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The Best e la mafia

bring-me-the-head-warren1di Mauro Baldrati

Non ho mai lavorato per la mafia italiana.

Raramente i boss si rivolgono a uno specialista, preferiscono utilizzare uomini loro, che addestrano in proprio e tengono sul libro paga. I lavori della mafia sono esecuzioni in strada, raffiche di mitra sulle auto, esplosioni, stragi. Io non mi tiro mai indietro, elimino chi deve essere eliminato, ma non sono i miei sistemi. Io lavoro scientificamente, pianifico, studio, non sono adatto alle esecuzioni sui marciapiedi.

Per questo mi hanno chiamato. Hanno bisogno di un lavoro scientifico. Hanno bisogno di uno che sia in grado di gestire le varianti. Di un tipo convincente, che sappia recitare. Di un professionista che capisca le esigenze e si adatti agli eventi. Di uno che agisca in proprio, e li tenga fuori, anche se firma per conto loro.

Per questo mi hanno cercato, e non hanno battuto ciglio di fronte al mio compenso, che equivale agli stipendi annuali di una decina dei loro killer.

Devo liquidare un boss. Per uno sgarro, o una guerra perduta contro una fazione rivale, non m’interessa. Io sono un tecnico, non mi occupo delle motivazioni. Io eseguo e porto a termine.

E’ un ex killer della città di Messina, inviato in Emilia Romagna sotto copertura per organizzare un avamposto della famiglia.

Devo intercettarlo in una cittadina che si chiama Lugo di Romagna, dove lavora come elettricista. Un mestiere che serve allo scopo perché permette di muoversi, di contattare molti ambienti, aziende, uffici, e di osservare, ascoltare.

Lo vedo in lontananza, mentre sta stendendo dei cavi sotto le mura del castello. E’ col suo principale, un elettricista vero, uno del posto che conosce il mestiere, uno che sa. Conosce la sua vera identità, sa che sto arrivando, per portarlo via.

Cammino lentamente, con indifferenza. Quasi come un automa. E’ così che si deve fare. Io per lui sono un messaggero, uno strumento del suo boss. Uno senza identità e senza volontà, come deve essere. Sono la voce che viaggia sulla terra, attraverso l’aria, perché non può scorrere sui fili del telefono, o lungo le onde dei cellulari. Nessuno telefona. Nessuno vuole rischiare un’intercettazione. Si comunica coi biglietti, coi messaggi orali, come ai tempi antichi. L’antichità è la miglior difesa contro il controllo della tecnologia.

“Signor Caridda” dico, con tono piatto. Sono in piedi immobile, di fronte a lui, con le braccia lungo il corpo. La mia faccia è inespressiva. Non ho nulla da esprimere, nulla da chiedere. Non sono io che parlo, ma il suo boss.

Luciano Caridda lascia cadere il cavo, mi guarda coprendosi la fronte con una mano. E’ piccolo, con un grande stomaco, sui quaranta, un viso mobile, occhi appuntiti.

“Signor Caridda, il signor Berluga desidera vederla” e gli porgo il biglietto. Berluga è il suo boss, colui che l’ha condannato a morte. Il biglietto è stato scritto di suo pugno, e Caridda conosce bene la calligrafia. Nel biglietto è scritto che deve venire con me per una importante comunicazione. Poi i saluti che usano tra loro, spero che tu stia in salute, abbracci fraterni.

Caridda legge a lungo il biglietto, mi fissa coi suoi occhi neri. Sa che è inutile fare domande. Non saprei cosa rispondere. Il biglietto gli ha parlato, il biglietto contiene un ordine preciso. Non può discutere col biglietto.

Eppure continua a fissarmi, e leggo incertezza nel suo sguardo. E sospetto anche, ma non gli è permesso sospettare. Non è previsto il sospetto di fronte a un biglietto scritto dal boss.

“Va bene” dice. “Dove andiamo?”

“C’è una macchina là” dico indicando oltre il muro del torrione.

Caridda si avvicina al principale, confabula, mi indica. Il principale non mi guarda, annuisce con la testa bassa. Il principale sa che per lui è la fine.

Camminiamo in silenzio verso il torrione, ci avviciniamo alla macchina in sosta.

“Di dove sei?” mi chiede. Questa è una domanda che gli è concessa. E’ anche un segnale di autorità su di me, mi ordina di rispondergli, io che non ho nulla di significativo da dirgli.

“Di Kiev” dico. Ho dovuto allenarmi con l’accento russo, ma non è stato difficile. Io sono uno specialista con le lingue. Ne parlo tre in maniera perfetta, e altre quattro correttamente.

“Ah, mi pareva” dice.

A bordo dell’auto, seduto al posto di guida, c’è il mio contatto locale, colui che mi fornirà assistenza. Un appoggio logistico indispensabile per la particolarità dell’incarico. Si chiama Alessandro Talin, ho letto la sua scheda. E’ l’ultimo discendente di una famiglia nobiliare del luogo, i marchesi Talin, un tipo, assicurano i committenti, assolutamente affidabile. Ha fatto parte come agente esterno del servizio segreto dei carabinieri durante la guerra in Bosnia, e ha lavorato come contractor in Afganistan. Ha nervi d’acciaio, hanno detto, un addestramento militare di prim’ordine e, soprattutto, un disperato bisogno di soldi.

Gli apro la portiera posteriore e aspetto che salga. Le istruzioni sono chiare: non devo farlo salire davanti, perché è il posto dei condannati a morte, e non deve sospettare nulla. Lui è un boss, uno che conta, e noi semplici autisti.

Io salgo accanto a Talin e l’auto parte.

“Dove andiamo?” chiede.

“A Villa San Martino”.

“Ah. E chi c’è ad aspettarmi?”

“Non lo so, signor Caridda” dico.

Caridda si schiarisce la gola. Ha fatto una domanda stupida, e lo sa. Se anche lo sapessi, non sarei tenuto a dirgli chi lo aspetta.

L’auto gira intorno a una rotatoria e imbocca la strada che porta verso la frazione di Villa San Martno. Nessuno parla. Lo sento che si muove, sospira. E’ nervoso. Le convocazioni improvvise creano sempre apprensione.

C’è poco tempo. La frazione dista pochi chilometri dal centro di Lugo, siamo già nel tratto stabilito per l’azione. E’ una strada poco frequentata, appena superato il prossimo incrocio devo procedere.

Anche Talin è nervoso, lo vedo da come irrigidisce le braccia. Io invece sono calmo, come sempre. Solo la calma permette l’azione perfetta. E la mia deve essere perfetta, anche perché ho poco più di due secondi per concludere.

Ecco, ci siamo. Abbiamo passato l’incrocio, la strada è deserta. Lancio il segnale a Talin, un piccolo movimento del dito indice sul cruscotto. Talin ha uno scatto, esclama “oh porca puttana!” e rallenta improvvisamente. Io mi giro di colpo, e anche Caridda si gira, per guardare indietro. Tutti l’avrebbero fatto, come gesto istintivo. Solo chi è in possesso di un addestramento perfetto riuscirebbe a controllare un riflesso automatico come questo. Io, per esempio, resterei in guardia. Ma io non conto. Io sono The Best, sono un predatore, e l’addestramento alla sopravvivenza è la struttura della mia vita.

Abbiamo simulato più volte questa situazione. Il soggetto deve girarsi a sinistra, perché a destra avrebbe il vetro della portiera, che rallenterebbe psicologicamente lo slancio e la torsione del collo rischierebbe di non essere perfetta. Così io stesso mi giro a sinistra, verso lo spazio vuoto dell’abitacolo, per pilotare il suo movimento.

Ed ora viene l’azione fulminea. E in condizione logistica fortemente critica, perché bisogna operare col braccio sinistro, un problema per chi non è mancino. Ma non per me. Ho un controllo perfetto dei miei arti, posso considerarmi ambidestro.

Estraggo dalla tasca la minuscola Derringer calibro 6, un’arma del 1895, caricata con un piccolo proiettile che entra nel cranio ma non esce dall’altra parte, rischiando di mandare in frantumi il lunotto posteriore e provocando un versamento di sangue e materia cerebrale.

L’appoggio dietro l’orecchio e premo il grilletto. Caridda si irrigidisce di colpo, io lo afferro per i capelli e lo spingo in basso, nello spazio tra i due sedili. Poi, con la successione dei gesti che abbiamo più volte ripetuto durante le simulazioni, tiro fuori da sotto il sedile il telo e lo copro.

Bene. La prima parte, la più delicata, si è conclusa nel migliore dei modi.

“Tutto ok” conferma Talin, “non è passato nessuno.”

Ora viene la seconda parte, certamente la più laboriosa.

Svoltiamo a destra in una strada ghiaiata, e dopo meno di un chilometro entriamo nel grande cancello in ferro battuto, che si chiude alle nostre spalle azionato dai pistoni idraulici.

La casa appare alla fine del vialetto, all’interno di un piccolo parco, ma con piante secolari che la nascondono alla vista. Un luogo perfetto dove lavorare con calma.

E’ un edificio bizzarro, coi muri arancioni, le finestre e le porte orlate di marmo bianco, buffe merlature sui cornicioni. Chi l’ha progettato, il trisnonno di Talin, all’inizio dell’Ottocento – come mi ha raccontato il mio collaboratore, senza che gli chiedessi nulla – doveva essere un tipo eccentrico.

Entriamo nell’ampia autorimessa, Talin chiude il portone e scarichiamo il corpo.

“Merda!” esclama. “E’ ancora vivo!”

Lo adagiamo sul pavimento. Sì, muove la bocca, come se borbottasse. Spesso una pallottola nel cervello, specialmente se dotata di forza dirompente ridotta, può non essere mortale. Tuttavia questo è un dettaglio interessante. Se è vivo, cioè se ha battito cardiaco, può facilitare notevolmente il lavoro che ci aspetta.

Lo trasportiamo nel locale dove abbiamo predisposto l’intervento. E’ lo studio di Talin, dove lui dipinge, perché mi ha detto – di nuovo senza che glielo chiedessi – che è questo che fa nella vita. E’ una stanza ampia, col soffitto alto, disseminata di quadri appoggiati alle pareti, e un quadro sul cavalletto, iniziato con poche macchie di colore e gran parte della tela ancora bianca. Trovo indisponenti i suoi quadri. Esprimono dolore, scoramento. Uno in particolare mi infastidisce, rappresenta un volto che urla, come se tentasse di sfondare un telo che lo avvolge. E’ lui, non ci sono dubbi: è la sua faccia larga, con la testa pelata. Ma che bisogno hanno questi cosiddetti pittori di rappresentare continuamente il dolore, la rabbia e tutte quelle stupidaggini? A me piacciono i paesaggi dipinti con stile realista, il mare, i boschi, ambienti sereni; che si tengano i loro bachi mentali.

Dobbiamo procedere, perché entro stanotte il lavoro deve essere finito. E poi non voglio sprecare l’occasione di un battito cardiaco ancora attivo.

Gli attrezzi sono sul tavolino, li abbiamo preparati stamattina. Con le forbici tagliamo i vestiti e denudiamo il corpo. Lo facciamo strisciare sotto al paranco e gli lego le caviglie con la corda che pencola dalla carrucola. Lo solleviamo, finché le mani sfiorano il pavimento. E’ nella posizione giusta ora. A un mio gesto Talin prende il secchio e lo posiziona sotto la testa di Caridda, che continua a muovere le labbra. Talin è efficiente, si muove con gesti rapidi, ma avverto la sua tensione, e come un pensiero intermittente che lo tormenta e lo porta a fermarsi spesso per lanciare lunghe occhiate al quadro sul cavalletto.

Prendo uno dei coltelli dal tavolino e mi avvicino a Caridda da dietro. Gli apro la gola, recido la carotide. Il sangue zampilla subito, gli cola sulla faccia e inizia a raccogliersi nel secchio. Talin non guarda. Fissa il quadro.

Controllo il cuore. Il battito è attivo, se regge si dissanguerà in meno di mezz’ora. Fa parte del lavoro, le istruzioni sono dettagliate. Il corpo deve essere privo di sangue. E’ il messaggio che il boss Berluga vuole mandare ai suoi nemici: il sangue simbolizza qualcosa, non so cosa e non m’interessa. Poi dobbiamo smembrare il corpo, decapitarlo e riporre il tronco in una delle due valigie che abbiamo riposto vicino ai quadri. Gli arti e la testa li metteremo nell’altra, infine porterò le valigie alla stazione ferroviaria di Modena, dove verranno abbandonate in un punto stabilito. Così la scena, e il messaggio, saranno completi.

Non ci resta che aspettare ora. Talin passeggia per la stanza con le mani in tasca, lo sguardo fisso sul pavimento. Ogni tanto si ferma, alza gli occhi e guarda il quadro sul cavalletto.

“Mi è venuta fame” dice. “Siamo a digiuno da stamattina.”

E’ vero. La preparazione, i sopralluoghi e le simulazioni non ci hanno lasciato un secondo libero. Per me non è un problema, sono immune dalla dipendenza psicologica dal cibo. Il nostro corpo ha riserve alimentari sufficienti per resistere alcuni giorni senza subire conseguenze.

“E’ come quando dipingo” dice Talin, fissando il quadro sul cavalletto, “mi si svuota lo stomaco. Per questo ho allestito una cucina qui in studio. Ci sono due bistecche” dice, indicando il frigorifero. “Ti va?”

“Non mangio carne” dico. “Ma non preoccuparti, non ho urgenza di mangiare.”

“Ah. Dunque sei vegetariano?” chiede.

Non gli rispondo. Le sue domande mi irritano. Che si interessa a fare delle mie abitudini alimentari? Siamo qui per portare a termine un incarico, non per conoscerci o assurdità simili.

Talin sembra capire la mia contrarietà e non insiste. Apre il frigorifero, prende una padella da un mobile con gli sportelli di vetro. “C’è un sugo pronto, il cosiddetto pesto genovese. Se vuoi ti metto su una pasta.”

“La pasta va bene” dico.

Talin accende i fornelli, armeggia col rubinetto del lavello, con le pentole. Io vado a controllare il battito di Caridda. E’ leggermente rallentato, ma è sempre attivo. Nel secchio si è già raccolta una buona quantità di sangue.

Mi arriva alle narici l’odore acre della carne fritta. Talin apparecchia il piccolo tavolo che di solito usa per riporre i tubetti di colore. “Preferisci vino o birra?” chiede.

“Non bevo alcol” dico. “L’acqua va bene.”

“Oh. Non bevi mai alcol?”

Di nuovo questa curiosità insistente. La cosa si sta facendo seccante.

La pasta è pronta. Ci sediamo e mangiamo. Questo sugo detto pesto genovese è interessante. Saporito al punto giusto. Talin mangia in silenzio, con la schiena curva. A metà del piatto mi alzo e vado a controllare il battito, perché Caridda sembra totalmente immobile. E’ molto lento ora, ma il cuore continua a pompare e il sangue esce. Torno al tavolo e finisco la pasta.

Talin ha la testa bassa sul piatto, come se pregasse. “Non riesco più a dipingere” dice d’un tratto, con voce cupa.

Storco la bocca. Ma cosa gli passa per il cervello? Io non sono il suo confessore. Non mi riguarda la sua pittura. Se continua a seccarmi con queste battute fuori luogo gli intimerò di tacere. Lui dipende da me. Ha incassato 50.000 euro, altri 30.000 li riceverà dopo che sarò partito e avrò inoltrato il segnale all’intermediario.

Vado di nuovo a controllare Caridda. Tutto finito. Il secchio è pieno, il dissanguamento dovrebbe essere completo. Possiamo procedere, prima che il rigor mortis avanzi.

Chiamo Talin, tiriamo giù il corpo. Indossiamo le tute di plastica, i guanti e le maschere. Non dovrebbe schizzare sangue, ma è importante una protezione, anche per non lasciare nostre tracce sul corpo, come capelli, lembi di pelle.

La testa si stacca con facilità. La colonna vertebrale si taglia come il burro, nelle intersezioni delle vertebre. Le braccia sono più resistenti, e per le gambe dobbiamo lavorare molto con la sega elettrica. Alla fine le membra sono sparse sul pavimento, come se una forza dall’interno le avesse spinte lontano dal tronco. Ora devo sistemarle nelle valigie. Fuori intanto sta calando il buio. Sono in perfetto orario.

Ma d’un tratto Talin, che sta fissando il corpo sul pavimento, guarda il quadro e grida “sììì!”. Torna a guardare il corpo, il quadro, ripete “sììì!” e con un balzo afferra la testa di Caridda. Va verso il secchio, la immerge nel sangue e si precipita sul quadro. Sembra animato da una eccitazione violenta, spiaccica la faccia contro la tela, imprimendovi la traccia del volto. “E’ la sindone!” grida, e ripete l’operazione. Poi getta a terra la testa, corre ad afferrare un braccio, immerge la mano nel secchio e torna verso il quadro. Usa il braccio come un pennello, stampa impronte di mani, si precipita a prendere una gamba, la sbatte sul quadro dopo averla immersa nel secchio, travolto da un’energia selvaggia.

“E’ l’arte che nasce dalla morte!” grida, mentre ripone sul pavimento la gamba, e si accascia su una sedia, con la testa tra le mani. E scoppia in lacrime.

Io, per la prima volta nella mia vita, non so come reagire. Non avrei mai immaginato di dovere affrontare una situazione simile. E avevano detto che ha nervi d’acciaio. In realtà sembra un uomo distrutto. Piange come un bambino.

Che fare? Probabilmente dovrò eliminarlo, perché non è più controllabile. Ma è un imprevisto che apre una serie di variabili di difficile soluzione. Dovrò far sparire il corpo. Non posso rischiare di lasciare un cadavere in questa casa, troppe indagini, e un possibile collegamento col caso di Caridda. E pulire tutto, smontare il paranco, lavare i pavimenti, un lavoro che spetterebbe a Talin.

Nella mia carriera ho dovuto affrontare una lunga serie di imprevisti, ma non la pazzia di un collaboratore, e il problema di cosa fare di lui.

Lo osservo, quest’uomo massiccio, tarchiato, forte come un toro. Potrei forse simulare una rapina, ma la preparazione e le pulizie mi porterebbero via molte ore.

Devo decidere, maledizione, e in fretta, ma Talin mi precede. Deve avere intuito il mio nervosismo, perché si alza, si massaggia la faccia, si soffia il naso. Mi guarda con gli occhi rossi di pianto, sembra avere recuperato l’autocontrollo.

“Scusami, amico… non so neanche come ti chiami…”

Come mi chiamo? Ma che gl’importa del mio nome?

“Ho avuto un attimo di cedimento, ma è passato. Il fatto è che…” guarda verso la porta, come se inseguisse un pensiero lontano. “La mia vita va a rotoli, sono solo al mondo, e non so come venirne fuori…”

Va al lavandino, si lava la faccia. Quando torna sembra rinfrancato. “Bene” dice, “abbiamo un lavoro da finire. Diamoci da fare.”

Prende le valigie, ma c’è qualcosa che non va nel corpo smembrato di Caridda. Gli arti e la testa sono imbrattati di sangue. Non credo che il boss Berluga apprezzerebbe.

“Devi lavarli” dico, indicando i tronconi.

Talin annuisce, pensieroso. “Certo” dice.

Prende le braccia, le gambe e la testa e li porta al lavandino. Inizia a lavarli con un tubo di gomma che ha collegato al rubinetto. Usa la spugna dei piatti, ma la testa non si pulisce. “I capelli sono incrostati di sangue secco” dice. “Devo usare lo shampoo.”

Corre al piano di sopra, torna con una bottiglia di plastica azzurra. Cosparge i capelli di shampoo, li friziona, poi sciacqua con l’acqua calda. Il sangue scivola via con l’acqua nello scarico.

“Devi anche asciugarli, non va bene metterli nella valigia così bagnati” dico. “Non voglio gocce mentre la trasporto.”

Talin dice “certo”, e va a prendere un phon. E’ tornato efficiente, veloce, mi fa sperare che la crisi sia passata, e tutto possa essere ricondotto alla giusta logica delle cose.

Appoggia la testa sul ripiano del lavello, accende il phon e asciuga i capelli col getto di aria calda. Usa anche un pettine, per accelerare l’asciugatura.

Io guardo attentamente la testa, non sembra essersi ammaccata quando l’ha scaraventata a terra. Certamente il boss Berluga non vorrebbe una testa danneggiata per la sua scenografia. Gli arti li asciuga con uno strofinaccio.

E’ fatta, sistemiamo i pezzi nelle valigie. Dobbiamo faticare un po’ per piegare le gambe, che sono già irrigidite. Faccio scattare le serrature, iniziamo a trasportarle in macchina.

Usciamo nel parco, è calata la notte. Apro il bagagliaio, vi deponiamo le valigie. Ora partirò per Modena, poi porterò la macchina in un punto fuori città, dove mi aspetta un’altra auto, e la brucerò.

Talin osserva i miei movimenti immobile, mi porge la mano. “Bene, ti saluto allora. E non preoccuparti per quello che è successo. E’ tutto a posto. Ora pulirò tutto.”

Ignoro la sua mano tesa. Mi disgustano questi falsi gesti amichevoli, porgere la mano, salutare. Costui è vivo per miracolo, anche se dovrò decidere cosa fare. Forse dovrei segnalare al boss Berluga che ha avuto una crisi isterica, e ha rischiato di compromettere l’operazione. In quel caso verrebbe probabilmente eliminato. La sua sorte non m’interessa, però mi disturba questa conclusione. In qualche modo rappresenta un’ammissione di debolezza, come se non fossi riuscito a portare a compimento il mio incarico e inoltrassi una lamentela. Fa parte della mia professionalità l’assoluta autonomia e la risoluzione dei problemi. Non mi sono mai lamentato, né ho protestato. Mi affidano un lavoro, con tutte le variabili, le complicazioni, ed io consegno il risultato.

Probabilmente non dirò nulla, e lascerò che il caso faccia il suo corso. Se costui è pazzo, non corro pericoli. Nessuno può arrivare a me, nessuno può identificarmi, né localizzarmi. Io sono l’Inafferrabile, l’uomo dai mille volti.

Salgo in macchina, me ne vado senza dire una parola.

Se quest’uomo è abbastanza forte sopravviverà, altrimenti soccomberà. E’ la regola che governa le nostre vite. Non c’è altra legge possibile.

Perché, come ha detto uno di quei loro pensatori dell’inutile che chiamano filosofi: su questa terra nulla esiste, tutto è permesso.

Le altre avventure di The Best su Nazione Indiana:

https://www.nazioneindiana.com/2006/11/20/come-ho-liquidato-il-barracuda/

ripubblicato, con alcune modifiche, sulla rivista Delitti di carta

https://www.nazioneindiana.com/2008/05/17/dark-city/

L’immagine è tratta dal film del 1974 di Sam Peckinpah “Voglio la testa di Garcia“, reperita sul blog Scaglie http://scaglie.blogspot.com/2008/08/voglio-la-testa-di-garcia.html che ne offre una recensione e riprodotta qui in buona fede e condizioni di fair use.

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17 Commenti

  1. Le mie conoscenze letterarie sono limitate e confuse, ma in questo pezzo ci ho visto echi di Manchette. Un Manchette alla carbonara. Mi è piaciuto molto.

  2. Un racconto agghiacciante, preciso, duro.
    Fa un taglio nella mente.
    Mi ha fatto pensare al primo film di Matteo Garrone.

    Complimenti. Per la sensazione. E dietro la vista di un killer de mafia, c’è una denuncia. Il racconto è la realtà: crudeltà, precisione del gesto, senza
    stato di anima. fare morte simbolica. Orribile.

  3. -Se quest’uomo è abbastanza forte sopravviverà, altrimenti soccomberà. E’ la regola che governa le nostre vite. Non c’è altra legge possibile.-

    questa è la legge che governa la vita animale, non quella umana.

  4. Davvero si dice così:
    “Io sono l’Inafferrabile, l’uomo dai mille volti….”
    Se lo dice, se la conta, non credo sia attendibile, sa troppo di uomo fantasma; sarà un paranoico, ma è normale esserlo in questi casi.
    Non è normale che un gran “professionista” usi una Derringer calibro 6 mm, la stessa arma in calibro 22 sarebbe più adatta.
    Molto meglio una piccola automatica 6.35, non avrebbe trapassato la testa, in linea di massima.

    Io credo che i killer anche di gran nomea, abbiano delle belle &grosse paure e non siano così freddi e lucidi.
    Finché è tirare con un fucile da sniper da 100mt, si può anche essere freddi, ma quando la “preda”è sotto le mani….
    MarioB.

  5. Grazie e un saluto a tutti.

    Mario, il tuo commento così tecnico, è curioso. Sulla derringer non ci sono dubbi, ho avuto una specie di amico fissato con le armi, ho usato diverse pistole, tra cui questo modello di derringer, e sarebbe perfetta, è a basso impatto, e poi è opinabile dire a uno come The Best che non è normale la pistola che ha scelto; come è opinabile dire cosa può o non pensare. Ma non è questo il punto. Mi permetto di interpretare il tuo commento tecnico come un sintomo – e tu ti sei fermato al sintomo – di fastidio. Ricordo altri tuoi commenti, dedicati anche a miei testi tra l’altro, dove esprimevi contrarietà per le componenti di violenza. Qui sta il punto. La tecnica è secondaria. Ovviamente io non intendo contraddire un tuo giudizio negativo sul racconto.

    Un grazie particolare a Andrea, nel primo commento, perché mi ha svelato che razza di lacuna – che ammetto con difficoltà, mentre prima volevo dire “senza difficoltà”, ma avrei detto il falso – devo colmare conoscendo solo di nome Jean-Patrick Manchette. Appena avrò terminato il libro che ho in lettura mi precipiterò su di lui. Ho letto qui una sua dichiarazione che sottoscrivo in pieno:

    http://www.blackmailmag.com/Jean-Patrick_Manchette.htm

    Jean-Patrick Manchette è come un fratello per me.

  6. Oggi seguivo su tve un buon programma sulla novela negra, in pratica una metamorfosi, dai crimini che si leggevano una volta e che venivano
    narrati come una partita a scacchi, sempre in ambienti chic, all’esportazione degli stessi crimini in strada.
    Ora verrebbe lunga riportare un discorso che cosí sembra una cosa gettata lá, ma l’esperto di novela negra l’ha trattato davvero bene. Mauro Baldrati sa far questo, novelle nere.
    Lessi qui in Nazione indiana alcuni suoi racconti minori, droghe, anni settanta, storie di gente che faceva storie, e poi ebbi tra le mani una
    storia potentissima, con appena qualche scena troppo cinematografica,
    era una novella nera perfetta. So che non era piaciuta solo a me.

  7. Vedi Mauro,
    secondo me da molti anni abbiamo avuto una inflazione di killers ovvero sicari, assassini a pagamento, al cinema e in romanzi, racconti.
    Non ho mai letto un resoconto scientifico di polizia su un vero killer di questo tipo, il tipo slacciato da tutte le organizzazioni malavitose, che però è noto ai pochi eletti.
    Tempo addirittura che sia una leggenda metropolitana.
    Credo che uno scrittore quando si pone davanti ad una narrazione giallo/nera che vuol essere ispirata alla realtà ( tout court) debba attenersi a norme di verosimiglianza.
    Invece credo che qui tu ti sia sviato nel mito del killer gelido e scrupoloso.
    I sicari, in genere, sono tipi psicologicamente instabili, si drogano, bevono e si conoscono tra di loro ed spesso appartengono alla malavita organizzata, quando non sono, in Italia, ex “tutori dell’ordine” o dei “servizi”, cioè, a volte, colleghi delle loro vittime.
    Capisco che tuttavia è finzione….

    Il caso tecnico conta pure, per me, una Derringer calibro 6mm, che è un calibro Flobert, cioè di bassissima penetrazione, avrebbe solo fatto un buchino alla vittima.
    Esitono tuttavia Derringer ancora prodotte, per amatori, di vari calibri, fino al 45, il che sarebbe stato del tutto eccessivo.

    Infine ed infatti detesto le ostensioni sanguinolente, non le sopporto più, fin da quando, tanti anni fa, Hermann Niscth (ocomesichiama) ammazzò, scannò una capra in pubblico affinchè gli spruzzi di quel sangue imbrattassero un gran lenzuolo per epatèr les bourgeouis, e poi venderlo a caro prezzo.
    (roba di performance)

    MarioB.

  8. Grazie Marino. La storia nera è sempre in stand by, si attendono notizie.

    Mario, neanche a me piacciono le ostensioni sanguinolente e l’esibizione della violenza. Andai a uno spettacolo di un gruppo cult degli anni 80, i Magazzini Criminali, che uccisero e macellarono un cavallo sul palcoscenico. Io mi sono alzatdeo e gli ho gridato che erano dei pazzi, che era un vergogna, e me ne sono andato, seguito da un gruppo di spettatori. La giustificazione era che si trattava di un cavallo già destinato al macello. Una follia.

    Per il resto la verosimiglianza è utile nelle storie di questo tipo, le ambientazioni, le armi (e ribadisco la derringer, l’ho usata, va benissimo per lo scopo, la pallottola entra ma non esce), ma non è una regola sulla creazione dei personaggi. Puoi dire che tu l’avresti concepito diverso, ma non puoi stilare un profilo tipo e pretendere che lo scrittore lo utilizzi. Lo scrittore ci mette del suo, se vuole scrivere una storia che non sia prigioniera del genere, coi personaggi senza identità ma solo funzionali alla storia. Perché allora puoi sostenere che i personaggi di Crumley sono troppo drogati, oppure che Aureliano Buendia III è troppo taciturno e così via.

  9. (Mauro Baldrati)
    “Andai a uno spettacolo di un gruppo cult degli anni 80, i Magazzini Criminali, che uccisero e macellarono un cavallo sul palcoscenico. […] La giustificazione era che si trattava di un cavallo già destinato al macello. Una follia.”

    Come non pensare che l’animale sia superiore a noi? L’animale “sa” che si muore, che ci si ammazza, che la vita è anche una guerra (per la sopravvivenza: così, almeno, per gli animali), ma non ne fa una “riflessione”, uno “spettacolo” (ci avesse reso migliori, poi…). Qualcuno dirà che non lo fa perché non può e che noi esseri umani siamo “superiori” perché possiamo farlo. Mi viene da pensare che gli animali abbiano “capito tutto”: accettano la morte e non stanno lì a guardarsi morire l’un l’altro (toh, guarda, la morte). Il giorno che noi abbiamo iniziato a fare “bestiali” inutili schifosi spettacoli intorno all'”inevitabile” (non limitandosi appunto a rappresentazioni, ma perversamente utilizzando vite reali), lì è iniziata la nostra incredibile stupidità, il nostro cadere sempre più in basso.
    (Mi scuso per l’OT)

  10. @ Mauro Baldrati: Non ho capito il riferimento allo spettacolo dei Magazzini Criminali…se è una sorta di giustificazione al fatto che in questo racconto si taglia a pezzi un essere umano, quindi il collaboratore dell’assassino ne prende la testa, la intinge nel sangue dell’ucciso etc etc per cercare di farne un’opera d’arte.

  11. andrea: non so. Più che altro era un commento riferito a un’esperienza analoga descritta da Mario, non ho fatto un collegamento diretto razionale col racconto, anche se non è affatto escluso; ma escluderei che si tratti di una “giustificazione”, questo non credo.

    Portinaia, concordo, anche se dubito che noi possiamo davvero sapere cosa sa un animale.

  12. @ Mauro: ah. L’ho chiesto perché mi era sembrato un modo per dire a Mario che anche tu su certe cose la pensi allo stesso modo, però nel caso del tuo racconto…ma ok. Ecco. Non sapevo come intenderla.
    Però, mi interessa questa cosa della violenza. Perché ogni giorno ci viene propinata, sia finta che vera che vero-finta, e si fanno sempre più “eroi” che, di fronte alla morte, se ne stanno impassibili e freddi. I personaggi di romanzi e film e telefilm divengono sempre più “reali”, mi sembra. Nel senso che lo spettatore assuefatto non sa cosa provare, ed al limite segue la persona magari intervistata in tv, oppure segue comunque linee di comportamento che ha visto, sempre, in tv (film tg etc). Non so bene come spiegarla la cosa, magari ci penso su, eh.
    Grazie.

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jan reister
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