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Dichiarazione di indipendenza

di Giuseppe Zucco

Ciò che avrebbe potuto essere e ciò che è stato
mirano a un solo fine
che è sempre presente.
(Thomas S. Eliot)

Quando vado avanti tu vai indietro
e ci incontreremo da qualche parte.
(Radiohead)

Tu sei come me, ed hai un mouse sotto il palmo della mano destra. Clicchi due volte, ed il mondo si dispiega per intero sotto i tuoi occhi. Hai appena acceso il computer, ed una freccia bianca, la punta rivolta verso l’alto, indica che tu sei lì, tra i pixel dello schermo, ed esisti. Le generazioni che ti hanno preceduto non avrebbero potuto immaginarlo, né teorizzarlo. Non ce l’avrebbero fatta a prevedere te, incollato davanti allo schermo, un piede sotto il culo e le cuffie tra le orecchie, stilizzato in una freccia bianca ed in movimento che rappresenta contemporaneamente altri milioni di utenti che adesso, proprio in questo istante, schizzano indisturbati sull’oceano smisurato della comunicazione globale. Il loro equilibrio mentale avrebbe ceduto allo sforzo di immaginare la tua vita espres-sa in una lunghissima sequenza di byte, oltre a farsi un’idea specifica su cosa fosse – tanto che, ancora oggi, con le mani alzate davanti al mirino della domanda cos’è un byte?, la gente glissa, o fa segno che proprio in quel momento il cellulare riposto in tasca non squilla ma vibra, quel genere di domanda che se non hai una risposta provvidenziale e definitiva, finisce per rendere il byte qualcosa di vagamente fatato, un oggetto magico, un’idea più che un oggetto, uno spirito che si muove insieme a te, e ti assiste, e si libra al di sopra di ogni tuo gesto e di qualsiasi tua intenzione.

Tu sei come me, e clicchi due volte con l’indice della mano destra. Hai appena finito di pranzare, e dovresti stare dietro alle funzioni e alle subordinate interrogative indirette, ma semplicemente te ne sbatti, e a furia di click esplori il mondo in lungo ed in largo. Potresti fare qualsiasi cosa adesso, ma senza neanche pensarci, preferisci stare lì. È il tuo Acquario, lo schermo. È il liquido amniotico dove crescerai e dove farai esperienza del limite e dell’eccesso. È il posto in cui per la prima volta non ti sei sottratto al nero della morte, che sbucava lì, senza intermediazioni, arcaica e modernissima, nelle immagini di un uomo sgozzato e decapitato – immagini sgranate e scure e mosse, lontane da qualsiasi standard di professionalità e per questo terribilmente autentiche, reali e sincere come lo stridore e lo scricchiolio della voce dell’uomo smagrito e bendato che supplicava in real time, mentre l’idea di sé, la sua immagine, solcava la superficie del tuo acquario in uno streaming scomposto e sgranato, proveniente da un luogo remoto dove il deserto è una regola accecante. Lo stesso posto in cui hai chattato e scambiato file con lei, La Più Bella Del Pianeta Terra, la ragazza che al solo nominarla spalancava il futuro, rimetteva in gioco le scelte e le prospettive, schiudeva nuove fessure e spiragli, a cui non hai mancato di rivelare, sempre battendo i tasti del computer ed esaurendo le subordinate di tua conoscenza, che non potevi farcela senza di lei, che ti mancava, soprattutto qui, in un momento in cui l’acquario coincide con il mondo intero, e la cosa più difficile da fare è sfiorarsi ancora, toccarsi, lasciarsi scivolare addosso le mani di un’altra persona che è lì per te, con la sola idea di toccarti e di respirarti vicino. Il medesimo luogo dove La Più Bella Del Pianeta Terra, mentre tu eri tutto preso a far vorticare sintassi e ad elevare formidabili grattacieli grammaticali, con la speranza ed il desiderio che tutto questo non andasse disperso, sbarrò la possibilità di ulteriori avanzamenti del discorso amoroso con una roba bidimensionale a tratti raccapricciante: un emoticon, un faccino tondo e giallo, con gli occhi in fuori ed una riga al posto della bocca, che ti guardava perplesso e stupito – un singolo ideogramma detonato sotto le più grandi ed elementari volute dei tuoi sentimenti. Un faccino contro ore elaboratissime di sintassi e retorica. Ed ha vinto lui. Impossibile controbattere in una forma pulita e grammaticalmente corretta.

Tu sei come me, ed a lei ci pensi ancora. Ci pensi questo pomeriggio, mentre traduci una versione di latino, ed il mondo è un rumore attutito che pulsa fuori, dietro e intorno le pareti che ti proteggono e ti definiscono. Hai calcolato che ogni settimana spendi dieci ore e trentacinque minuti (circa) del tuo attualissimo e del tutto contemporaneo scorrere del tempo, nello studio e nella traduzione di una lingua morta, parlata da gente scomparsa ere geologiche fa. E non ti viene altro in mente se non la parola: fantascienza. Il passato remoto ed il futuro anteriore sono equivalenti ed indistinguibili. Affondano nella nostra immaginazione. Sono il recinto in cui tutto, ed il contrario di tutto, accade. Ci inclinano alla raffigurazione degli alieni: gente che sfiata una lingua incomprensibile, che si abbiglia da sfigati completi, che perde il sonno dietro riti sanguinari ed inutili, che si convince che nessuno prima del loro arrivo e dopo la loro estinzione intuirà più così bene i principi e l’armonia dell’espansione costante dell’universo. La cosa divertente, dopo aver passato ore ad ispezionare e svelare l’architettura di una lingua morta e sepolta, con il capo chino in mezzo a cumuli di rovine e macerie, cercando di indovinare la forma dei pensieri di esseri umani passati a miglior vita quando la tua nascita non era che un’infinitesimale probabilità, un puro accidente, è sfogliare le pagine di un qualsiasi quotidiano. Tra le infinite notizie del mondo, c’è ne sempre una che acceca la comprensione di tutte le altre. La notizia è ben scritta, con un titolo in grassetto nero, condita da dati, grafici e sondaggi – anche se il tono vagamente apocalittico delinea il ricordo pulito di qualcosa che più non è. La notizia sconvolgente, degna di uno strillo in prima pagina, e di una lunga ed estesa trattazione in seconda ed in terza, è questa: I nostri ragazzi sono alieni. C’è scritto proprio così, e tu non hai affatto voglia di leggere una cosa del genere, sai già cosa dice, la sorpresa è a zero, e non mette alla prova nemmeno il più anonimo e scadente tra i neuroni. Non resta che chiudere il giornale, rimettersi le cuffiette, controllare la posta dove fioccano e-mail una dietro l’altra, scorgere se è on-line il contatto de La Più Bella Del Pianeta Terra, sentire una fitta proprio qui, scoprendo che lei non c’è e potrebbe essere ovunque – ed intanto, con la musica che esplode nelle cuffiette e percorre la rete neurale fino alle estreme periferie, percepire che le persone che respirano vicino a te, quelle con la capigliatura bianca e rada, e piccole rughe intorno agli occhi, e un’abbronzatura innaturale, e maggiore perizia nell’esprimere giudizi e controindicazioni su qualsiasi argomento, hanno i giorni contati. Se individuano in te l’alieno, se ritrovano in te che vivi a pochi centimetri da loro il piccolo abitante verde di astronavi che sfidano distanze siderali e occasionalmente vengono fotografate nei cieli di sperdute zone rurali del Nord America, significa che neppure li sfiora l’idea del futuro anteriore. Il futuro, per loro, è già accaduto, sei tu, e questo è quanto. Non ce la fanno a fantasticare lo schiudersi di un tempo che li supera. Non hanno dalla loro la forza dell’utopia. Tutto è rappreso qui e ora. Niente esisterà dopo di loro. Il dopo non è da prendere in considerazione. Ogni cosa è compresa tra i confini della loro esistenza. Tu sei la fantascienza fatta carne, jeans e sneakers. Un marziano che ondeggia nell’alto dei cieli e tra le pagine dei quotidiani.

Tu sei come me, e la tua droga si chiama e-mail. Preghi ogni giorno perché ne arrivino quantità inesauribili. Stormi di e-mail compilate e spedite da punti imprecisati del globo. Talmente tante e-mail da non riuscire a stargli dietro. Milioni di e-mail a migrare in minuti pacchetti d’informazione giù per le estensioni della Rete fino alla tua Casella Postale – qualcosa di più vivo di una Casella Postale, uno spazio immaginario che ti percepisce ed ha un’anima, o almeno sembra possederla, un’anima high-tech molto ottocentesca, che appena apri enfatizza un arcaicissimo Salve!, e fa seguire il tuo nome, e ti informa se splende il sole o meno, in quale città ti trovi, che ore sono, quale temperatura affronterà oggi il tuo buonsenso, quanti giga rimangono a tua disposizione, chi e quando ti ha contattato oggi, minuto per minuto, il bollettino delle relazioni interpersonali, la radiografia delle tue diramazioni virtuali all’interno delle comunità planetarie. Non sopporti l’assenza di e-mail. Detesti che nessuno si rivolga a te. Allacceresti mille altri rapporti con perfetti sconosciuti piuttosto che rimanere lì, in stand by, un essere umano 2.0 in solitudine completa tra le secche della Casella Postale. Perfino le e-mail promozionali sull’allungamento del pene andrebbero bene nei momenti di magra, tre centimetri in una settimana. O le offerte al ribasso di strabilianti occhiali a raggi x, potenti al punto da attraversare i vestiti, bucare la pelle, superare i tessuti, e arrendersi davanti alla visione del cuore da vicino. Non sarai mai grato abbastanza all’Invisibile Industria Culturale Del Software che si prende cura di te. Benedirai per sempre lo spam che allaga e spazza via gli argini digitali del silenzio. Ringrazierai anonime e quotatissime società off-shore che irradiano i loro messaggi automatici da isole disperse nell’oceano pacifico. Di fronte a tanta cortesia, non cederai al sospetto. Non perderai tempo con i comitati etici. Non farai appello ad alcun Garante della Comunicazione. Non vorrai neanche sapere come mai spietati Gruppi Di Affari Multinazionali posseggano i tuoi dati, e conoscano il tuo nome, parlino la tua lingua, sappiano tutto di te, cose che non sussurreresti neanche a La Più Bella Del Pianeta Terra. Esprimerai gratitudine infinita, e basta. La privacy è un’urgenza contemporanea che non ti tocca. È solo un piccolo tributo da devolvere per diventare un nodo privilegiato della comunicazione globale, un nodo da cui passa e si manifesta il mondo. Per questo non hai cestinato le e-mail arrivate direttamente dall’Africa subsahariana, mail toccanti, scritte in un inglese corretto e stringato, parole da cui fa capolino la pelle nera e appassita di un Capo Villaggio, con la preoccupazione di comunicarti come stanno le cose, in che miseria versi quel territorio e la sua gente, e che non sarai più solo, la mail dice proprio così, basterà mandare 500 $ al conto corrente indicato, e tutto il villaggio pregherà per te, giorno e notte, senza pausa, santificando le impronte allineate dietro i tuoi passi. Cosa che hai puntualmente eseguito, seppure dando fondo ai tuoi risparmi, ed è da allora che il Capo Villaggio non perde occasione di scriverti, di elogiare la tua bontà occidentale postcoloniale, di decorarti del titolo di Venerato Fratello, e di rammentarti con quanta facilità potrebbero alzare un altare a tuo nome, basterebbero soli ed ulteriori 500 $, ed una calorosa preghiera collettiva si solleverà nei cieli per distruggere e disperdere gli spiriti maligni che ostacolano il moltiplicarsi dei tuoi passi. Ricordi che lo scambio di e-mail si avverò qualche estate fa, a ferragosto, uno dei momenti più patetici dell’anno, quando ogni contatto si volatilizza, tutti dispersi e sudati in posti irraggiungibili dal wi-fi – al punto che allo scoccare di ogni quindici agosto, l’ombra del Capo Villaggio si addensa e il senso di colpa si allunga sulle vacanze, per lunghi tratti off-line, disconnesse e fuori dal bordo familiare dell’Acquario.

Tu sei come me, ed oggi è una buona giornata. Durante la sessione di archeologia letteraria, mentre traducevi la versione di latino, con la lingua morta a sciogliersi e palpitare in un italiano scorrevole, sono arrivate e-mail a non finire, e tu hai ancora in testa il presagio della piccola frase di Petronio, ubique naufragium est, quando dall’angolo sinistro dello schermo un riquadro azzurro spuntato dal nulla dichiara ventuno e-mail da leggere, ventuno entità virtuali in carne ed ossa che ti desiderano ed hanno bisogno di te. È un record assoluto, e clicchi due volte, con in testa la frase che ha scampato il silenzio, ha sorvolato i millenni, si è infilata tra i corsi e ricorsi storici, ed ora è lì, quando clicchi a ripetizione, e funziona, e non spegne il potere della sua attendibilità.
Le e-mail si dispongono sotto i tuoi occhi. Riportano tutte lo stesso titolo. Che cos’è la politica?, è il titolo. Clicchi sull’oggetto, e la e-mail si apre. Guardi velocemente, tanto per capire, e poi ne apri un’altra, e un’altra ancora, cliccando e lasciando aperte le e-mail, fin quando non le hai aperte tutte. Hanno lo stesso contenuto, cambia solo il mittente di una lunghissima catena che più e più volte si è inanellata intorno al tuo account.
La prima te l’ha spedita un ragazzo di cui avevi perso memoria. Come faccia ad avere il tuo indirizzo è un mistero. Era uno in fissa con il grunge, il walkman sempre in tasca, i jeans tagliati sul ginocchio ed una perenne camicia di flanella a scacchi verdi. Non lo sentivi dalle scuole medie. Lo chiamavate Kurt e pensavi la finisse presto, lui contro la canna di un fucile. Evidentemente non è andata così.
La quarta è di Elisa. Lei ti ha insegnato a baciare con la lingua. Ricordi ancora quando le chiedesti una gomma da masticare. Lei disse si, ce l’ho, era quella che aveva in bocca, la stessa che ti spinse tra la lingua e i denti, una gomma che scivolò a più riprese da una parte all’altra, un ping-pong per principianti.
L’ottava è di VentiquattroFotogrammiAlSecondo.Com, un blogger con cui avevi avuto uno scambio di e-mail. Recensisce i film citando Barthes, Foucault, Bazin, Deleuze, Lacan, altri di cui non ricordi il nome, tutta gente sicuramente morta, mai sentita nominare. Una volta gli hai chiesto come mai, e lui ti ha risposto che i film bisogna scardinarli, farli parlare, scartarli come regali, mostrarli da dentro, e che quella gente è dinamite che spalanca il cinema.
La nona è di tuo zio, il più piccolo tra i fratelli di tuo padre. Per l’ultimo compleanno ti ha regalato una carta geografica. Hai riconosciuto il mondo solcato da linee, frontiere e confini. Il consiglio è di mettere una x su ogni paese che percorri. Così sai dove spedirti la prossima volta. Dice anche di non fidarti troppo di quella mappa. È un’invenzione. È sempre colui che la disegna a definire quale paese e continente sta al centro della carta geografica mondiale.
La tredicesima è di Giulia. Una volta, quando ormai per strada non c’era più rumore, le avevi mandato un sms. Testo: come posso fare per starti vicino davvero, ma vicino per sempre? Lei ti rispose solo qualche giorno dopo. Testo: fatti trovare davanti casa tua, a mezzanotte, in tuta. Poi vi siete visti ogni notte, un’ora a notte. Correvate dentro la città assopita, lungo la linea bianca delle strade deserte, tra le macchine parcheggiate. Respiravate allo stesso tempo e non c’era bisogno di aggiungere parole. Quando ti disse che partiva per l’università, eri ormai allenato per correre e respirare a fianco di chiunque altro ti andasse di frequentare.
La sedicesima è di Walt Disney. Anche se dubiti fortemente che Walt Elias Disney, quello vero, con i baffi tagliati con cura, qualche giorno prima non avesse potuto far altro che accendere il computer, ascoltare il respiro dei microchip, impugnare il mouse, guardare il desktop comporsi davanti – le cartelline gialle ordinate su uno screensaver autocelebrativo: Mickey Mouse con la matita in mano che schizza su un foglio bianco, in modo cartoonesco e bidimensionale, i tratti di Walt Elias Di-sney, in giacca e cravatta – e poi avviare il browser, accedere alla casella postale, digitare a memoria una stringa di numeri e lettere, quindi inviartela, e aspettare le tue reazioni. Dubbi appesantiti dal fatto che W. E. Disney scomparse senza intaccare il potere della sua icona quando la tua nascita non era che un’infinitesimale probabilità, un puro accidente nel corso degli eventi. Anche se la e-mail l’hai aperta, e non conteneva nulla, se non il codice blu su fondo bianco di un link. Walt Disney è qualcuno che conosci, anche se non sai chi sia, né che faccia abbia. Hai cliccato sul link, ed il video non ha fatto in tempo a caricarsi che già sapevi. C’eri tu nel video, tra le maglie planetarie di You Tube, tu che facevi a pugni dietro il liceo, tu tra le immagini sgranate, tu che perdevi sangue e lo facevi perdere, la camicia macchiata e gli zaini buttati di lato, tu ripreso da un videofonino mentre schivavi i colpi e puntavi al viso, tu con i nervi tirati ed il viso deformato dalla tensione della lotta, tu con la camicia strappata dentro una tipica inquadratura parkinsoniana, tu che centravi in pieno un ragazzo con la maglietta rossa, più alto di te, ben piazzato, tu che tentavi di rianimarlo dopo che era crollato a terra, con una macchia scura che gli si allargava sotto il naso. Sul video è stata montata parte della colonna sonora di Cenerentola, un film animato di Walt Disney, quello vero, del 1950. I sogni son desideri, dicono le parole della colonna sonora. La musica sdolcinata stona così tanto con le immagini da lasciarti una sensazione di fastidio. Negli ultimi giorni ti sei visto e rivisto. A volte provi forza, altre solo vergogna, un sentimento che sconfina nel rimorso. Se Walt Disney si dichiarasse e mostrasse la sua faccia, tu non potresti fare altro che ringraziarlo. Mai nessuno ti aveva ritratto mentre ti sottraevi al dialogo ed imponevi la ragione con pugni e furia. Sei come tutti gli altri, come la maggior parte della specie, ed adesso ne hai coscienza. Non ti resta che la vita intera per lavorare su te stesso, evolvere da te stesso, scaricare dentro di te i meccanismi primordiali della specie umana che spingono alla risoluzione sanguinosa delle controversie.
La ventesima è la newsletter di una casa editrice, la tua preferita. Pubblica libri di letteratura fantastica, talmente fantastica, che alla fine si avvicina alla realtà, cogliendola in pieno, anche partendo da punti di vista improbabili – tipo un meteorite che sta per cadere sul Pianeta Terra, che fa di tutto per schivare il Pianeta Terra, un meteorite progressista che conoscendo lo stato attuale del Pianeta Terra, il modo attraverso cui vengono risolte le questioni geopolitiche, la solitudine autoimposta di moltissimi suoi abitanti, l’invasione nel mondo del lavoro degli stage e dei contratti a tempo molto determinato, preferisce schiantarsi su Giove, Marte, Saturno, qualsiasi posto piuttosto che il Pianeta Terra. Così la casa editrice invita te e gli altri lettori a leggere con attenzione la e-mail che si è arenata ventuno volte nella tua casella postale, e dopo averla letta di spedirla ancora a tutti i propri contatti. L’impresa, avverte la casa editrice, ha bisogno di chiunque. Dell’energia, della concentrazione, della forza di ognuno.

Tu sei come me, ed immagini l’alluvione di questa e-mail riversarsi e sfuriare per le vie infinite della Rete. Adesso sai chi te l’ha spedita e la guardi attentamente. È un volantino aggiornato ai tempi della rivoluzione digitale, non più in carta, ma in pixel. In alto, al centro della pagina, in un rosso luccicante, il titolo: Che cos’è la politica? Non hai tutti i torti a definire quel titolo una domanda, e ciò che segue una risposta. Al centro del volantino, stilizzato con cura, tratto nero su fondo bianco, appare la sede del Parlamento. Fa effetto anche in miniatura: è il potere. Largo e massiccio, una porta sotto tante finestre, piantato al centro della vita democratica del paese in cui risiedi: è l’immagine del potere. Niente potrebbe sintetizzare meglio concetti come autorità, diritto, consenso, partecipazione, oppure declino, conservazione, restaurazione, corruzione: è il potere dell’immagine del potere. Anche se c’è di più. Intorno alla sede del Parlamento in miniatura, tanti minuscoli omini, neri e piatti come quelli dei segnali stradali, omini che si tengono per mano, una massa di omini che circonda il Parlamento, qualcosa a metà tra la rappresentazione di un abbraccio e le spire di una minaccia. Il volantino, sempre con caratteri rossi e luccicanti, continua con: Spediamoli in orbita, Loro non parlano per noi, Mandiamoli nello spazio profondo, Nel vuoto interstellare capiranno, Loro non parlavano per noi, Non ci hanno mai rivolto la parola. E tu leggi, consideri, rilevi, ci pensi su. Gli occhi sono due scanner che elaborano e ripongono il file in memoria. L’appuntamento è per domani mattina, davanti al Parlamento. Tu non sai ancora se ci andrai, e perché ci dovresti andare.

Tu sei come me, stai cenando e guardi la tivù. Il tuo sguardo è una pallina da tennis, rimbalza tra il piatto e lo schermo del televisore, uno scambio che non ha soluzione, almeno fino a che non ti alzi da tavola e abbandoni il campo. I tuoi ti chiedono se hai finito i compiti, e dici di si. Ti domandano se anche stasera esci, e rispondi di no, non stasera, hai delle cose da finire. Quando tua madre ti chiede quali siano queste cose, tu rispondi semplicemente: cose mie – salvo poi aspettarti una tirata micidiale sull’incomunicabilità tra genitori e figli, sul silenzio che separa la generazioni, cosa che sorprendentemente stasera non si verifica, e ti chiedi come mai, quasi ne avverti la mancanza, come se fosse quello e nient’altro, lunghissime e pirotecniche tirate sull’incomunicabilità, il punto di contatto tra le generazioni, lo spazio verbale in cui ci si tocca sul serio. E ti alzi, sparecchi, lasci i tuoi davanti al loro schermo, per poi salire in camera tua, chiudere la porta, ed inabissarti ancora nell’Acquario. Ti chiedi se domani sarai davanti al Parlamento. Clicchi due volte, e fai un giro per i social network, cercando di capire l’umore del web. Ci sono forum dedicati esclusivamente al volantino. Ma le posizioni sono così disparate che tu non sai se domani potrebbero presentarsi una o un milione di persone. Allora ti chiedi perché tu dovresti esserci. E non ti viene nient’altro in mente che un fatto accaduto qualche mese fa. Sei ad una festa di diciotto anni, hai l’aria apparentemente allegra, un bicchiere in mano, sei appoggiato ad una parete mentre le gente si riversa tra il corridoio e le altre stanze, aumentando di numero ora dopo ora, tanto che alla fine è difficile trovare un buco libero, e tu sei ancora rasente alla parete, e stai parlando con Elisa de La Più Bella Del Pianeta Terra, del perché non sia lì adesso, un dialogo che va avanti per reciproca lettura labiale, il volume della musica non permette altro, quando una ragazza ti viene vicino e ti dice ciao, come va, che è nuova di qua, che ti aveva notato dall’inizio, lì rasente alla parete, e siccome non riesce a seguire il tuo labiale, ti prende per mano, e ti porta fuori, in giardino, una ragazza con i capelli lunghi e neri, e un filo di trucco nero intorno agli occhi, gli anfibi neri, infilata in un vestitino corto e nero, con un bracciale nero tatuato sull’avambraccio destro, che ti domanda come ti chiami, se hai myspace, facebook, o qualsiasi altro contatto da lasciarle, per evitare di disconnettere ancora le vostre esistenze. Ovviamente, le dai i tuoi contatti, anche se mentre lei chiacchiera di rave party e di sound system colossali, roba da rimanerci folgorati davanti per l’urto dei decibel, come fai di solito con le ragazze carine, sforzandoti di rimanere nei binari della conversazione, cominci a immaginare la tua vita accanto a lei, tu che la spogli, tu che la baci, tu che l’accompagni a casa in macchina, tu che la sfidi a correre più veloce, tu che le tieni la testa mentre vomita, tu che segui con un dito i picchi e le concavità della sua colonna vertebrale, tu che le consegni un ipod nero con schermo da 3.5 pollici e tecnologia multi-touch come simbolo di unione eterna, tu che la lasci, senza motivo, mentre la conversazione è agli sgoccioli, e ritorni lì, nel presente, e lei ti saluta, va via, lasciandoti nel giardino quando le luci si spengono, anche la musica, e l’unico punto luce è una torta con diciotto candeline che si muove e si fa spazio tra la massa degli invitati che cantano a squarciagola: auguri. Il giorno dopo la incontri su Internet, parlate del più e del meno attraverso le webcam, e potrebbe andare avanti tutta la notte, quando lei, con una lametta in mano, dice che ha un regalo per te, e con la lametta spinge e traccia una linea sulla coscia, la pelle intorno è rigata da un reticolo di cicatrici, ed il sangue cola appena quando dice di non preoccuparti, è un dolore necessario, di stare tranquillo, lei è una delle cutters, ragazze che si squarciano con le lamette per ritornare alla realtà, soprattutto alla realtà del proprio corpo, per sentire che esistono, qui ed ora, dentro un mondo virtuale e alienante che coincide con i bordi del tuo Acquario. Dice ancora che sei fortunato, nessuno è mai stato prima testimone del taglio e del sangue, della realtà che riaffiora sulla crepa di una ferita. È solo un regalo, dice. Appena vedi correre il sangue, disattivi il contatto, spegni il computer, non riuscendo a sostenere la visione della realtà. Ti senti dolorante, tagliato a pezzetti, solcato da microscopiche fenditure, aperto da incrinature lunghissime. Per giorni interi sparisci dalle diramazioni dei social network per evitare che ti ricontattati. Hai il terrore che lei, i suoi capelli lunghi e neri, la ramificazione delle sue cicatrici, ti incrocino per strada. Quella storia ti restituisce l’immagine da cui sei partito. Il volantino, il parlamento stilizzato, la folla di omini neri intorno al parlamento, ti scorrono in testa come le slide di powerpoint. Cos’è la politica, adesso lo capisci – se non altro lo percepisci istintivamente, come se un’idea, uno stormo compatto di idee, percorresse le terminazioni nervose del tuo corpo. La politica riguarda la determinazione di se stessi. La politica è la concatenazione del tuo corpo al resto del mondo. La politica è la possibilità di rendere evidente una ferita privata. La politica è l’occasione per scoprire nel corpo sociale ferite che si somigliano. La politica è una tecnica per cucire ferite collettive. E guarirle. E convertirle nel ricordo di un passato che non ritornerà. La politica è ago e filo impugnati da milioni di mani diverse. La politica è l’antidoto all’ubique naufragium est, al naufragio che arriva dovunque, il naufragio che Petronio aveva previsto secoli prima, scrivendo in una lingua estinta che continua a pronunciarsi. Il fine della politica è la rigenerazione dei tessuti sociali. Quando la politica non funziona, si colpisce e ci si lascia ferire, sanguinando in silenzio, sia pure per dimostrare la propria esistenza. Per questo sciogli i dubbi. Per questo, con un giro di click, spedisci l’e-mail alla Più Bella Del Pianeta Terra, a tutti i tuoi contatti. Per questo domani mattina sarai puntuale, ci sarai, farai la tua parte.

Tu sei come me, e sei già pronto, infilato dentro t-shirt, jeans e sneakers colorate. Prima di uscire dai un ultimo sguardo al computer, perennemente acceso, con la ventola che accenna il fruscio di un respiro regolare. Potrebbe essere il quarto componente della tua famiglia, il computer. L’unico essere che ti conosce davvero. Saprebbe dire di te cose che tu ignori. Potrebbe rivelarle in questo momento. Ma tu hai altro per la testa. Indossi lo zaino per non dare nell’occhio, saluti veloce i tuoi, e poi esci, riflesso sullo schermo appena concavo del computer – la cornea di una macchina che ti vede ed esegue i tuoi ordini quando sei assente, come scaricare musica e/o pornografia varia, la stessa che rimuoverai dopo una visione furtiva, con il senso di colpa a stanarti sui bordi dell’Acquario. Ed arrivi lì, la giornata è bella, il sole è luce e calore, una glassa dorata diffusa sulla piazza del Parlamento. Guardi davanti a te, e l’immagine stilizzata del volantino acquista spessore, si ingigantisce, ritrova proporzione e volume. Fai davvero fatica ad inquadrare tutto in un colpo. Scopri a tue spese che la realtà sfugge i confini dello sguardo e ripara nel fuori campo. Così muovi la testa, sposti lo sguardo da sinistra a destra, in una panoramica che svela poco per volta il paesaggio circostante. Per questo li vedi. Gli omini del volantino – mentre si spingono fino a te, e ti superano, o si fermano dalle tue parti – riacquistano peso, altezza, i lineamenti del viso, e la voce soprattutto. Arrivano pochi per volta, oppure in piccoli gruppi, senza particolare fretta, piantandosi lì intorno, come se quella fosse la cosa più normale del mondo: stare in mezzo a perfetti sconosciuti, gomito a gomito, sfregandosi gli uni sugli altri, misurando i propri movimenti, evitando di mettere a repentaglio l’intimità dei vicini, tutti coinvolti nella cosa che sta per accadere. Il vuoto della piazza è inondato dalla varietà degli esseri umani. Tu sei un puntino tra la folla che si moltiplica e s’irradia nello spazio. Non credevi che si sarebbe radunata così tanta gente, non potevi prevedere che il volantino raccogliesse e sommasse la tristezza di ognuno. Ogni tanto lanci sguardi in ogni direzione. Ti piacerebbe scorgere qualcuno che conosci, incrociare fatalmente lo sguardo de La Più Bella Del Pianeta Terra – le efelidi che punteggiano il viso, i capelli infiammati tra le radiazioni solari. Ma presto diradi ogni illusione. Se potessi guardare dall’alto, scopriresti la copia perfetta del volantino. Una massa enorme di omini intorno al Parlamento giunti di buon’ora, una folla che di tanto in tanto si apre, solcata dagli onorevoli e dalle loro scorte, tutti elegantissimi, in giacca e cravatta, con gli occhi in fuori, increduli per il numero e la varietà delle persone che intravedono. Passano in mezzo, ad un soffio da te, quasi fossero invisibili, senza che nessuno li calcoli neanche. Come si sia potuto arrivare a tanto, non lo sai più. Ma quanto sta per succedere è oramai inevitabile. Gli onorevoli sono raccolti tra le mura del Parlamento, ed è allora che tu, le persone accanto a te, e poi tutti i presenti, dentro un silenzio colossale, vi prendete per mano. Insieme chiudete gli occhi. Siete tutti sintonizzati sullo stesso desiderio. E sei così concentrato che non avverti neanche le fondamenta cedere. Il boato che si sprigiona nelle tue orecchie è appena distinguibile. Rimani fermo mentre il pavimento vibra e si spacca. Una scossa elettrica fluisce dentro di te, da una mano all’altra, tra le vene e le ossa. Sei il conduttore di un calore talmente buono, così intenso, da annientare il dolore, colmare la solitudine, cucire tutte le ferite. Quando riapri gli occhi, il Parlamento è un puntino di luce nell’atmosfera, un abbaglio senza nome, un desiderio esaudito nel vuoto interstellare. Questo è amore, pensi. Solo amore.

pubblicato su Nuovi Argomenti n.45, Gennaio-Marzo 2009

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9 Commenti

  1. Mi spiace, io non sono come te, non clicco due volte con l’indice della mano destra perché… sono mancino. Eppoi clicco direttamente sul mouse rigido del portatile… Ma ai mancini, nessuno ci pensa? Quando avevo il computer fisso, e avevo poszionato il mouse sulla sinistra, ricordo le buffe contorsioni di qualche amico o del tecnico sul mio computer.
    Cmq, su questo hai ragione: si consuma un sacco di tempo per star dietro alla vita virtuale, a discapito della creatività old style.

  2. Ho molto apprezzato il testo e ho riconosco la mia tentazione di nuotare nell’acquario. Forse è il mia fame della parola scritta che mi spinge a nuotare durante ore in un tempo magico, quasi senza limite. Non è il fascino dello schermo, ma l’unione tra il senso della solitudine e nello stesso tempo essere collegata con l’anima degli altri bloggers. E’ un sentimento strano di distanza e di immensa vicinanza.
    Ma una parola scritta (per me) non vale una carezza, un bacio, uno sguardo.

  3. Aggiugo che in casa ho un computer senza mouse e che adoro: è come una carezza della mano.

  4. Je suis un garçon très sage, meme si j’ai de mauvaises fréquentations comme celles de NI (personne n’est parfait)

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«Da una parte l’Impero ottomano, dall’altra la Valacchia. In mezzo il Danubio, nero e immenso». Lara è sul fianco e ruota la testa all’indietro, verso Adrian. Rimane così per un po’, con la reminiscenza del suo profilo a sfumare sul cuscino.

Amicizia, ricerca, trauma: leggere Elena Ferrante nel contesto globale

L'opera dell'autrice che ha messo al centro l'amicizia femminile è stata anche veicolo di amicizia tra le studiose. Tiziana de Rogatis, Stiliana Milkova e Kathrin Wehling-Giorgi, le curatrici del volume speciale Elena Ferrante in A Global Context ...

Dentro o fuori

di Daniele Muriano
Un uomo faticava a sollevarsi dal letto. Un amico gli suggerì di dimenticarsi la stanza, la finestra, anche il letto – tutti gli oggetti che si trovavano lì intorno.

Un selvaggio che sa diventare uomo

di Domenico Talia Mico, Leo e Dominic Arcàdi, la storia di tre uomini. Tre vite difficili. Una vicenda che intreccia...

Soglie/ Le gemelle della Valle dei Molini

di Antonella Bragagna La più felice di tutte le vite è una solitudine affollata (Voltaire) Isabella Salerno è una mia vicina di...
helena janeczek
helena janeczek
Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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