto il postmoderno, con i suoi importanti risultati, ha reso possibili e preziose un’ampia gamma di rivisitazioni, soprattutto in chiave parodica e/o leggera, impensabili negli anni settanta. Negare un principio del genere significa cancellare appunto Calvino , ma poi Eco e poi ancira, o soprattutto, Tondelli.

    Carlo Capone

    Carlo Capone

  19. Scusate, ripeto il post, zeppo di refusi.

    Non dobbiamo dimenticare che tra Moravia e chi oggi gli succede c’è un certo Calvino. Io non ho alcun dubbio che Sartori ignorasse Io & Lui, ma se anche l’avesse letto nulla di strano ci avrei trovato in quanto il postmoderno, con i suoi importanti risultati, ha reso possibili e preziose un’ampia gamma di rivisitazioni, specie in chiave parodica e/o leggera, impensabili negli anni settanta. Negare un principio del genere significa cancellare appunto Calvino, ma poi Eco e poi ancora, o soprattutto, Tondelli.

    Carlo Capone

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