In merito alla risposta del Centro trasfusionale di Milano sulla proibizione di donare sangue fatta ai gay

Se Il Primo Amore avesse i commenti aperti (ed altro ancora) avrei segnalato a Stefano Beretta che il Policlinico a Milano rifiuta la donazione di sangue di persone gay fin dal 2005 sulla base di una singolare ed apparentemente pretestuosa interpretazione della Direttiva 2004/33/EC.
La fonte più completa per formarsi un’opinione sulla vicenda è dello storico e giornalista Giovanni Dall’Orto (da cui ho preso il titolo dell’articolo) sul suo sito (kudos queerblog). Vi invito a leggerla, soprattutto se siete donatori (o donatrici) di sangue come me, che ho donato al Marangoni negli anni passati ed ho quindi a cuore la cosa.

Jan Reister

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10 Commenti

  1. E a me piacerebbe sapere se il centro trasfusionale di Milano controlla il sangue donato o si fida di quello che raccontano i donatori.
    Se controlla, dovrebbe prenderlo da tutti.
    Perdonatemi se metto la discriminazione in secondo piano, ma trovo più allarmante questa ipotesi, anche se mi sembra lunare.

  2. La direttiva citata dal Policlinico non parla di omosessualità ma solo di comportamento sessuale ad alto rischio, come evidenziato da Dell’Orto.
    Il Policlinico ha deciso di mettere in questa categoria i rapporti omosessuali maschili, cioè quelli anali. Che effettivamente sono più a rischio, sia perchè è più facile si rompa il preservativo sia perchè se non protetti è più facile la trasmissione delle infezioni rispetto a quelli eterosessuali.
    Beretta fa notare giustamente che allora nel colloquio di selezione si dovrebbero escludere anche le donne che hanno rapporti anali, cosa che il Centro trasfusionale non ha elencato.
    Io faccio notare, in più, che escludere chi ha avuto anche un solo rapporto occasionale quando si accetta un donatore che ha avuto due partner (ma non 3) in un anno mi sembra un po’ assurdo. Due partner significa che non si è avuta una relazione durata più di 6 mesi, al massimo – benchè possano essere anche stati in contemporanea, i partner – e quindi in media si parla di relazioni di 2-4 mesi che, se proprio non sono occasionali, di certo non sono molto stabili. Che differenza fa allora tra due relazioni di 3 mesi e una notte di sesso, se si è sempre usato il preservativo? Credo conti di più quando è terminata la relazione, dato che il periodo finestra per l’AIDS è di 100 giorni (prima era considerato 6 mesi, in base a casi rarissimi trovati negli anni ’80, da tempo non più verificatisi). Ma c’è anche il problema delle varie epatiti, e delle altre malattie infettive – anche la sifilide sta tornando.
    In ogni caso, quel che conta è la protezione del rapporto e quanto tempo è passato tra la donazione e l’ultimo. E poi, certo, conta anche se nel tempo passato ma prossimo alla donazione uno abbia avuto più partner e/o rapporti più a rischio, ossia anali.
    In conclusione, le precauzioni prese dal Policlinico milanese paiono troppe se estendono l’esclusione ai maschi gay che hanno rapporti stabili da un anno o più, come nel caso in questione.
    E’ giusto quindi denunciarlo, per un senso di equità, insieme io direi al porre la questione per i rapporti anali tra partners di diverso sesso, e per i rapporti occasionali.
    Però non vedo perchè farne sempre una battaglia improntata sull’accusa di pregiudizio: alla fine quel che conta, prima di tutto, è la sicurezza del sangue per il ricevente. Qui si tratta di evidenziare precauzioni a quanto pare sì, eccessive (mentre forse in difetto per i rapporti anali tra uomo e donna), ma prese in base al fatto che, ripeto, i rapporti anali sono meno sicuri, possono più facilmente trasmettere l’infezione (quindi sbaglia Dell’Orto a dire che non fa differenza se si è avuto un rapporto a rischio omosessuale o eterosessuale), non in base al fatto che quelli sono “froci”, per citare una parola a sproposito che compare sull’articolo di Beretta.

    • Ricordo le conversazioni che ebbi con altri donatori, aspiranti tali e medici nel 2005, al tempo del primo caso di rifiuto citato anche da dall’Orto. Le motivazioni della parte Policlinico erano le medesime: protezione del ricevente, rapporti omosessuali maschili a rischio a priori. La risposta di alcuni amici gay era “ah si? col cavolo che gli dono una sola goccia di sangue allora!”.
      Sul piano medico concordo con Lorenzo che si tratta di una prudenza eccessiva (e di una attenzione forse inadeguata sul versante eterosessuale), di una impostazione ampiamente migliorabile dei colloqui di screening del potenziale donatore o donatrice.
      Sul piano umano però il messaggio che il Centro trasfusionale del Policlinico di Milano dà è: “Venite a donare, per piacere. Ma sappiate che ci piace scegliere.”
      Visto che la donazione di sangue ha un importante aspetto etico sociale (oltre che utilitaristico), questo messaggio percepito è profondamente sbagliato e va corretto, specie se l’obiettivo è ottenere un materiale così prezioso.
      Non so se AVIS o altri centri trasfusionali applichino politiche simili, è possibile.

  3. confermo che se dichiari la tua omosessualità, anche quelli dell’avis rifiutano il tuo sangue.

  4. donavo sangue in una sezione Avis nei primi anni ’90, e non penso mi sia mai stato chiesto se fossi omo o eterosessuale, ma se avessi una condotta sessuale a rischio. Il modulo di consenso ( http://www.avis.it/usr_view.php/ID=1161 ) e i criteri di autoesclusione dalla donazione ( http://www.avis.it/usr_view.php/usr_view.php/ID=1460 ) non fanno alcun riferimento all’omosessualita’, ma a “rapporti sessuali ad alto rischio di malattie infettive trasmissibili (ad es. rapporti occasionali, a pagamento, con persone sconosciute, promiscui)”. L’intero loro sito non fa alcun riferimento all’omosessualita’. Non penso all’Avis ci siano politiche di questo genere.

  5. Non saprei. Non credo neanche che i rapporti anali siano più a rischio di altri. Dipende dalla profilassi che si usa. In ogni caso il donatore dovrebbe assumersi le sue responsabilità.

  6. Guardate che non si tratta [e certo NON si dovrebbe trattare] di alcuna discriminazione basata sull’orientamento sessuale.
    Io ho collaborato a stendere le direttive per la sicurezza del sangue ed emoderivati da trasfondere per la Regione Lazio, nel lontano 1988.
    Il problema maggiore, per quando riguarda HIV, nasce da due punti, e dalla loro combinazione:
    – uno biologico, legato alla storia naturale dell’infezione, il famoso “periodo finestra” durante il quale l’infezione è presente ma non è rilevabile dai test in uso;
    – l’altro “socio-culturale-comportamentale” (non saprei come altrimenti definirlo) dovuto al fatto che la semplice RICHIESTA di un test per infezione da HIV può sembrare una ammissione di comportamenti a rischio e quindi ingenerare stigmatizzazioni e discriminazioni.
    Si sa che la donazione di sangue comporta l’effettuazione (oltre ad altri accertamenti) del test per HIV, e diverse persone pensano che sia un modo brillante per evitare di metterci la faccia, e i fastidi che ne conseguono.
    Ma spero che risulti a tutti chiaro che donare sangue dopo aver avuto comportamenti a rischio è una cosa forse italianamente desiderabile per chi si è esposto al rischio, ma delinquenziale: assolutamente pericolosa per chi quel sangue andrà a ricevere.
    Quindi, anche, mi sembra altrettanto chiaro che è DOVERE di chi raccoglie la donazione accertarsi che l’aspirante donatore non abbia avuto comportamenti a rischio in un periodo compatibile con il “periodo finestra”.
    Per il Lazio, preparammo un semplice questionario anonimo che ogni aspirante donatore poteva autocompilare in privato. Se qualche risposta indicava la presenza di un “rischio”, l’aspirante donatore si trovava davanti a diverse scelte:
    – andarsene;
    – chiedere di parlare con un medico, e poi decidere;
    – ammettere di essere venuto principalmente per ottenere il test e quindi… ottenere il test (senza che il sangue fosse utilizzato per alcunché);
    – negare il rischio, mentire sul questionario, e donare come se niente fosse.

    Va precisato che per quanto riguarda i comportamenti sessuali non importa l’orientamento principale, né la pratica specifica (anche se le pratiche traumatizzanti, lo dice il buon senso, comportano più frequentemente la presenza di sangue e quindi maggior rischio), ma LO SCAMBIO DI FLUIDI BIOLOGICI (i.e., sangue, sperma, secrezioni vaginali) in rapporti non protetti dal preservativo (o, per quanto non così frequente, che comportano lo scambio di “oggetti”).

    Tornando alle procedure di esclusione/autoesclusione: si tratta di procedure dovute, e certo non perfette [scusate se ci mischio il Pordenonelegge – altamente imperfetto, se volete, ma io credo migliore delle semplici classifiche di vendita, e scusate se ripeto: dite qualcosa per migliorarlo, non sparate sentenze tanto per far vedere quanto siete puri e fichi], ma che nel Lazio hanno consentito di tenere il rischio di infezione da trasfusione sotto l’uno per trecentomila, che è la frequenza più bassa in aree che hanno una prevalenza di HIV simile a quella di Roma e dintorni.

    Non conosco (ho lavorato per diversi anni a tutt’altro – chi fosse interessato può vedere i titoli degli articoli che pubblico sul sito del PubMed della National Library of Medicine, cercando “Abeni D”) le normative regionali di altre regioni, ma per quanto idiote e razziste [è un lombardo che vi parla] non penso che arrivino a discriminare apertamente e per iscritto le persone che fanno sesso con persone dello stesso genere.

    E’ più facile fare come si fa a Roma, dove l’amministrazione comunale, in risposta a ripetuti pestaggi di gay ha detto che vorrebbe mettere telecamere per controllare i tipici luoghi d’incontro dei gay: per proteggerli, ovviamente.

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