Onlus e prostitute. Un romanzo di Giorgio Morale

di Giancarlo Consonni

Acasadidio: quarta di copertina
Acasadidio: quarta di copertina

Acasadidio di Giorgio Morale (Manni) è un romanzo tagliente. Sulle cose. Con la determinazione di chi bracca la realtà dappresso senza mai essere invasivo: descrizioni contenute all’essenziale; le persone e gli accadimenti che vengono fatti agire sulla scena.

Efficace, per cominciare, la restituzione della scena primaria: gli squallidi uffici del Centro affiliato a una Associazione di volontariato che si occupa di collocamento della forza lavoro e di assistenza alle prostitute che si vogliono liberare dal racket: «Angustia dell’ingresso, oscurità delle scale, lunghezza dei corridoi, locali tutti uguali»: luoghi non curati volutamente: per lanciare un messaggio a chi vi approda per avere un lavoro o per effettuare controlli: lì si fa solo del bene: si è dalla parte dei diseredati, per lo più immigrati irregolari. Molto ben delineato anche il contesto. Vengono in mente certi paesaggi della periferia milanese dipinti da Tino Vaglieri: «case fuggiasche» a ridosso della tangenziale: «Alcune già dismesse, altre in disarmo, altre con la vita artificiale dei posti abitati in orari d’ufficio»: gregge di edifici che lo stesso campanile tiene a distanza di sicurezza.

Il titolo ironizza. Acasadidio sta per un posto che più periferico non si può, ma allude anche alla precisa volontà di presentare il Centro come casa di Dio. Locali e corridoi: tutto è tappezzato di «crocifissi […] madonne, frasi del vangelo e di madre Teresa di Calcutta […]. Aria cattolica: un po’ di gioia, un po’ di penitenza». Si lascia intravedere chiaramente il profilo dell’organizzazione a cui il Centro è affiliato: «la Compagnia che ha sbaragliato la concorrenza», ovvero la Compagnia delle Opere. Una materia scottante, trattata da uno scrittore molto informato dei fatti e che mette in scena soprattutto fatti.

A dispetto del suo carattere di Onlus, l’Associazione, è una macchina per far soldi. Se ne avvantaggia soprattutto il navigatissimo Presidente. Figlio di immigrati, il padre tramviere, laureato in ingegneria con grandi sacrifici, insegue il riscatto dalle molte umiliazioni accumulate e lo trova nel sottobosco di quelli che «fanno soldi con gli sfigati». Controlla una decina di enti da cui munge quattrini senza fare nulla, se non tessere relazioni coi potenti. Ciò che al massimo coltiva è un senso di orientamento: un fiuto su dove si sposta il business dell’assistenza: «Prima andavano forte i tossici, adesso non più: Idem per gli ammalati di Aids – a che scopo costruire case per loro? Anche gli stranieri ormai non tirano, li bruceranno tutti. Bisogna pensare alla nuova frontiera del volontariato: i ragazzi di strada, gli anziani, le donne maltrattate».
Il Centro è mandato avanti dalla fedelissima Martina, un donnone diabetico che guida una squadra di donne: Ombretta, Teresa, Vanna e poi ancora la peruviana Dora e Sonia. Compaiono, come comparse, anche figure maschili di coadiutori volontari: Ico, Ale, Dario, Cristoforo e Ilio. Vale per tutti il cameo di quest’ultimo: neolaureato, lavora gratuitamente a testa bassa nella speranza in una remunerazione futura: un caso esemplare dei nuovi schiavi ‘autoctoni’ che si aggiungono a quelli che la richiesta di lavoro fa approdare al Centro dalle periferie del mondo.

Lo scavo sui personaggi è affidato per lo più ai dialoghi e ai comportamenti tratteggiati in rapidi schizzi. Una scrittura asciutta, quasi scostante: onde di un mare scomposto fatto di squarci drammatici sulla realtà, volutamente mescolati a banalità: le patologie, i tic, le malversazioni, le furbizie da luogo chiuso. Il libro cattura, così, per frammenti, una prospettiva sul mondo attuale, mentre si dipanano via via brandelli di vite individuali.

Ma il romanzo di Giorgio Morale, qui alla sua seconda prova dopo Paulu Piulu, è ben altro. Alla parte in presa diretta su ciò che accade nel Centro si intreccia la narrazione in prima persona che ha per protagonista una delle impiegate: Teresa. Due registri a contrasto: due sviluppi paralleli con pochi punti di contatto. Teresa è la parte vitale e sana. A confronto con la parte franta e sincopata che inscena la vita del Centro, il suo eloquio piano delinea una traiettoria: la preservazione della propria umanità nel vivo degli eventi, spesso drammatici, a contatto con l’umanità o la disumanità degli altri.

È un altro attraversamento del mondo: la storia di un tratto di vita che porta la protagonista a prendersi sulle spalle il suo destino, compreso il fatto di diventare madre senza l’aiuto e il conforto di un compagno. Da cui il delinearsi, a tutto tondo, di una figura credibile di donna in questo difficile passaggio storico. Si passa dalla constatazione, in collegio, delle falsità dei perbenismi all’impatto con i conflitti che esplodono fra poveri in un Occidente senza valori e spinte ideali – «Ovunque persone come gusci vuoti, come se la vita se li fosse mangiati e la loro sostanza fosse svaporata; facce scolorite come abiti lisi da lavaggi; occhi come televisori spenti» –, alla presa d’atto della sorprendente vitalità di chi proviene da mondi lontani: la bellezza e l’aura sacra che promanano dalle loro figure: «Guarda le africane: talmente colorate che non hanno bisogno di trucco; se appena tinte di rosso, le labbra splendono come la luna più rossa nella notte più nera. Oppure con un che di antico nell’aspetto matronale, come tante dee madri».

Un posto importante in questa traiettoria ha l’incontro con la storia tragica di Anila, una ragazza albanese finita nelle grinfie del racket della prostituzione e uccisa perché determinata a liberarsi dal giogo. La figura è restituita, per passaggi essenziali, dalla nascita alla morte, anche cedendo la voce alla madre File: pagine intense su Anila da piccola, ma anche uno sguardo sintetico ed efficacissimo sull’Albania: «Tutti temono di essere defraudati – dagli altri, dallo Stato – e cercano di arrivare prima ad arraffare. Ciò che gli serve, lo prendono dove lo trovano, non per la patria: per sé. Banche e asili sono stati bruciati, i negozi distrutti. Sono riprese le vendette: per uno sgarbo, una parola, un centimetro di confine. Ognuno è colpevole di qualcosa: i capi di prima, i superiori di adesso. È diventato insicuro mandare i figli a scuola: li rapiscono e li vendono. Per un televisore».

La via della maturità per Teresa passa anche dal rapporto con la madre rintanata nella sua casa in un paese di montagna: tutta presa da sé, mummificata nel suo egoismo, incapace di amore, anche verso la figlia incinta. Le visite alla casa della sua infanzia sono per Teresa una dolorosa perlustrazione delle cicatrici e delle ferite aperte: occasioni di bilanci, quasi una preparazione indispensabile alla nascita del figlio. La maternità ha nel libro ha un peso centrale e l’autore vi si inoltra con delicatezza e amorosa sapienza. Significativamente, appena dato alla luce il figlio, Teresa trova le energie per la liberazione dalla soffocante e malsana aria del Centro di assistenza.

Insomma: un libro necessario e scomodo. Scomodo anche alla lettura: come se nella scontrosità l’autore cercasse di evitare ogni retorica così da porre più direttamente il lettore di fronte alla realtà.

Ma la scontrosità è anche un modo per esaltare i rari momenti lirici. Come questo: «Oggi – è Teresa che parla, a pochi giorni dal parto – ho aperto gli occhi e l’ho vista: la neve. Scende verticale, tirata giù dal suo peso, o dall’amore per la terra».

(da «Lo Straniero», a. XIII, n. 106, aprile 2009, pp. 132-134)

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11 Commenti

  1. Il libro di Giorgio ben rappresenta quel mondo che si muove dietro le quinte, attraverso una Milano in cui il destino delle persone sembra avere poca velenza sul tessuto sociale.
    Il percorso narrativo è lucido e curatissimo, e ogni parola sembra il frutto di una grande ricerca e di un profondo interesse per la scrittura.

    G.

  2. Non ho ancora completato la lettura del romanzo “necessario e scomodo” di Giorgio Morale, ma convidido l’analisi di Giancarlo Consonni specie quando parla di “scrittura asciutta, quasi scostante: onde di un mare scomposto fatto di squarci drammatici sulla realtà, volutamente mescolati a banalità: le patologie, i tic, le malversazioni, le furbizie da luogo chiuso. /…/ una prospettiva sul mondo attuale, mentre si dipanano via via brandelli di vite individuali.”
    Auguro all’autore l’ascolto più diffuso e attento possibile del suo libro, che, al di là della pregevole qualità letteraria, costituisce una delle poche serie risposte all’offensiva mediatica e padronale, col suo sguardo lucido sulle molte miserie della nostra realtà.

  3. Grazie ad Antonio Sparzani e Nazione Indiana per aver proposto questo testo; e grazie a Gena e ai lettori di questa pagina per l’attenzione a esso dedicata.

  4. Caro Giorgio hai aperto uno di quegli squarci nei quali non vorremmo mai guardare. Tempo fa ti espressi il mio dolore per le problematiche sollevate nella tua nuova fatica letteraria, di cui auspico la più ampia diffusione anche per l’intrinseco valore sociale. E’ di domenica scorsa, tanto per citare l’attualità di questa nuova frontiera del marcio, la denuncia della Gabanelli sul business delle associazioni a sostegno dei malati di mente.
    Vorrei chiederti ora quale sia stata la causa che ti ha spinto a scrivere di malassociazionismo, un tema così distante dalla poetica di Paulu Piulu. Anche questo scarto ha per me costituito motivo di curiosità intellettuale.

    Un caro saluto

    Carlo

  5. Grazie, e un caro saluto, a Viola e a Carlo.

    Caro Carlo, a me è successo questo: nella vita come nella scrittura, un percorso da me al mondo.

    Prima sono venuti “Paulu Piulu” e alcune altre pagine inedite, nati per un bisogno fisico, quasi, di fare i conti con me stesso e con la mia storia, di fare un omaggio all’infanzia e alle origini.

    Successivamente ho sentito ugualmente impellente un bisogno di parlare della realtà in cui vivo, aprire gli occhi anche come scrittore su ciò che accade. Si trattava di riportare sulla pagina il vissuto delle vicissitudini e delle vessazioni del quotidiano.

    Il tema di “Acasadidio” in fondo a me non pare neppure il malassociazionismo in senso stretto: bensì lo scontro tra chi opprime e chi è oppresso. Il tipo di relazioni presentate in “Acasadidio” è quello che si può trovare ovunque, in una onlus come in un ospedale o in un’agenzia di viaggi.

    Non vale la pena scrivere, se non andando al centro dei problemi: in questo caso un sistema di potere dominante a Milano e Lombardia, lo stesso che, con altri nomi, vige nel resto d’Italia e che poi segue il modello del sistema di potere che ci viene offerto dallo Stato.

  6. Un libro scomodo in un paese che vuol stare comodo e se ne infischia di tutto, ma non dei soldi e del potere.

    Un caro saluto Giorgio

  7. Cara Nadia, diceva un filosofo che la fonte del potere è in chi lo subisce e non in chi lo esercita, e anche per la situazione italiana attuale mi pare che la sentenza calzi a pennello.

    Grazie della lettura, e un caro saluto.

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