Il treno della morte

di Franz Krauspenhaar

Sono a Roma Termini, verso le 17.30  di un venerdì di dicembre. Nella mia devastante ingenuità penso di poter acquistare un biglietto per un Eurostar direzione Milano direttamente in stazione, come ho fatto varie altre volte, però dalla mia città… Ma è venerdì, appunto. Sono stato nel Lazio tutto il weekend. Prima a Fiuggi, per presentare il mio ultimo libro, poi a Roma, per svago. Il venerdì sera, per ovvie ragioni, i posti sono tutti prenotati. Non mi perdo d’animo, finisco in uno stand, di un servizio esclusivo per clienti Eurostar di cui ho cancellato il nome dalla mente. Clienti ma di prima classe. La hostess mi risponde come fossi un pezzente. La ringrazio con una smorfia. Nulla da fare, devo cercare un altro treno. O passare la notte a Roma, in un albergo. Ma ho poco tempo, sono stanco, abbastanza depresso, e l’indomani a Milano ho di nuovo da fare. Trovo l’unica alternativa. Che sarà mai un espresso? Ne ho presi tanti, da ragazzo. Saranno cambiati, oltretutto, saranno diventati al passo di Trenitalia che anni fa addirittura Celentano “testimonialava” in televisione. Sono vent’anni che non prendo un espresso. Nei primi anni 80 quel treno per me era la norma viaggiante . O il rapido, che tanto rapido però non era: 8 ore da capitale a capitale.
Attendo che arrivino le 22.45. Intanto una cara e giovane amica di Roma accorre per farmi un po’ di compagnia. Mastichiamo qualcosa di semi immangiabile in un fast food cinese, che pare a Roma faccia “fico”. Prima che la mia amica arrivasse, un muratore siciliano m’ aveva attaccato un bottone tremendo, visto che non aveva nulla da fare. Non capivo bene cosa mi diceva, mi pareva di essere rimbalzato indietro in una puntata della famosa trasmissione tv “Viaggio in seconda classe” di Nanni Loy, anni 70, una sorta di “Specchio segreto”, o “Candid camera” rotabile.
Quando il bravo mutatore parte, destinazione Agrigento, mi sento sollevato. L’ora del mio espresso è quasi giunta. Una folla enorme attende il treno, partito da Napoli. Ci si spinge da tutte le parti, ci si spintona, valigie e carrelli sbucano da ogni parte, come se stessero correndo su una pista folle. Ecco, è un viaggio all’indietro nel tempo. Gli assalti al treno delle vacanze, alla “Freccia del sud”; e le urla, gli odori forti, il caciocavallo, i dialetti che si mescolano con timbri e toni diversi. Trovo il mio scompartimento: tre tizi arabi,  più o meno di trent’anni, confabulano tra loro. Sono talmente depresso che penso subito al peggio: sta a vedere che questi sono di Al Quaeda e hanno imboscato 23 kg di esplosivo – stessa dose della bomba della strage di Bologna -da qualche parte. Sono tranquilli e scherzano tra loro, ma questo non prova nulla, anzi; sono probabilmente felici di morire, per raggiungere le loro vergini in cielo. All’indomani dell’ 11 settembre, girando per mie strade, percorso da una nemmeno sottile paranoia, vedevo terroristi islamici dappertutto. Gli arabi allora erano per le nostre strade già moltissimi, e la mia paranoia poteva anche essere la loro, rovesciata. La paura di essere messi all’angolo proprio per paura. Il razzismo della paura.
Sui sedili a lato finestrino, un uomo di forse cinquantanni, robusto. E’ straniero, lo si capisce, ma di dove? Capirò più tardi che è un arabo con le fattezze di un sudamericano inquartato, fisico alla Lino Ventura. Dorme, poi si sveglia, mi sorride debolmente, poi riattacca a dormire. Di fronte a lui, un sudamericano vero sui 55, capelli tinti, maglietta. Braccia forti, da ex pugile. Parla di continuo al cellulare in castigliano, strascicando le parole. Immagino sia argentino, o uruguayano. Dev’ essere a una riunione a Milano alle 8, aveva detto prima a un tizio di Roma. Che riunione sarà? Penso come al solito male: al minicongresso di papponi uruguayani operanti nel nostro mercato, tra le varie opzioni. È gentile, ma con una certa grevità. Arriva un giovanotto romano che va a Milano per lavoro,  ha l’aria triste del buon tirapiedi. Chiede al sudamericano come arrivare a Romolo, intervengo io, spiego, con la metropolitana è facilissimo, e io di metropolitane sono un esperto. Ecco, penso dopo un po’ nella mia follia depressa, sulla carta d’identità la prossima volta farò mettere: “Esperto in comunicazioni rotabili, segnatamente la Metropolitana Milanese.”
Il treno parte, e io tengo gli occhi bene aperti tentando di rilassarmi; e quando non è così, è perché sono semichiusi, mai sbarrati, mai rovesciati alla retromarcia di un benché minimo sonno. E’ il “treno della morte”, questo. Me ne ha parlato Max, un mio amico musicista che tempo fa veniva spesso a Roma per  faccende discografiche. Anche a lui era capitato di prendere questo treno della morte e della notte buia e tempestosa  per mancanza di alternative. Una volta aveva incontrato un deputato leghista, il quale gli aveva rivelato quell’appellativo sinistro. Lì succedeva di tutto, tutto poteva succedere. E dunque occhi aperti, mettendosi in testa che una tesa veglia è sempre meglio di un amaro risveglio. Gli arabi piano piano prendono sonno. Non sono male, per passare il tempo provo ad immaginare le loro origini. Egitto, in cima alla mia lista. Non libici, non algerini. Forse Marocco. E se fossero sauditi? A quel punto sarebbe quasi certo che dentro questo treno fottuto e maledetto c’è dell’esplosivo. L’uruguayano dai grossi bicipiti continua a sussurrare al cellulare, per ore. Ma chi paga? L’organizzazione? Le ore passano, sfinendo, lente, mortali, insensate, cupe.  Il treno, lento, lentissimo, come quelle ore, rimane alle fermate  a volte per interi quarti d’ora, o più. Io guardo dai finestrini, piove, a volte un tuono rimbomba da lontano, e subito dopo la pioggia s’infittisce, colta da qualche riflettore diventa quasi solida alla vista, come fosse un fulmine d’acqua che si è fermato contro il nero della notte. Non capisco il motivo di queste soste eterne, fuori piove sempre di più, ci avviciniamo al Natale 2008, a giorni inutili, persi, noiosi, tristi, mortali. Dai miei occhi socchiusi e brucianti vedo passare per il corridoio varia umanità: un uomo e una donna – vestita e atteggiata in modo volgare – passano e ripassano, spingendo le porte quasi con furia. Poi passano agenti, si sente parlare, in fondo. Caracolla un giovane che sembra un barbone, dev’essere sotto effetto di droghe o alcol. Dei napoletani, uomini e donne, passano vociando, in dialetto strettissimo, quasi non si capisce nulla. E nigeriane immusonite, caratteristiche, robuste e vistose, seguite da neri incarogniti. Dopo un paio d’ore, preso dalla voglia di fumare, vado verso la ritirata. Là fuori, zona predellino,  è pieno di cicche di sigarette, sembra un posto squallido finché si vuole, ma anche magico, anti Sirchia. In barba ai divieti. Dentro un Far West contro le norme. E’ chiaro che sul treno della morte ci si prendono delle belle libertà. C’è un nero alto e robusto davanti alla porta del cesso. Si scosta per farmi entrare. Ne approfitto per pisciare, e poi mi accendo una sigaretta e me la fumo. Ho sete, mi allungo verso il lavabo. E’ tutto come venti, trent’anni fa, un viaggio verso Milano ma anche verso un tempo che dentro di me avevo in qualche modo rottamato, perché il passato per me da gran tempo è un grumo di sporco, o di catarro, da eliminare. Spingo la maniglia della porta, ma non riesco a uscire. Il nero si è appoggiato  con tutta la sua potente schiena. Non faccio in tempo a preoccuparmi: do una forte spallata alla porta, che si apre. L’amico si è preso un bel colpo, ma l’ha voluto lui. Lo guardo dritto in faccia per un secondo; che non pensi io abbia paura. La vita mi ha insegnato che se abbassi occhi e guardia – ma soprattutto occhi – loro, i marci, se ne approfittano.
Tornato nello scompartimento, noto che tutti dormono; anche l’uruguayano ha spento il cellulare.
Vecchi odori che credevo sepolti nelle narici d’un tempo andato salgono ai sensi per nulla sedati. Un viaggio a ritroso. Per tornare un po’ ai nostri tempi attuali scambio un po’ di messaggi sms con un’amica insonne. C’è  polemica da parte di entrambi, ma è un modo per trattenermi nel mondo. Lì, sul treno della morte, mi sento in un altrove fatto di ricordi, in un passato creduto morto, e sporcizia, e vita malvissuta. Spengo il cellulare, e il via vai continua. Sono ancora depresso, sempre più stanco, ancora arrabbiato con me stesso per non aver comprato il biglietto dell’Eurostar in anticipo. Penso alla faccia sprezzante della hostess da prima classe, una faccia da schiaffi. Solo prima classe, a 85 euro, che non avevo, che anche se avessi avuto mi avrebbe fatto schifo consegnare a quella banda di ladri legalizzata. Ecco, alla hostess avrei sputato in faccia con tutti i sentimenti più neri in dotazione al mio animo rabbioso. Il motore a reazione della vita sono solo i soldi, questo ancora una volta viene fuori dall’ennesima lezione. E’ un conto d’amarezza sovrana, che mi fa tremare i polsi, che mi stende davanti alla fragilità di me stesso. Faccio dentro di me altre amare considerazioni, aiutate a montarmi dentro dalla forte stanchezza. E’ uno di quei momenti che portano ai bilanci, alla vista di un passato tutto da dimenticare, di un presente indigeribile, di un futuro prescritto senza rimedi. Verso Lodi mi rilasso, ci siamo quasi. Alle 7.25, in orario, il treno arriva alla Stazione Centrale. Il “treno della morte”, un treno che non si capisce perché debba esistere ancora. Un treno che viaggia per lunghissime ore nel passato e nel rischio. Accendo una sigaretta, gli arabi mi superano, mi volto e l’uruguayano non c’è, come sparito nel nulla, come se avessi sognato tutto, e questo squallore fosse stato il parto sognato di una mente stanca, alle corde.

[Pubblicato in una versione ridotta su «La Tribuna del Mezzogiorno»]

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55 Commenti

  1. Io ho preso per un anno tante volte l’espresso notturno roma-torino e torino-roma. E le atmosfere che descrivi sono proprio vere, le inquietudini notturne, i volti da scrutare, l’italia che scorre buia. bel pezzo!

  2. davvero un residuo del passato. Ho ben presente che quando ero ragazzetto e prendevo i treni da Desenzano del Garda a Brescia o Milano, rigorosamente in seconda, o in terza, fino a quando c’è stata, viaggiavo in piedi sulla piattaforma e spesso stipato senza possibilità di muovermi.

  3. Treno della morte, squallore della gente comune, del volgo inutile ma indispensabile.
    Non è un tempo dimenticato, è realtà che non ci appartiene più.
    Suberbamente malinconico, quasi angosciante.

  4. Grande Franz (as usual)!
    Ma forse la hostess di Trenitalia non ti guardava dall’alto in basso: era soltanto scazzata per guai suoi. Capita. Comunque anch’io, come Sparz, ho ricordato i viaggi in seconda classe delle Ferrovie Nord. Ai miei tempi non c’erano extracomunitari, ma l’atmosfera non era molto diversa.

  5. Intenso e calzante. Mi hai ricordato i miei viaggi verso Bari di una decina di anni fa, quando ancora mi ostinavo a prendere il treno.

    Ora mi aspetto un racconto sulla notte torinese, però.

  6. ciao Franz. quasi tautologico dirti che in questo tuo vissuto mi ritrovo… è anche in questo (altra tautologia) che a volte riconosco la forza della scrittura… bravo bravo… non sai quante volte ho percorso quella strada e preso quel treno… ciao ciao :-)

  7. siete degli sfigati, per voi esiste solo il freccia rossa!
    e avete ancora paura degli arabi terroristi…
    ahahahahahah
    il nero appoggiato alla porta del bagno avra’ pensato: che cazzo tira spallate, bastava farmi spostare con una bussatina…
    la paura attira la sfiga, avrebbe potuto prenderti a mazzate se fosse stato nervoso come te…

  8. Ben scritto, ho l’impressione di entrare nella mente di Franz.

    Il mio ricordo: sono andata con un treno regionale da Roma verso Napoli, non mi è sembrato treno della morte, ma treno flâneur, treno con il cielo di agosto. Un uomo di fronte a me che fissavava la mia scollatura e il mio volto. Non mi sentivo propio a disaggio, perché pronto il cellulare del viaggiatore risonato, e l’uomo a iniziato a litigare con una donna.
    All’inizio una donna è venuta con cartoline che rappresentavano, era la prima volta che vedevo questo.
    La paura nevrotica in treno l’ho quando per venire in Italia si dve prendere il tunnèl: è terribile per la mia claustrofobia. Immagino lo peggio: un incendio, l’impossibilità di uscire. Il viaggio svela la nevrosa che è dentro noi, prende proporzione più grande.

  9. Che rapprensentavano sante
    ha risonato
    ha iniziato
    deve
    nevrosi
    Même mes fautes sont névrotiques…

  10. Bel racconto, atmosfere descritte magistralmente, come le fantasie; sembra di esserci, su quel treno. Ricordo tanti viaggi da Roma a Bologna su questi trenacci, strapieni, lenti, sporchi. E’ ancora come allora.

    Quando invece andavo da Milano a Bologna e viceversa, e l’ho fatto per anni, prendevo sempre i regionali. Impiegavano circa mezz’ora in più dell’orario virtuale dei trenacci, ma erano puntuali e mi sedevo.

    I viaggi recenti che ho fatto sono stati sconvolgenti per lo squillo continuo dei telefoni cellulari. Un delirio. Qui ti è andata bene che parlava solo il tipo in spagnolo, per dipiù “sussurrava”; alcuni invece gridano, ridono e berciano.

  11. Per il cellulare, non sento più niente, ho una grande assenza. O forse come l’uomo parlava in italiano, era già in un canto ( certo di litigo), ma un canto.

  12. mah! .. le porte della ritirata, su quei treni, si aprono all’interno..

    ..non ho capito il titolo..la morte e’ nel cuore marcio del protagonista o e’ l’umanità rappresentata su quel treno, che puzza di morte ???… tenendo conto che anche il protagonista stà viaggiando su quel treno..

  13. un viaggio “vero”, metafora della vita. Mi è piaciuto molto, Franz. Chissà perché mentre ti leggevo, continuava a venirmi in mente il film “Train de vie” che è esattamente il contrario del tuo testo: racconta di un treno “finto” che deporta i prigionieri per garantire loro la fuga verso la libertà, e che solo alla fine si scopre essere una storia inventata, “quasi” vera, ma appunto non-reale, tragicamente finzionale. Sono due “testi” speculari davvero in molti punti. Finale compreso.

  14. una visione fenomenica, con proiezioni induttive ingiustificate, se non da paranoia, peraltro ammessa dall’autore: ma si vorrebbe anche uno straccio di lettura di questa realtà, che è la realtà della normale povertà, della sfiga di tutti i giorni, in un mondo, in un paese sempre più classista (che usa l’immigrazione clandestina per tenere bassi salari e costi di produzione di un sistema economico-produttivo arretrato): donne vestite in modo “volgare”, neri “incarogniti”: non sono un paladino del politicamente corretto, ma, se posso azzardare un aggettivo, questo pezzo è, neanche tanto sottilmente, di destra.
    niente di male, in questo, anzi.
    la prossima volta Franz, telefonami, io un letto per te ce l’avrò sempre, arroma.

  15. molto bello, attraverso le parole che formano immagini precise e le sensazioni descritte così profondamente eppure con estrema semplicità, mi è sembrato di stare su quel treno, in un angolo dello scompartimento, a osservare con gli stessi occhi dell’autore, a percepire con il suo naso l’inconfondibile odore di treno e di umanità viaggiante che non è mai cambiato nella mia memoria, nei miei ricordi di viaggiatrice.

  16. La prossima volta, franz, ti consiglio di fare l’autostop, chissà che non ti tiri su l’autista del berluska…
    Ma dev’essere ben sfigato quel deputato leghista che prende il “treno della morte” (seconda classe, per giunta?).
    A proposito di trasgressioni nicotiniche, quella che ricordo con più soddisfazione è avvenuta nella toilette di un areoporto dei puritani USA.
    Bello il pezzo, a parte quella patina da rambo…

  17. grazie a tutti.

    può darsi cehe questo pezzo sia di destra. a me quei neri (avrei preferito scrivere negri, come è corretto in italiano, e come è stampato sul giornale da cui proviene questo pezzo, ma ho desistito per spirito di correttezza per la versione di NI) parevano incarogniti sul serio. il tipo che non si spostava dalla porta del cesso, nonostante continui tentativi “buoni” aveva una brutta faccia da stronzo; non era il nero della pelle, assicuro. ho dato una spallata tremenda, al tempo pesavo kg 85 per 174 cm, ho fatto un sacco di sport, ci può stare il colpo duro, o no? quale rambo?

    l’autostop non l’ho mai fatto, e lo farei solo in condizioni molto più estrene; alla fine preferisco quel treno. penso sia una questione di abitudine; soffro purtroppo di attacchi depressivi. quella volta tutto è iniziato prima di partire, e non mi ha mollato che alla fine. ho scritto – bello brutto scorretto che sia – solo quello che ho visto e sentito.

    è la mia realtà, è un racconto in prima persona di sensazioni vere e di cose viste, non sognate.

  18. bella cronaca. la suggestione che mi ha suggerito: “la notte è loro”. così come le domeniche all’ora di pranzo, così come i giardinetti sbiaditi.
    ogni epoca ha i suoi colpevoli, veri e presunti.
    e ogni fantasma, ogni uomo nero, ha le sue notti.

  19. a volte siamo noi a vedere nero…siamo stanchi, alle corde, con i nervi a fior di pelle e tutti i sensi all’erta, quasi in guerra a difenderci da un nemico invisibile.
    chissà se quel treno l’avessi preso adolescente con il tuo primo amore, o nei primi passi di felicità nel mondo che ancora non conoscevi, di che colore l’avresti visto?
    magari ti sarebbe sembrato “il treno della libertà”, o magari no…
    comunque bellissimo pezzo.

  20. ahò ma che credevi questa è la vera italia, e tu scrittorello di obbellichi hai fatto il battesimo di realtà. è la povertà, bellezza. e nn sai che succede quando quel treno scende sotto napoli. sta dentro tu che qua fuori è un brutto mondo, e poi torni qua in salotto spaventato. hahahaahahahahaha

  21. Bello, comunque, sebbene concordi con Francesco, sembra il pezzo di uno di destra.
    Sti poveri stranieri…

  22. Pecoraro
    “una visione fenomenica” ?
    No, forse è la sua, una lettura fenomenica.
    Capisce che cosa intendo?

    Badi, non c’è alcuna intenzione polemica. Proprio il contrario, ho solo un dubbio. Non è che il fatto di conoscervi tra voi – lei lettore e FK scrittore – renda complessa la questione dell’identificazione tra il personaggio del racconto e la persona dello scrittore?

    Le faccio un esempio lontano. Se lo stesso pezzo l’avesse scritto Ellis parlando di Bateman, lei l’avrebbe definito di destra? Politicamente scorretto?

  23. ah, ti capisco bene Franz!
    Del resto, se non ti conoscessi personalmente e mi trovassi di notte sul treno della morte, o su un altro, con te nel mio scompartimento, ti assicuro che starei attento a fissarti anche solo per un secondo e che non chiuderei facilmente gli occhi!!! ;-)

  24. “(avrei preferito scrivere negri, come è corretto in italiano, e come è stampato sul giornale da cui proviene questo pezzo, ma ho desistito per spirito di correttezza per la versione di NI)”
    questa non l’ho capita.
    per quanto riguarda il racconto, mi sembra importante il ruolo della “depressione” che fa vedere tutto nero, e mi chiedo se incontri diversi avrebbero riportato lo stesso risultato di ansia. così su due piedi direi di sì, perché in certi stati d’animo le cose più innocue divengono motivi di attenzione, un alzarsi delle difese, ed un abbassarsi delle difese contro i luoghi comuni. il nomignolo di “treno della morte” dato dal leghista ne è un esempio. vabbé, le mie cavolate le ho dette, ciao.

  25. @si firma dopo
    non so, non capisco cosa intendi.
    non ho mai visto franz di persona e credo questo sia un reportage, più che un pezzo di invenzione o di real fiction.
    o almeno così si presenta.
    ora (per rispondere anch’io a paoletto di canio, che ha l’aria di uno che è a suo agio negli angiporti e ci tiene a farcelo sapere: lui è un tipo vissuto, mica cazzi), anch’io al posto di franz avrei provato emozioni simili: il problema è che anche un treno di poveracci che viaggia nella notte italiana richiede uno sforzo interpretativo che vada, anche di poco, al di là della lettura fenomenica.

  26. nel settembre scorso, dopo molti anni, ho preso un trenaccio, non so neanche che treno fosse, un messina roma, la mia citta che diserto da molto.
    avevo un appuntamento al quale alla fine ho deciso che non volevo mancare, e come al solito ho deciso di partire nel giro di due tre ore. niente aerei, niente cuccette, il primo carro bestiame che ho trovato, di notte, ci sono salita sopra.
    puzza di piedi e di miseria, ronfare di stanchezze logorate da vite grame, migranti, professori, operai che si spostavano, chi tornava a casa e chi la cercava, cercando un futuro migliore. per due o tre ore sono riuscita a ranicchiarmi su due poltrone, a dormire con sottofondi lontani, a volte sconosciuti, per un po’ anche a sognare cullata dal rumore monotono e rassicurante del treno, come in un grande ventre materno che si muove con te.
    poi qualcuno entra e gli cedi uno dei due sedili che hai occupato, mezza chiacchiera, qualche scampolo di vita altrui, tanti mondi pieni a volerli osservare senza paura…
    non sono più una ragazzina, ma sono ancora curiosa del mondo fuori dalla porta di casa mia.
    è stata una notte stancante fisicamente, ma ne sono uscita arricchita….fosse solo aver visto realtà quotidiane diverse dalla mia, gente che fatica per trovarsi un posto al mondo, persone diverse e non peggiori o migliori di me, che mi trovavo su quel treno solo per caso, perchè non avevo fatto un biglietto aereo due giorni prima indecisa se partire…sugli aerei la vita non l’afferri con simile intensità, in un ora sei già altrove senza neanche essertene accorto, fai appena in tempo aleggere qualche pagina o qualche articolo di quotidiano.

  27. @tashtego
    premesso che il pezzo, come già detto, mi è piaciuto, perchè l’ho letto con gli occhi e lo stato d’animo dell’autore e ne sono rimasta avvinghiata, il reportage entra nelle vite degli altri, non ne ha paura.
    non credo che questo si possa definire reportage.

  28. @Tashtego
    La mia opinione è diversa. Nel senso che anche nel reportage, nel “pezzo”, c’è la distanza. O non sarebbero “media”, ecc., so che ci intendiamo alla perfezione.
    C’è la distanza, ed esiste indipendentemente dalle intenzioni di un autore, mie di lettrice, sue di lettore, e di chiunque. Poiché tra l’altro io lo leggo come un racconto, per vari motivi, per me questa distanza c’è e rende fenomenica semmai una lettura “semplice”.

  29. meno male che t’ho chiamato scrittorello pensa se te dicevo artro, cmq stai in campana scrittorello (evvai) che io da quer treno ce sargo e ce scenno e me pare ‘a normalità, dovvessi da vede come se vive a torre maura, ma te che ne sai, hai mai lavorato, dico nel senso der sudore? e fateme er piacere nun je date der fascio che mmoffennete i camerati vera, che s’era per noi cor piffero che ce stavano ste cose, avete voluto ‘a reppubleca e mmò tenetevela, ‘a more’ justo pe’ capisse, io nun t’ho dato del cojone come fai te, peccè loro – i cojoni – c’hanno n’utilità, te me sa proprio de no. ha perso l’eurostar er signorino ha scoperto er disaggio dei trenitaliane de notte, e devi da vede che c’è sta da brescia a reggio, ma che ne sai te, te stai a legge, ma fateme er piacere, ‘a rigazzìììììììììì

  30. ammazza paolè, e meno male che nun sei sartato sur treno c’ho preso io quella vorta, m’è annata bene, che sennò dovevo da chiamà l’esorcista o saltà fora dal finestrino, ammesso che se aprino! artro che negri e arabi, manco un rotavailer….
    :)

  31. ma te pare ahò, io so ‘ncamerata come se deve, so i rumeni che stupetro, io ar maximo te invitavo a cena, ce provavo, niente de che, c’ho l’officcina io mica scirvo llibbri, c’ho er kawasaki che nun ce poi annà ai premi, te me capisci, sei na pischella che capisce, nun sei na scrittorella
    te saluto romanamente

  32. ciao andrea (branco), credo di esprimermi con correttezza. ho scritto “neri” (parola che aborro esteticamente) per cortesia nei confronti dei miei amici di nazione indiana.

    per me negro non è l’equivalente di “nigger”, parola sì dispregiativa, che se la dici in presenza di un “colored” lui ha tutto il diritto perlomeno di arrabbiarsi.

    proviene dallo spagnolo.

    odio il razzismo, sono razzista solo con i razzisti.

    per chiarezza.

    questo in gergo giornalistico si chiama “raccontone”. è una via di mezzo tra il reportage e il racconto letterario. in pratica, per come lo “adopero” io, è un racconto.

    però tutto quello che c’è scritto è vero, perchè è destinato a un giornale d’informazione. per meglio chiarire: a lato del raccontone è stato pubblicato anche un “box” di 2000 battute nel quale si prende la faccenda da un punto di vista informativo, con dati, ecc. una sorta di scheda tecnica.

    la depressione c’entra, è vero. credo che però se i treni di questo tipo non inducono all’ottimismo, le stazioni non tirino su il morale. sono partito per questo viaggio con una disposizione d’animo negativa.

    nei primi anni 80, quando prendevo il milano-roma notturno per essere la mattina presto, all’arrivo, pronto per andare in giro per consolati di paesi arabi per svolgere varie pratiche, avevo un’altra età e forse ero più rassegnato.

    ora non sopporto più quasi nessuna cosa che si mette in mezzo tra me e cio’ che veramente voglio.

  33. Ma perchè scrivere un pezzo del genere?, mi sfugge lo scopo; cos’e’ l’ostentazione di un momento di depressione/insoddisfazione rabbiosa?..è il bisogno di condividere un momento “no”?.. non basterebbe una telefonata a un caro amico disposto ad ascoltarti?.. perche’ lasciare questo scritto, un po’ zazzista, forse per necessità, per settimane, mesi, anni su un blog?

  34. abbastanza depresso non mi piace perché la depressione o c’è o non c’è. a parte questo, viaggiando tanto in treno, e sperando sempre in una bomba che lo faccia deflagrare o un deragliamento ecc. un treno con soli italiani, ovvio, conosco bene certe atmosfere che descrivi precise-precise, quasi televisivamente, ragionando come un uomo-massa direi le stesse cose di cui sopra, bello, stupendo, e così via, il via vai del non-giudizio. come posso giudicare la realtà realizzata con una scrittura generalista?
    ovviamente per farsi leggere, bisogna sottostare alle in-capacità surreali di noi italiani. dunque se il bello\brutto estetico in italia è riuscire a conformarsi alla scrittura di massa, omologarsi ad una tecnica perbene e regolare, ecco se scrivere significasse filmare direi che sai usare magistralmente la telecamera della protesi scrittoria.
    ragionando fuori dalla massa, ecco: direi che non mi piace la monotonia dello scrivere-rappresentare e preferisco le de-scrittura di molti tuoi pezzi ‘sperimentali’.
    ovviamente scrivo da non-scrittore e da non-artista.
    riguardo al razzismo, che non vedo, considerando che tutti gli italiani sono, bene o male, e ognuno a proprio modo, fascisti e razzisti, (se così non fosse non avremmo mai avuto il berlusconismo al (sub)potere e nemmeno pasolini né luttazzi e guzzanti e men che meno il carmelo bene o il beppe grillo o l’aldo busi o il montanelli. sostanzialmente amo pochissimo me italiano.
    però un’altra cosa mi piace: la distribuzione quasi casuale e stocastica del personaggio-autore franz. variegato bipolarismo tecno-logico e tecno-onirico. ecco il neri\negri è solo ipocrisia in chi evidenzia. spesso tra gay ci si ‘insulta’ con un frocio di merda e gli amici etero amo spesso apostrofare con un maschio di merda. e lo stesso odio supremo per il mondo sottende qualcosa di costruttivamente altro. insomma, goodman insegnava la costruzione di mondi estetici, la cui verificabilità fosse sottesa dall’onestà. non avvertendo alcun razzismo per ciò che umano, posso anche razziare etichette e denigrare gli umani.
    il finale, il parto. l’arrivanza e la partenza. il parto all’arrivo. l’iniziale finale. è un perdersi e un perdurarsi in cicli quasi mestruali di dolore.
    la notte buia e tempestosa mi passa per la mente e mi ricorda i treni nella notte nella febbre da privazione, nelle diarree del pensiero coatto a non voler ripetere.
    il tuo bello\brutto racconto andrebbe letto al contrario, dal parto dell’arrivo all’abbriv(i)o della partenza.
    beh, ciao.

  35. Siccome noi italiani siamo tutti razzisti non si puo’ dire che questo testo lo sia?

    hem.. i puntelli su quali si regge il ragionamento mi sfuggono..

    Il testo e’ razzista, che poi l’autore, nel pieno delle sue facoltà non lo sia, è altra questione; vogliamo definirlo un testo denso di pregiudizio velatamente razzista ?, posso accettarlo!, ma che non lo sia affatto, grazie a una teoria generalista sugli italiani, questo mi viene difficile condividerlo!

    Io incoraggerei l’autore, giusto per uscire dallo stato depressivo in cui si ri-trova, a riprendere in mano il testo, per dare un evoluzione a questo personaggio.

    Perdoni la durezza, ma il componimento così come proposto non ha, per mé, dignità di pubblicazione.

    .. mamma mia come mi sento cattivo oggi ^__-

  36. il racconto è aspro e non bello, secondo me.

    quasi brutto.

    a chi si firma ares: il testo NON è razzista. parla di cio’ che ho visto e vissuto. senza ipocrisie. magari la disturba l’assenza di censure?

  37. E no ci mancherebbe.. credo che debba essere rimaneggiato.. integrato, sviluppato, completato.. reso pubblicabile..dovrebbe essere uno dei tasselli di un componimento molto piu’ ampio.. tutto qui.. .

    Lasciato così ha la dignità di un rutto fatto in una sala d’attesa.. o peggio di una flautolenza silenziosa liberata in un’ascensore affollato.. è un bisogno che viene soddisfatto, ma senza buona educazione.

  38. un affresco molto puntuale, tratteggiato in modo plastico. l’espresso è da qualche anno ormai qualcosa di più (o di meno) di un semplice treno: è un vettore sociologico, un parametro per un discorso intorno alla società, alle sue fragili bassezze e agli slanci. un vettore che sa di caciocavallo, beninteso.

  39. Questa cronaca con la puzza sotto il naso (non ascrivibile al caciocavallo), di un normale viaggio in treno, normale ovviamente per tutti quelli che abitualmente viaggiano anche sugli espressi e sui regionali, senza considerarli treni della morte perché ci viaggiano stranieri e gente che preferisce spendere meno che se prendesse un eurostar, incontrando arabi che parlano tra di loro, senza per questo scambiarli per terroristi, incrociando nigeriani, senza per questo considerarli incarogniti, ascoltando uruguayani al cellulare senza per questo associarli a giri di prostituzione, usando i cessi senza prendere a spallate la porta, se qualcuno per caso ci si appoggia sopra, (che poi come qualcuno ha giustamente osservato le porte dei cessi dei treni si aprono verso l’interno), mi ricorda molto il commento che ieri faceva al cellulare una ragazza bionda con occhiali gucci in testa, borsa di louis vitton in grembo, foulard di qualcun’altro al collo, tailleur di qualcun’altro ancora addosso, capelli biondi tirati e smorfia di disgusto sulla bocca, che per caso era seduta di fronte a me in treno, mentre alla stazione di mestre, si aspettava stipati, tra decine di ragazzini urlanti in gita scolastica, decine di pendolari infuriati e rassegnati, decine di stranieri colorati e parlanti nei loro rispettivi cellulari, che il treno, fermo in stazione da un tre quarti d’ora si decidesse a partire. Il commento era: “guarda non ne posso più, è mezzora che siamo qui fermi, e non ti dico la sporcizia e la puzza che c’è qua dentro. Uno schifo.” Io la guardavo ed ero parte di quella sporcizia e di quella puzza e di quello schifo che lei vedeva.
    Diciamo che mi sono leggermente offesa.
    Diciamo che la puzza e la sporcizia possono essere anche reali, ma la paura, la diffidenza, i luoghi comuni sulla delinquenza e sugli stranieri stanno tutti negli occhi di chi li guarda. Depresso o no.

  40. il parere di elena e di quanti la pensano in maniera a lei simile NON coglie un aspetto essenziale. l’impostazione di questo racconto, oltreché sferzante e eventualmente provocatoria, è fondamentalmente “aristocratica”.

    ma attenzione: aristocratico non è, come volgarmente s’intende, l’atteggiamento della “ragazza bionda con gli occhiali gucci”. quello è l’atteggiamento plebeo par excellence, del cafone abbiente che gode di mezzi materiali ma è spiritualmente poverissimo. “aristocratico” è l’atteggiamento col quale nietzsche in modo sprezzante scriveva degli ebrei polacchi (salvo poi allontanare il proprio editore dopo averne verificato l’antisemitismo!) o dello stesso cristianesimo (salvo essere uno degli spiriti più autenticamente religiosi, e profondamente cristiani, della letteratura degli ultimi due secoli). l’ “anticristo” è il manifesto di un religionstiftler, un riformatore religioso.

    mi pare che certi giudizi moraleggianti e moralizzanti si muovano in superficie e non interroghino il cuore dello scritto di là dal polverone che esso solleva. tutto qui.

    si può discutere solo sulla forma, eventualmente.

  41. @haggie.. nel momento in cui si decide di pubblicare uno scritto e’ bene tener conto del fatto che possa essere criticato in ogni sua parte, quindi anche per il suo contenuto.

    Questo scritto, per ammissione dello stesso autore , è una cronaca.. è una cronaca però falsata dallo stato emotivo in cui l’autore si è trovato in quel momento: la risultante è uno scritto ricco di pregiudizio; pregiudizio giustificato solo dal fatto che l’autore stesso precisa:

    “.. la depressione c’entra, è vero. credo che però se i treni di questo tipo non inducono all’ottimismo, le stazioni non tirino su il morale. sono partito per questo viaggio con una disposizione d’animo negativa. ”

    .. quasi l’autore giustificasse una debolezza ?.. .

    L’autore non ha tenuto conto che uno sfogo, per quanto artefatto, è un atto di condivisione, soprattutto se reso pubblico su di un mezzo di larga diffusione come puo’ essere un Blog, e necessita di “accortezze” nei confronti di tutti gli avventori più o meno casuali, soprattutto di quelli che sono stati oggetto d’attenzione nel suo scritto.

  42. @haggie: ecco, ho capito.
    Io e quanti la pensano come me non cogliamo la differenza tra chi ha un atteggiamento aristocratico ma è nobile d’animo e quindi si può permettere di parlare in modo sprezzante e velatamente, ma neanche tanto, razzista, dei suoi simili, e chi invece è un “cafone abbiente che gode di mezzi materiali ma è spiritualmente poverissimo”e quindi va condannato se adotta lo stesso atteggiamento.
    Ora che ho capito questa differenza, ho tentato di interrogare il cuore dello scritto, ma ho continuato a vedere la stessa cronaca di un normale viaggio in treno scritto con la puzza sotto il naso. Di certo non ci arrivo.

  43. @elena la prego non ci (mi) coinvolga nel suo ragionar come se il suo fosse anche il nostro(mio) pensiero.

    Io non leggo in questo scritto nulla che mi riconduca al suo ragionare.

    Intravedo solo dell’ingenuità nel voler pubblicare questo scritto, per certi aspetti apprezzabile, senza una necessaria contestualizzazione.

  44. Ares non intendevo coinvolgere nessuno nel mio pensiero e nel mio ragionare.
    Quando ho scritto ” io e quanti la pensano come me” mi riferivo alle parole di Haggie: “il parere di elena e di quanti la pensano in maniera a lei simile NON coglie un aspetto essenziale.”
    Sono abituata a parlare per me sola, senza farmi forte dell’appartenenza o no a un gruppo di pensiero. L’utilizzo del plurale era solo un ripetere, in modo un po’ retorico e, lo ammetto, poco chiaro, le parole di Haggie, che, quelle sì, volevano mettere insieme “tutti quelli che la pensano così..”

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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