Rapporto

di Stefano Gallerani

Illustre Dottore, lei mi ha detto, durante il nostro ultimo incontro, di tenerla avvertita d’ogni avvenimento che per me avesse peso o importanza. Insomma, di scriverle, come se si trattasse di redigere un “rapporto” che soltanto un amico – in questo caso lei – avrebbe letto. Ebbene, soltanto per questo le scrivo. Ma come faccio a raccontare una storia simile? Non so neppure in che modo cominciare. Sì, lo so, ho lasciato trascorrere molto tempo, non me ne faccia una colpa, e però sento che ora devo raccontarla. Per fare luce e capire, per chiarire, soprattutto a me stesso, certe ragioni intrinseche, che sono poi quelle della vita e della morte. Niente di importante, potrebbe pensare qualcuno; problemi fondamentali, per altri. Fatto sta che, dopo averla lasciata, per molte settimane sono stato con gli occhi aperti scrutando quello che capitava intorno o dentro a me: per comprendere cosa non funzionasse in un ragazzo che era stato sano e forte come un bue, alto oltre il metro e ottanta, e discretamente bello (a giudizio unanime delle ragazze che conosco) con una propensione naturale, credo, alla comunicazione senza ipocrisie e alla spensierata felicità; un ragazzo che è diventato, come ho letto d’un personaggio in un romanzo di Dostoevskij, un uomo malato (forse un uomo cattivo), così triste e incerto nelle decisioni da risolvermi a venire da lei. Fatto sta, dicevo, che dopo che certi fatti si sono svolti in modo ambivalente (una specie di dentro e fuori inaspettato) e grazie a certe mie qualità appariscenti, che riconosco non troppo meritorie (ma che aiutano a farsi strada nella società), l’altra sera ho rivisto il mio primo amore. Senza questa storia che mi ha profondamente turbato, e anche maturato, questo riconoscimento del mio zelo e del mio merito (scriverle), mi avrebbe di per sé fatto felice, indipendentemente dai vantaggi per la salute che avrei potuto trarne. Ma certe cose non vanno sempre nel modo in cui si crede debbano andare o per sentito dire o per retorica. Comunque (si tratti o meno di una fortuna non saprei, sarà lei a dirmelo), dove la scena si è svolta, il “luogo della tragedia”, insomma, è stata la casa di amici comuni: un “terreno neutrale”, al terzo piano d’uno stabile abitato da gente della media borghesia, quella cui appartengo, professionisti, commercianti, funzionari pubblici non usi a curiosare né a offrire la loro, peraltro inutile, solidarietà; come se le cose degli altri non li riguardassero, o intimamente le disapprovassero al punto di censurarle con la loro indifferenza. Su ogni pianerottolo c’era un vaso di felci, alle finestre del cortile, immagino, tendine di merletto bianco. E nell’appartamento, lei, il mio primo amore. Era sorprendente la rigidità dei nostri due corpi. Davvero una scena patetica, sulle prime, ma senza nessun sentimentalismo. Si intuiva che presto ci sarebbe stata, se non una fuga (quello che sarebbe stato meglio), un’esplosione di odio le cui vere, segrete ragioni non si potevano indicare così, con leggerezza e banalità offensive. Per quanto mi riguarda, l’altra sera, oltre che malato e cattivo, mi sentivo di nuovo attraente, e così era anche il mio primo amore: l’occhio velato rifletteva misteriose angosce o invidie o tetre pigrizie.  La guardavo con una specie di ingordigia insensata, che poteva apparire come maleducazione o impertinenza, ma non me ne importava. E guardavo: immaginavo la sua nudità, che mi ha sempre sconvolto, ma procuravo di darmi un contegno disinvolto sebbene un’angoscia inconsueta mi stringesse la gola. Mi sembrava di vivere una specie di sogno dove la quotidianità più ovvia si mescolava a questo fatto eccezionale e decisamente atroce. Al cospetto del mio primo amore, lo confesso con un po’ di vergogna, pensavo quello che avevo sempre pensato accanto a lei, una donna di fisico e temperamento esuberanti: rivedevo le nostre forme allungate sotto il lenzuolo e pensavo al breve tempo che avevo a disposizione.

Qui no, qui ho paura, diceva lei.

Appunto per questo, le rispondevo. Mi darai lezioni.

Avevo tentato, in poche parole, di convincerla, che avremmo avuto tutta la notte per noi, così le sussurravo, che non l’avrei lasciata andare, che non ero più quello che ricordava. Certo, in ossequio a un vecchio codice, lei si divincolava, ma la sua mano restava ferma, salda, sul mio braccio. La dolorosità che, da principio, mi aveva suscitato quell’incontro, era solo epidermica? E adesso? Adesso perché usare all’improvviso quel tono insinuante e mettere fuori, come per ultima sorpresa, la mia vera voce, quella di una volta? Di lei ancora mi colpiva (ma l’avevo mai notata prima? Notata davvero?) la bellezza emaciata del volto, quella inquietudine severa che veniva dall’anima, come l’annuncio di un prossimo distacco da tutto. Avevo un bel dirmi che niente cambiava perché tutto era cambiato: il leggero tremore per qualcuno di “diverso”, le prime trepidazioni, i primi appuntamenti e le prime passeggiate. L’ “altra parte” di me. Senonché, mi sembrava di partecipare a una mascherata solenne. Erano fantasie riprovevoli, no? Appagare la nostra viltà, il nostro decoro, la nostra ipocrisia. Realmente, una pietà dolorosa e profonda era adesso dentro di me, ma quella ragazza tra la vita e la morte era qualcosa di prezioso da circondare di cure amorevoli, di una fede assidua, di una speranza eroica. Questo pensavo, col desiderio sempre più consapevole di vivere questi pensieri…

Un’ultima cosa devo aggiungere a questa prima parte del mio “rapporto”: per l’oggetto delle attuali considerazioni, avevo persino fatto la scoperta della gelosia. Guardavo quel viso minuto e pallido, dove l’ombra delle lunghe ciglia faceva tenerezza e strazio; e mi sforzavo di immaginare quali avessero potuto essere i suoi, di pensieri, quali i sentimenti e i risentimenti, quali gli sconforti…

Come stai?

Come vuoi che stia?

La sua persona, all’improvviso, si era isolata in uno splendore quieto e dolce…

Ma ha un senso il mio racconto? Nella mia compassione c’era di nuovo quella vile indignazione, quasi una ribellione. In un certo modo ne ero lusingato. Scusi se ho la presunzione di intuire io quel che dovrebbe chiarirmi e insegnarmi lei, Illustre Dottore, ma al di là dei discorsi edificanti e consolanti che ho letto e udito parecchie volte (e che ripeto meccanicamente come un disco); al di là di queste fole, quel complesso di sensazioni derivava certo dall’aver avuto a che fare, anche al cospetto del mio primo amore (e così con i successivi), sempre e soltanto con me stesso, di cui non riesco a reputare migliore nessuna delle donne che ho possedute, tutte incredibili per sensibilità, per bontà d’animo, per comprensione e per pazienza. Moralmente, le ho sempre schiacciate.

Mi dica lei se non ho ragione, mi dica lei quali sono i miei moventi, ma faccia presto, i cadaveri non possono aspettare a lungo…

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11 Commenti

  1. da spaccaforno.it

    “””In giro si accennava a foto taroccate, grossomodo ho avuto anche io la sensazione che fossero rivisitate la dove mostrano il volto del premier, come probabilmente ad aggiungere un velo di bellezza sulla cera dell’uomo. Ho letto alcuni commenti che parlano di fotomontaggio e su questo si può concordare o meno.
    Personalmente qui ti aggiungo una sensazione di cui non ho trovato traccia: c’è la foto con il padre, la madre, la Letizia e il Cavaliere. Guardando il riflesso allo specchio collocato alle loro spalle si notano tre figure e non quattro (certo lo specchio è inclinato e può aver lasciato fuori una parte del riflesso) ma la cosa inquietante è che si distingue bene il riflesso del padre, poi altrettanto bene la capigliatura di donna (quella della madre o della figlia) e il terzo riflesso (a margine sinistro della foto) richiama una piccola porzione che può essere la testa di un uomo (il premier?) e non di certo l’altra donna che si vede nella prospettiva frontale della foto (non ho letto da nessuna parte che qualcuno abbia notato questo dettaglio). Nella stessa foto la famiglia (padre madre e ragazza) incrociano i bicchieri per un brindisi, mi è sembrato strano che l’ospite d’onore invece alzi il bicchiere lontano da quel brindisi, come si trovasse per fatti suoi e non per festeggiare la ragazza. La stranezza mi ha fatto inforcare gli occhiale e credo di aver notato che il bicchiere che ha in mano il cavaliere è leggermente più largo rispetto a quello che hanno in mano gli altri tre. Come mai il bicchiere è diverso? forse appartiene ad un altro servizio, di bicchieri o fotografico. Poi ci sarebbe da chiedersi come mai nel riflesso del bicchiere del cavaliere si notano tre riflessi di punti luce e negli altri invece solo uno, ma non importa, non voglio sprecare l’attenzione ai minimi dettagli. Quel che mi pare singolare di questa vicenda è che se ne parli ampiamente, ieri su porta a porta, come dici tu. Sarebbe per “par condition” che la moglie del premier usasse lo stesso salotto di Vespa qualora lo volesse a questo punto. Ma anche ciò credo che non meriti l’attenzione o tutta la nostra attenzione. Quel che ci si è dimenticati è l’intervista a Noemi Letizia fatta da Angelo Agrippa per il Corriere della Sera, pubblicata in data 28 aprile 2009, te ne propongo uno stralcio, ma ritengo che nemmeno essa meriti tutta la nostra attenzione:
    domanda – Mi racconta qual è la sua barzelletta preferita tra le tante che il premier le racconta?
    risposta – «Vi sono due ministri del governo Prodi che vanno in Africa, su un’isola deserta, e vengono catturati da una tribù di indigeni. Il capo tribù interpella il primo ostaggio e gli propone: ‘‘Vuoi morire o bunga-bunga?’’. Il ministro sceglie: ‘‘bunga-bunga’’. E viene violentato. Il secondo prigioniero, anche lui messo dinanzi alla scelta, non indugia e risponde: ‘‘Voglio morire!’’. Ma il capo tribù: ‘‘Prima bunga-bunga e poi morire».

    domanda – Nei momenti di relax, Berlusconi cosa le confida?
    risposta – «Fa tanto per il popolo. È il politico numero uno. Non dorme mai. Io non riuscirei a fare la sua stessa vita. Quando vado da lui ha sempre la scrivania sommersa dalle carte. Dice che vorrebbe mettersi su una barca per dedicarsi alla lettura. Talvolta è deluso dal fatto che viene giudicato male. Io lo incoraggio, gli spiego che chi lo giudica male non guarda al di là del proprio naso. Nessuno può immaginare quanto Papi sia sensibile. Pensi che gli sono stata vicinissima quando è morta, di recente, la sorella Maria Antonietta. Gli dicevo che soltanto io potevo capire il suo dolore».

    domanda – Perché?
    risposta – «Ho perso un fratello, Yuri, sette anni fa. A causa di un incidente stradale. Ora è il mio angelo custode».

    domanda – Noemi, per quale squadra tiene?
    risposta – «Sono patriottica, tifo Napoli. Poi, la mia seconda squadra è il Milan».

    domanda – Noemi, quando la vedremo in politica, alle prossime regionali?
    risposta – «No, preferisco candidarmi alla Camera, al parlamento. Ci penserà Papi Silvio»

    Sarà stata questa l’intervista che ha fatto sclerare la signora Veronica Lario? “””

  2. ecco. altri dieci pezzi così, non facili, non pacifici, e “famo er libro” così come a roma si tenta sempre di “fare er cinema”…

  3. altre dieci donne
    altri dieci uomini
    altre dieci vite
    a volte mi accontenterei di altri dieci minuti
    che siamo cadaveri da quando nasciamo

  4. Una sintesi perfetta dell’ “altra parte” di tutti coloro che, almeno una volta e prima delle grandi disillusioni, hanno provato un sentimento d’amore per qualcuno. Lucido, preciso e sincero. La banalità delle emozioni non smette di stupire, è un effetto speciale che non stanca mai.

  5. Sarà perché uno rimane a lungo sotto l’impressione forte di una notizia, se questa notizia lo ha costretto a cambiare la sua immaginazione, oppure non saprei, ma a leggere il bel racconto di Stefano mi è tornato in mente Rothko.

    Mi raccontava un amico, appena tornato da New York, che la tecnica usata da Rothko è per accumulazione di strati [la superficie risulta perciò brillantissima] con piccole variazioni, così che il prima si collega al dopo senza strappi, a livello minimo, ma provocando il trauma al livello massimo e imponendo questo come orizzonte su cui si adagia tutta l’opera.

    Penso anch’io che questo Zeno dovrà lottare a lungo con le sue ossessioni, prima che noi se ne abbia un ritratto completo.
    Ma sono certo che la curiosità non verrà meno, ad aspettare.

    A me, che non ho mai visto un Rothko dal vero, solo illustrazioni, senza pensare di doverne leggere le didascalie per sapere le misure dei quadri, il mio amico diceva che sono grandi, enormi.

    Sono giorni che ci sto pensando.

  6. Molti complimenti, bellissimo racconto, piano e straniante.
    La cosa più affascinante : il magnifico stile “vecchio” che mi riporta alla memoria amati scrittori dell’inizio del secolo scorso, nessuno scrive più così, non piace, non è di moda, non c’è la capacità? Un piccolo, delizioso, perfetto, intenso esercizio di stile!

  7. Un bel pezzo, sul serio mi piace la narrazione veloce e limpida, il tratto quasi precipitoso della scrittura che si ferma giusto un attimo prima.

  8. Vedo come scorrono i nomi degli autori sugli scaffali, ordinati secondo un concetto di importanza che poggia su presupposti non comuni. La conoscenza ragionata, il rispetto, la passione. Rimango sorpreso da come sai confinarli sul giusto lato del palco, una straordinaria ritmica che accompagna il tema principale del tuo stile personale, pieno, antico come la lingua che rispetti e conosci senza mai sforzarti di padroneggiare, come a volte, invece, succede agli scrittori della tua generazione. Aspetto il libro, come sopra è stato detto. O meglio, come si è chiesto a gran voce.

  9. splendidamente severo e delicato.
    e quello che mi stupisce è come questa semplicità attenta mi lascia un senso di vago risentimento.

  10. è uno stile fin de siècle ! ho letto recentemente dei racconti di Schnitzler intitolati “L’ultima lettera di Andreas Thameyer”, stranianti nello stesso senso.. Accadimenti congelati nel racconto di una dramatis persona..

  11. é vero, Ivan, anche io ho pensato a quell’estraneità cauterizzata che mi fa ricordare Svevo, o Schiele.
    Un paio di giorni fa pensavo a quanto, noi nati in mezzo alle post avanguardie, transavanguardie, post human e tutto il resto, dobbiamo sempre pagare un dazio a qualcuno venuto prima di noi.
    Qui Stefano usa la scrittura per raccontare una storia. E con stile saluta i morti, con appena un cenno del sopracciglio.
    Intanto la storia rimane, anche nella nostra testa (forse anche nel cuore), come una ferita cauterizzata.
    Anche io aspetto gli altri nove, ma con calma. Non c’è fretta, almeno nello scrivere.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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