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La materia umana

di Sara Palombieri

Avevo vent’anni. Ero al secondo anno di medicina, bruciavo dall’impazienza di scoprire quale sarebbe stata la mia strada, quale microcosmo specialistico m’avrebbe rapito l’interesse. Per questo vagabondavo per i reparti, alla scoperta di un mondo.
La terapia Intensiva Neurologica mi metteva addosso la più insana curiosità perchè è un luogo tanto affascinante quanto proibito anche al più stretto dei parenti che deve accontentarsi di contemplare il proprio caro da un televisorino, posto in una specie di sala di regia.Ma io sono entrata lo stesso.Una volta dentro mi ha colpito subito l’odore intenso di disinfettante e il silenzio quasi religioso. All’improvviso, però, la mia attenzione è stata attratta da un rumore particolare, lo stesso che si sente quando la cannuccia succhia dal bicchiere le ultime gocce di bibita, ma molto più cupo, più profondo, più umido. Dirigendomi verso la stanza di provenienza di quella colonna sonora, vi ho scoperto una persona. Era sveglia e stava sdraiata sul letto, ma con lo schienale alzato. Non aveva capelli, al loro posto solo una fitta peluria grigiognola. Era nuda nel letto, come vuole la prassi della terapia intensiva. Non c’erano quindi fiorellini rosa ad adornare il pigiama, né lunghi capelli profumosi che mi aiutassero a capire il sesso. Il lenzuolo copriva i seni che potevano rappresentare l’unico indizio.
Gli parlavo, ma non c’era risposta ai miei saluti, non c’erano sguardi curiosi, né diffidenti né contenti per la mia presenza. Gli occhi si posavano su di me solo casualmente e sembravano darmi la stessa importanza che attribuivano allo scarno arredamento della stanza. Per quella persona sembravo essere trasparente, era come se all’improvviso fosse stata messa in discussione la mia stessa esistenza. Era il paziente che non mi vedeva o ero io a non esserci più?
Cominciava ad assalirmi un certo strano disagio: era già qualche minuto che osservavo quella persona e non sapevo ancora dire se era un uomo o una donna, un giovane o un vecchio. All’improvviso però la voce squillante di un’ infermiera, probabilmente impietosita dalla faccia dubbiosa di quell’embrione di medico che ero, mi ha salvato da quel limbo di incertezza:- Questa è Enza, ha cinquant’anni ed è disgraziatamente sopravvissuta alla rottura di un aneurisma cerebrale. Adesso è in stato vegetativo persistente.-
Una donna, dunque. Una cinquantenne gravemente ammalata. Ma anche dopo questa confessione non riuscivo a provare né pena né compassione per Enza. La sensazione dominante che sentivo in quel momento era la paura. Sì, la paura, ma una paura arcaica, ancestrale, dal sapore primitivo. Il terrore che suscita lo sfocare dell’indefinito, la nebbia dell’incerto, insomma la sostanza dell’innaturale. Enza era pallidissima e smunta, aveva la testa crivellata da punti di sutura, emetteva grugniti incomprensibili e acutissimi che si mescolavano poco armoniosamente con quel suono cavernoso che m’aveva portato da lei e che altro non erano che le secrezioni che intasavano la sua tracheostomia. I suoi occhi di un azzurro chiarissimo girovagavano per la stanza senza tregua, erratici e il colore quasi trasparente dell’iride li rendeva incredibilmente inquietanti.
E io provavo paura.
Il mio timore non era certo una mancanza di rispetto nei confronti di persone gravemente ammalate. E’ vero, la paura è un sentimento egoistico, che piega su se stessi e che poco si addice ad un luogo d’aiuto come un ospedale. Ma la mia era un’angoscia primitiva e atavica, era il disagio umano di fronte all’innaturale, all’artificiale. L’innaturale e l’artificiale dello stato vegetativo.
Sono passati sei anni da quel giorno. Il mio microcosmo l’ho trovato, si chiama Anestesia e Rianimazione, una strada non molto lontana dalla Terapia Intensiva Neurologica. E nella Rianimazione che frequento per l’internato di tesi lo stato vegetativo di Enza mi si è ripresentato svariate volte, ovviamente con altri nomi, con altre storie. La maggior parte dei pazienti in stato vegetativo che ho visto in Rianimazione in questi anni sono tutti molto giovani. Molti di loro sono stati vittime di gravissimi incidenti stradali e molti di loro, ma non tutti, hanno subito interventi neurochirurgici delicati. Queste persone, prima di affondare nello stato vegetativo, erano in coma. Infatti lo stato vegetativo è uno dei possibili sbocchi del coma. Perché di coma si può morire, ci si può risvegliare oppure si può entrare nel limbo dello stato vegetativo. Alcuni riemergono da questa condizione entro poche settimane.
Ma se i segni e sintomi si protraggono oltre un mese la terminologia medica parla di stato vegetativo persistente. Questo sfocerà nello stato vegetativo permanente se non ci sono miglioramenti entro i due anni. Col passare del tempo diminuiscono sempre di più le possibilità anche minime di recupero.
Le sensazioni primitive che mi ha evocato Enza la prima volta si sono attenuate, mescolate alla compassione che mi imbibisce soprattutto quando genitori coraggiosi riempiono le anomine stanze dei figli con delle foto, un modo come un altro per tenerli aggrappati alla vita, quella vita che adesso sembra aver voltato loro le spalle. E’ doloroso. E non ho ancora capito se c’ho fatto l’abitudine. Ma l’abitudine cos’è se non un cancro che ti mangia tutte le emozioni, belle o brutte che siano, che spegne, che rende meno umani? Ti succhia la sensibilità e ti lascia il cinismo. Ma il cinismo è una fregatura, non è un giubbotto antiproiettili, è una corazza porosa che filtra le sensazioni lasciando passare dentro quelle più velenose. Così mi capita spesso di svegliarmi all’improvviso a notte fonda col cuore che martella contro lo sterno e il fiato corto e nella mente gli occhi erratici di Enza, Daniele, Orietta , Antonio …
Infatti è soprattutto lo sguardo di queste persone che ti fa perdere la pace per sempre: gli occhi sono aperti, vispi, vigili. Ma non guardano né vedono: ti trapassano. Sembra che scrutino te, ma in realtà vanno oltre. E’ come se vedessero tutto un mondo intorno, che tu non puoi nemmeno immaginare.
In questi anni ho imparato ad interpretare questo sguardo. Ho studiato che è una apparente vigilanza perché è vero che il paziente apre spontaneamente gli occhi e conserva il ritmo sonno-veglia, ma gli manca la coscienza di sé e dell’ambiente circostante.
La coscienza, dunque. In termini medici essa è composta da due elementi fondamentali: la veglia e il contenuto composto a sua volta da memoria, orientamento, giudizio, in una parola la consapevolezza. Appare evidente che nel coma sono assenti entrambi i componenti. Nello stato vegetativo manca il contenuto solamente. Solo il contenuto, pare niente. Giudizio, memoria e orientamento sembrano quisquilie, sono invece tutto quello che siamo. Senza la consapevolezza una carezza non è altro che sterile tatto. Senza la consapevolezza la mia canzone preferita non è altro che onda sonora. Tutto, senza la consapevolezza, è solo segnale elettrico, processo neurochimico, nulla più è esperienza emozionale.
E la memoria? Chi rimane imbrigliato nelle maglie delle stato vegetativo non solo ha perso tutti i suoi ricordi passati, ma non ne può acquisire di nuovi. Vive insomma in un eterno presente. Ma il presente è una manifestazione puntiforme del tempo che quando è subito non è più. E’ fugace, rapido , frenetico. Questi pazienti hanno perso anche il lento dipanarsi del tempo. Vivono al di sopra del tempo stesso, sospesi in questa non vita, in questa non morte.
E’ vero. Alcuni permangono in questa condizione solo alcune settimane. Ma quelli in stato permanente? Dieci, quindici, vent’anni svuotati della loro sostanza, dalla loro essenza, dal significato stesso di essere persona. Cosa sarei io senza me? Che senso ha una scatola di cioccolatini senza cioccolatini?
Allora mi chiedo quando una volta per tutte la medicina si interrogherà su se stessa perché certe condizioni, come lo stato vegetativo permanente, mi sembrano il frutto marcio di una scienza impazzita che si è dimenticata dell’Uomo. Mi vengono in mente a proposito le parole di Hans Jonas: Oggi viviamo in un’ epoca in cui il massimo di potere tecnologico si associa al minimo di sapere intorno all’Uomo; è uno smarrimento degli scopi da cui ha avuto origine la medicina.

Poco tempo fa sono andata a trovare Enza nella casa di cura dove è alloggiata. Ho trovato solo ciò che rimane della Enza di sei anni fa, ho trovato una penosa imitazione di essere umano: uno scricciolo rannicchiato nel letto, pallidissimo. Le sue carni diafane hanno un aspetto burroso, soffice perché l’immobilità ha consumato tutti i suoi muscoli. Il sondino naso – gastrico mangia per lei. Enza non deglutisce nemmeno e allora deve per forza stare sdraiata su di un fianco perché in posizione supina la sua saliva la strozzerebbe . La frizione continua col cuscino ha creato callosità nelle orecchie.
Questa volta non ho provato paura, ma un gran senso di claustrofobia. Enza non è solo rinchiusa da troppi anni in una stanza né solo segregata in un letto. È molto peggio: è una persona morta imprigionata nel suo corpo vivo, la prigione più piccola e malefica che esista. Il suo corpo vivo non cosciente, non consapevole, la forma peggiore di materia.

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12 Commenti

  1. una poesia informativa… una scrittura la cui bellezza nasce dalla necessità di raccontare, di agire sul mondo con l’atto del raccontare…e tuttavia è forse necessario immaginare un’altra possibilità ancora più orrorifica, ancora più straziante… quello che nella prigione del corpo vivo, e all’interno della persona morta che ne è contenuta, si risvegli un barlume di coscienza…a quel punto, se in uno spiraglio di coscienza si potesse riversare tutta l’immaginazione di un individuo, tutto l’immane fiume dei suoi desideri e delle sue paure, ci potremmo trovare di fronte alla più spaventosa sofferenza che mente umana possa immaginare, di fronte all’abisso del dolore assoluto, impotente, indicibile…

  2. ho avuto modo di avvertire (per puro caso) l’autrice di questo racconto sul (qualche volta) utile Facebook…
    Ringrazio anch’io Sara per questo preziosissimo contributo. Generoso e toccante. E lucido.

  3. Bellissimo testo che fa capire che senza la coscienza di essere vivi, siamo niente di più che la pietra. Ho molto amato la parte che evoca il corpo cieco, non sente la carezza: la mente fa il viaggio tra il segno, il corpo, e il sentito della mente. Il tempo assurdo mi fa pensare al castigo eterno negli inferni dell’antichità, un tempo senza la possibilità di sperare una soglia.
    Bellisssimo anche le descrizione degli occhi vivi ma senza la luce che cambia, senza l’echo del cuore, occhi che guardano il cielo, senza sapere che è il cielo.

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