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Gran Torino, Detroit, USA

di Mauro Baldrati
grantorino

Da quel vecchio combattente della OAE (Old American Epic) che è, Clint Eastwood ha girato un film epico sulla solitudine, la vecchiaia, i padri, l’amicizia, il sacrificio. Walt Kowalski, il suo personaggio, riassume tutti i cow boys solitari che si sono avvicendati lungo le varie e transgenerazionali frontiere americane; porta con sé i generi, gli stili, l’azione, la violenza, la prepotenza del mondo, l’ingiustizia, contro cui i suoi eroi si sono ribellati, spesso in nome di valori mai dichiarati ma sottintesi di onestà, coraggio, difesa dei deboli. Li riassume in sé e li usa, li scambia. Per arrivare a una scelta finale che, forse, è il bilancio di una vita.
Walt, ex operaio della catena Ford, vive in una villetta dei sobborghi di Detroit. Un tempo questi erano i quartieri della piccola e media borghesia americana, gli operai specializzati, gli impiegati, col piccolo prato e la veranda. Ora tutto è in decadenza, le recinzioni sono sfondate, sull’asfalto cresce l’erba. Poche persone per le strade, bande perlopiù. La villetta vicino alla sua è abitata da una famiglia di asiatici, i “musi gialli” che lui, reduce dalla Corea, ha combattuto e ucciso.
Li guarda, e noi guardiamo la sua faccia in primissimo piano mentre li guarda, una maschera di durezza e di caparbietà, la maschera di un vecchio uomo gonfio di rancore e di ostilità, indignato per l’invasione della “sua” America, e davvero ci viene in mente la definizione affettuosa che di lui dava Sergio Leone: “ha due espressioni: una col cappello e una senza cappello”. La sua maschera rigida, arcigna, è quella di William Munny, il killer de Gli Spietati, e talvolta ci chiediamo se agirà come lui, se applicherà le regole del genere violento che Gran Torino sembra contenere nel suo plot.
In realtà sappiamo che l’ostilità di Kowalski sta per ammorbidirsi. Ci sono i segnali: la ragazzina hmong è simpatica, è gentile, spigliata. Non può che fare breccia in quel vecchio cuore indurito. E il ragazzino, Thao, che lui chiama Tardo, è timido, sprovveduto, “una femminuccia”, che non sa neanche capire se una ragazza carina ha puntato gli occhi su di lui. Lo becca, Tardo, nel suo garage mentre cerca maldestramente di rubargli la Gran Torino, il coupé Ford dei primi anni ’70 (era l’auto di Starsky e Hutch) che lui conserva come un trofeo, per sottostare al rito di iniziazione di una gang, capeggiata dal cugino, che lo perseguita.
E qui avviene il primo dei filtraggi di genere. La storia potrebbe prendere la direzione della violenza, le armi da fuoco, le bande, i bulli vigliacchi, e il vecchio giustiziere che li sfida a viso aperto. Invece tutto questo incombe sulle scene, ma resta come sospeso, una minaccia che appare e scompare, che trascuriamo, pur senza dimenticarla. Kowalski scopre il mondo arcaico hmong, “la gente della giungla”, un popolo fuggito in America in seguito alla guerra del Vietnam, perché “i comunisti ammazzavano tutti”. Sono gentili, non parlano né capiscono l’inglese, gli portano continuamente doni sulla scala di casa, fiori, piatti cucinati. Gli sono grati per avere difeso Tardo da un assalto della banda, che lui ha fatto fuggire minacciandoli col suo vecchio fucile della guerra di Corea, e per avere accettato di farlo lavorare per lui come riparazione al tentativo di furto.
Qualcuno particolarmente pignolo potrebbe riconoscere, in queste scene etniche, un blando razzismo paternalista, sulla falsariga di quello usato, per esempio, da Somerset Maugham quando rappresenta i cinesi. In realtà è un gioco di ruoli che Clint Eastwood porta avanti senza reticenze, partendo proprio dal suo personaggio che è “uno sporco polacco rincoglionito”, come lo chiama quel “ladro mangiaspaghetti” dell’amico barbiere; i giochi virili da uomini con le palle americani che provengono da mille paesi, da mille razze.
Ma tutto si complica. E’ destino. La banda minaccia, e colpisce. Colpisce con ferocia e viltà, come colpisce il branco, e semina dolore e distruzione. Nulla è più come prima. Bisogna fare giustizia. Una giustizia superiore, quella giustizia che la legge non può garantire, perché nessuno parla, nessuno denuncia. L’omertà hmong tutto blocca e tutto cancella: la giustizia del cow boy della retorica OAE, la vediamo dipinta a tinte fosche sulla maschera di Kowalski quando va a sfidare i bulli della banda, li va a prendere nella loro casa, mentre schiamazzano sguaiati. Li fronteggia da solo, con sarcasmo, li insulta. Vediamo veramente William Munny mentre sta per entrare nel saloon dove c’è lo sceriffo delinquente Gene Hackman, e fa una strage, e punta in faccia la doppietta allo sceriffo, che gli dice “spara”, e lui gli spara; e potrebbe essere questo il finale che ci aspettiamo, la catarsi nel sangue e nella distruzione violenta della violenza.
Forse non ci sono più finali inediti, perché, come sostiene qualcuno, tutto è già stato detto, scritto, girato. Ma non è il finale in sé che può sorprendere; è come conclude la storia che lo precede, come sbuca dalle radici della sceneggiatura che ci stupisce.
Il finale di Gran Torino è forse l’ultima scelta possibile del cavaliere solitario nato, vissuto e morto da outsider. La fine del viaggio.
La fine di chi non ha più nulla da dare, o da dire, se non offrire il proprio estremo sacrificio per la salvezza e per il bene degli altri.

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35 Commenti

  1. Ieri sera sono andata a vederlo, sala quasi piena nonostante fosse martedì segno che quando si tratta di un film che vale la gente va al cinema. Che dire se non che è l’ennesima conferma del grande valore di artista della lunga carriera di Clint Eastwood. Ci ha regalato un altro personaggio che è l’insieme di tutti quelli da lui interpretati, cavalieri senza macchia nè paura che non sopportano le ingiustizie, di rinascere come uomo accettando l’amicizia di quei vicini che per lui non sono americani anzi, di saper instaurare con Tao quel rapporto che è mancato con i suoi figli ed è proprio questo il segreto inconfessabile con il quale ha passato tutta la vita. Il finale ci lascia spiazzati ma è proprio da lui reinventarsi ogni volta. Grande Clint, augurandogli lunga vita e ancora perle di film.

  2. “Gran Torino” è un capolavoro, uno dei più bei film che abbia mai visto. A me non ha colpito tanto il finale, quanto il fatto che sembra che Eastwood ritrovi un po’ senso nella vita solo grazie agli stranieri che lo circondano e che continuamente lo spiazzano (e in parte lo rifiutano). Il senso nasce sempre dallo spiazzamento e dal disorientamento. Grande lezione.

  3. grazie per non aver detto che è un film fascista.il finale a me rammenta molto e con piacere quello del MUCCHIO SELVAGGIO e i perdenti del cinema di Leone, di tutto il cinema americano;ancora andando al finale del MUCCHIO SELVAGGIO:il covo dei messicani mi ricorda quello dei ragazzi Hmong e annessa carneficina.il mio unico dubbio è quella fascia in testa al cattivo Hmong come se fosse un cattivo Apache.

  4. Degli hmong sapevo che è una delle etnie laotiane che aveva collaborato con l’esercito statunitense durante la guerra “indocinese”, quando nel Laos i bombardieri Usa scaricarono più bombe che in Europa nel corso della seconda guerra mondiale, ma non che fosse vietnamita.

  5. “Il finale di Gran Torino è forse l’ultima scelta possibile del cavaliere solitario nato, vissuto e morto da outsider.”

    Il grande Clint.

  6. Franz, anche Callaghan era un cavaliere solitario, che credeva nella legge quando il sistema bloccato dalla burocrazia scarcerava i criminali per un cavillo, così agiva da solo, da outsider. Io non ho mai avuto questi problemi del fascista riguardo a Don Siegel (e anche John Milius, un altro che ha lavorato alle sceneggiature di Callaghan), guardavo i film e mi divertivo senza badare alle critiche sul giustiziere che applica la pena di morte al sopra della legge ecc. Ciò che contava era il racconto, la fiction che si sviluppava in uno scenario metropolitano degradato e violento (una nuova frontiera) dove il cavaliere cavalcava e combatteva anche contro – perlomeno al di fuori – il sistema corrotto, senza teorie né moralismi. Mentre non si può dire, per esempio, di un altro film che imperversò in quegli anni, “Il giustiziere della notte” con Charles Bronson, che pure funzionava sul piano dell’azione ecc., però conteneva in effetti una morale estranea alla fiction sul farsi giustizia da sé.

    Macondo, gli hmong sono anche vietnamiti, è un’etnia dell’Asia sud orientale (se guardi il link che ha messo sparz c’è tutto).

    Grazie a tutti.

  7. Hai scritto un ottimo pezzo e siamo d’accordo. Non volevo criticare te, ma i sant’uomini che fino all’altro ieri sputavano sul passato di CE. Che come dici giustamente tu valeva.

    Un abbraccio.

  8. l’ho visto ieri sera. e baldrati ha ragione, il film è senza dubbio un testamento, una specie di bilancio finale bio e cinematografico. quello che soprende di questo clint anziano è la capacità di essere lirico e romantico senza neanche l’ombra di una sbavatura, o di un eccesso, o di una didascalia. secco, perfetto, come l’inquadratura finale.
    molto bello. insieme a the wrestler, il miglior film del 2009 fino a questo momento.

  9. Non ho visto ancora tutti i film di Clint (quanti saranno? una trentina?), ma sono a buon punto.
    Il capolavoro assoluto per ora mi sembra Il texano dagli occhi di ghiacci, credo 1974.
    Franz, che ne dici?

  10. Non ho visto ancora tutti i film di Clint (quanti saranno? una trentina?), ma sono a buon punto.
    Il capolavoro assoluto per ora mi sembra Il texano dagli occhi di ghiaccio, credo 1974.
    Franz, che ne dici?

  11. aridatece il texano dagli occhi di ghiaccio (che tra l’altro espettorava catarri quanto e più di quest’ultimo) e tenetevi questa maschera rovesciata di gran torino. scherzi a parte il film è doppiato in modo orrendo e il personaggio, estremamente coerente con le sue precedenti incarnazioni, ne rappresenta casomai una “maturazione” da una prospettiva veterotestamentaria da occhio per occhio ad una cristiana non tanto perdonista quanto addirittura sacrificale. forse è davvero un testamento, almeno del clint attore.

  12. i film di clint giustiziere saranno anche stati belli, ma erano senza dubbio fascistazzi.
    lontani dalle complessità che poi ha messo in scena in maturità e in vecchiaia, talvolta raggiungendo il sublime, come in mistic river che a me pare ancora il suo film migliore.
    come l’architettura, il cinema è arte che in vecchiaia può diventare molto fruttifera et feconda, come dimostra il lumet di onora il padre e la madre.
    di gran torino, doppiaggio apparte, non mi ha convinto la recitazione di clint ipse e trovo il finale a credibilità zero.
    non tanto per l’atto, quanto per come si svolgono i fatti, l’arresto generale, nessuno che scappa, eccetera.
    al giulio cesare di roma fioccavano gli applausi di un pubblico di teste canute, la mia compresa.

  13. Al Capitol di Bologna invece c’era un pubblico a maggioranza di trentenni, gente che probabilmente non ha visto i Callaghan, e pure a The Wrestler, forse ancora più giovane, come alla proiezione del film sui Joy Division, dove ho pure intervistato tre studentesse universitarie che si sono dette “molto attratte” dal personaggio di Ian Curtis.

  14. a roma esistono cinema a fruizione prevalentemente senile, come il multisala eden, e cinema dove vanno i ggiovani, come l’adriano.
    l’adriano se hai sopra i trent’anni è un incubo sonoro.
    sale comode, visione perfetta, ma sonoro altissimo e puzza di popcorn.
    i film fracassoni li fanno tutti lì, tipo quelli che derivano dai video-giochi, dai fumetti dei super-eroi.
    la traiettoria artistica di clint eastwood è tra le più interessanti dell’intera storia del cinema: inizia come attore minimale e pessimo (e tale secondo me resta) nel cinema stucchevole e sostanzialmente disgustoso di sergio leone, che resta il suo primo riferimento: poi pian piano si asciuga sempre di più, fino a tornare ad una sorta di essenzialità americana & classica della quale oggi è il maggiore esponente: la sua lezione per me, cioè per ciò che a me interessa di lui, consiste in questo: man mano che il suo linguaggio cinematografico si essenzializza, le tematiche che affronta diventano sempre più complesse, gli script sempre più densi e interessanti: non è un processo lineare, ma sostanzialmente mi pare sia andata così: una sorta di cammino dal barocco alla modernità, dalla ridondanza artefatta degli inizi alla classicità di un mies van der rohe del cinema: less is more…

  15. @Lorenzo .

    Il Texano e Gli spietati. Due grandi film. Poi una serie di ottimi film ma non proprio eccezionali come dicono in troppi. Vedrò Gran Torino, ma è nel western e nel noir che Clint ha sempre dato il meglio.

    Per Pecoraro. Parlare in quel modo del cinema di Sergio Leone a mio avviso denota una scarsa conoscenza di che cosa è il cinema. E’ comunque grottescamente simpatico leggere certi commenti su un regista che ha inventato letteralmente un genere.

  16. può darsi che abbia una scarsa conoscenza di cosa è il cinema.
    la cosa non mi sorprenderebbe.
    tuttavia il cinema di sergio leone, che abbia o no inventato un genere e ammesso che averlo inventato sia una buona cosa – e non, come penso io, l’ennesima manifestazione dello scrausismo di certa cultura italica dove il leone medesimo non è che l’altra faccia della medaglia alberto sordi – mi risulta insopportabile esattamente come i musiconi di morricone di cui sono l’accompagnamento visivo.

  17. @franz
    vero che gli spietati e il texano sono gli apici del regista eastwood (e sono anche molto simili). vero che avrà girato una ventina d’altri ottimi film. meno vero che sergio leone abbia inventato un genere, in italia sarà difficile trovare qualcuno che lo ammetta ma leone ha copiato peckinpah che lo ha preceduto di alcuni anni allungando la broda e calcando pesantemente sul pedale del rapporto musica-immagine
    @tashtego i film di clint non erano fascisti ma casomai antimoderni e un po’ reazionari. daccordo non amava molto i sessantottini per esempio nell’uomo dalla cravatta di cuoio li riempie di mazzate. non diversamente da pasolini del resto

  18. Beh, ha inventato lo spaghetti western, che declinato in modo più o meno basso è stato un genere vero e proprio. Peckinpah è altro. A quel tempo molti usavano il rallenty e lo split screen, se è per questo. Ma sono d’accordo sull’influenza molto forte dell’americano su Leone. Certo, parlare di “allungare la broda” e di “copiare” mi pare parecchio ingeneroso per un autore che ci ha dato “C’era una volta in America”, per dirne uno. Sarà che a mio modesto parere l’unico regista che non ha avuto maestri – e nemmeno successori – è stato Fritz Lang.

  19. mi piace essere definito “certa gente”.
    te la prendi come se quella musica l’avessi scritta tu, franz.
    potranno esistere opinioni non del tutto conformi all’idea corrente secondo cui il duo leone-morricone è una gloria nazionale?

  20. Aggiungo.
    Stile (orribile, come la musica) a parte, ciò che manca allo spaghetti western è la dimensione etica del western americano.
    Ciò che fa il western nostrano, oltre agli attori con gli occhi non-azzurri, è l’incapacità italica di concepire un agire umano fondato sulla non-convenienza immediata, ma su altro, come la coerenza con se stessi, la fedeltà ad un’amicizia, la parola data, eccetera, indipendentemente dal contesto più o meno criminale in cui si colloca l’agire.
    Un esempio per tutti è il finale del “Mucchio selvaggio”, di Pekinpah, appunto, dove il tema è la convenienza personale che confligge con una questione di stile, anche per un gruppo di assassini rotti ad ogni esperienza.
    Nel western tardo manierista di Sergio Leone c’è poco o niente di tutto questo: è un Tutti Contro Tutti, dove alla fine il tema portante è sempre la vendetta, oltre al solito “accà nisciuno è fesso”.

  21. Tash, ovvio che si puo’ detestare Morricone, Leone, chi ti pare. Ci mancherebbe altro. Ma c’è modo e modo di esprimerlo. Tutto qui. La dimensione etica? Il “tutti contro tutti”, di cui giustamente parli, è un tema portante per esempio della guerra.

    E poi questo continuo sparare sull'”italico” è di maniera. E’ espressione di un pensiero, questo sì, davvero “italico.”

    Parlo di Morricone con una certa cognizione di causa. E al di là del solito “i gusti sono gusti” (affermazione ipocrita – non è vero) c’è una tecnica musicale raffinatissima e soluzioni importanti dietro i “musiconi”. Se imparassi a parlare con rispetto anche di cio’ che non ci piace risulteresti meno antipatico, caro Pecoraro.

  22. ho il massimo rispetto per morricone, per te, eccetera.
    il punto non è quanto sia raffinata la sua musica, ma a quale zona del corpo punta per colpire: non all’orecchio, non al cervello, ma (sono immagini convenzionali, passamele) allo stomaco, ai visceri, o se preferisci, al “cuore”.
    l’effetto è ipnotico e produce una strabiliante intensificazione delle immagini, al punto che non si riesce a considerarla come colonna sonora, ma parte integrante, anzi predominante del film.
    è musica-glutammato, esaltatrice di sapidità filmica, ma non nel senso del contrappunto emotivo, metti di pasolini in accattone, di kubrik in odissea, eccetera.
    morricone detta legge nei film in cui interviene e lo fa in senso incrementale, al punto da attenuare difetti e srausità.
    va bene.
    sull’italicità dell’eterno auto-spregio dell’italico ti do ragione, ma eistono dei luoghi culturali attorno a cui si è addensata l’identità culturale italiana, come appunto leone & sordi, ma ci metterei, per esempio moretti & de gregori/de andrè che urge sottoporre a critica.
    io lo faccio con leone/sordi, perché mi sembrano complementari.
    eccetera.

  23. urge sottoporre a critica anche quel pompier di kubrik. Ma davvero siamo ancora qui a prendere sul serio un’industria scaramacai come il cinema?

  24. Vedi Alcor, mi da addirittura ragione… non sono ossessionato da Francesco, è che dice delle enormi cazzate, a volte. E con un sacco di arroganza. Io, arrogantemente, provo a farglielo notare.

  25. Alcor: il discorso sulla musica glutammato… è divertente, ma non sta in piedi.

    Invece una bella e sana critica ai vari De Gregori/Moretti et cie. andrebbe una buona volta fatta. Compreso De Andrè, sopravvalutatissimo (prima o poi ci scrivo qualcosa con gli argomenti.)

    Riccardo: Kubrick pompier? Ma dai…

  26. Non ho visto Gran Torino.
    Spero di andarci presto a vederlo.
    Sono d’accordo anch’io che il Clint Eastwood di Leone era uno qualsiasi anche se con una notevole presenza scenica, anzi, a dire il vero, non mi piaceva affatto.
    Da parecchio ha dimostrato di essere un grande.
    Figura enfatica di Sergio Leone che è riuscito, secondo me, a metter su dei papponi ampollosi, magniloquenti, sproporzionati alle vicende narrate.
    Per non parlare dei ralenti che mi facevano venire il latte alle caviglie e la noia sotto le suole, ralenti fatti per aggiungere pompa, pompa, pomposo, e Moricone giù dargli altra enfasi a sottolineare, a slargheggiare ancora.
    Che poi Moricone è davvero bravo, ma credo che con Leone abbia dato il peggio.
    Di Leone ho apprezzato, un poco, soltanto il Buono il brutto e il cattivo, per una certa ironia inconsueta e la bravura di Eli Wallach,
    i c’era una volta mi hanno disgustato, ci ho trovato come una certa melensaggine.
    Mi è sempre piaciuto il genere western, mi sono allevato con John Ford e tanti altri bravissimi, per cui si può capire che Sergio Leone fin dal suo pugno di dollari mi parve un cosa da poco, un filmetto, e così la pensavamo in gruppo di amici appasionati del genere.
    MarioB.

  27. Complimenti per la recensione: acuta ed elegante, esattamente come la perla che Eastwood ci ha regalato.
    Merita davvero i soldi del biglietto.
    P.S.
    Non lasciate la sala prima di aver gustato la colonna sonora finale: eccezionale!

  28. Dicendo che Gran Torino sia un gran film si rischia di essere banali. Le due cose che non mi sono piaciute sono la colonna sonora e il doppiaggio, per il resto l’ho trovato bellissimo, finale compreso che pervade di un gran senso tutta la narrazione precendente. Un messaggio che ne traggo è l’immagine di un america che ha avuto grandi teste e grandi energie soprattutto nell’immigrazione passata e in quella attuale, mentre chi, come i figli e i nipoti del protagonista, è nato e cresciuto in ambiente borghese americano non riesce ad avere mordente e valori credibili.

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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