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Le Metamorphoseon e il formalismo modernista di Ottorino Respighi

di Silvio Paolini Merlo

Il saggio di Mila su Respighi del 1932, pubblicato in lingua francese l’anno dopo, apparso per la prima volta in lingua italiana nel 1944 e da allora più volte ristampato senza alcuna variante, costituisce un caso tra i più emblematici della saggistica musicale italiana. Con questo noto scritto, conciso, arguto, pregnante, largamente indicativo del momento storico nel quale nasce, Mila introduce una serie di argomenti e di questioni che si fisseranno subito come delle costanti tematiche, infuenzando praticamente tutto il successivo dibattito sul musicista. Rilevata la posizione fortemente “ambigua” di Respighi nella vita musicale italiana, amato dalle folle ma poco apprezzato dalla critica, anticipando le note riserve postume di Casella per un Respighi ancora irretito da un rude e “intedescato” sensualismo[1], Mila scrive che «la modernità di Respighi è d’una generazione anteriore rispetto a quella dei Casella e dei Malipiero», e quindi «molto più vicina a Strauss che a Stravinsky, a Debussy che a Ravel»[2].

La conclusione, ovvia, è perciò che quello di Respighi è da intendere come «gusto di ieri e non di oggi, tipico del primo Novecento e proprio di quella parte di esso rimasta fino all’ultimo estranea alle correnti di pensiero che condussero al capovolgimento di valori morali ed estetici onde trae origine l’arte del tempo nostro»[3]. Circa l’uso del gregoriano, il giudizio fa eco a quello del crociano Guido Maggiorino Gatti, per il quale esso non è che il rifugio estetizzante ormai privo di mordente di un decadentista a oltranza, o meglio «uno di quei curiosi accostamenti storici e spirituali ai quali Respighi è portato unicamente per simpatia d’orecchio […]»[4]. Mila insiste perciò prevalentemente sulla trilogia romana, apprezza la «diafana e claustrale melodia gregoriana»[5] nel terzo affresco delle Vetrate di chiesa, mentre si sofferma appena sul Quartetto dorico, che richiama ampiamente Bartók e Janàcek, elude quasi totalmente i concerti e le opere, ma soprattutto non parla delle Metamorphoseon, un ciclo di dodici variazioni per grande orchestra su di un tema originale in stile modale, composto nel 1930 per i cinquant’anni dell’orchestra sinfonica di Boston, che rappresenta l’ultima e più alta pagina sinfonica del compositore, concepita nel pieno della sua maturità. Per un autore salutato già a quel tempo come il maggiore sinfonista italiano vivente, oggi riconosciuto come il maggiore del Novecento italiano, è un po’ come se nel parlare di Beethoven si tralasciasse la Nona[6]. Ma Respighi, come visto, è per Mila un “artista di transizione” estraneo al suo tempo, rimasto immobile in un’epoca di profondi mutamenti, fornito di “autorità esteriore”[7] dovuta all’indiscussa abilità di orchestratore, in parte post-wagneriano, in parte debussiano, in parte italico rinascimentale, in parte russo.

Il gusto di Respighi è “passato”? Premesso che è da ritenere tutt’altro che pacifico l’iniziale influsso caselliano in autori come Petrassi Dallapiccola o Salviucci, sembra chiaro che il ritorno al pre-romanticismo italiano e all’antica polifonia vocale attuato da Casella conduca in buona sostanza a un linearismo statico e aproblematico che in Respighi non solo non esiste ma viene totalmente smentito. Non è stata innovazione questa? Può darsi, altro esempio, che la riproposizione in chiave moderna di antiche arie e danze di corte fosse pratica occasionale prima del 1917, l’anno in cui Respighi compone e fa eseguire la prima suite delle sue Antiche danze ed arie per liuto. Certo è invece che, dopo di allora, questa pratica diviene tendenza via via sempre più diffusa, fintanto da coinvolgere tutti i maggiori compositori italiani di quella che Mila ha chiamato “generazione dell’80”: i principali di questi esempi sono la Partita (1925) la Scarlattiana (1926) e la Paganiniana (1942) di Casella, l’Orfeide (1925) e i Cantari alla madrigalesca (1931) di Malipiero, i Canti della stagione alta (1930) di Pizzetti, il Concerto dell’Albatro (1945) di Ghedini, tutti posteriori alle prime due suite respighiane. Respighi perciò ha contribuito a consolidare, se non altro in Italia, una tendenza sino a quel momento di maniera, rendendola un fenomeno stilistico diffuso, diciamo pure una tendenza estetica. È stato questo un male? Il suo carisma comunicativo, la sua popolarità, sono state un male? Un sitomo di disimpegno, di restaurazione? Il fermo rifiuto rispetto a forme di elitarismo intellettualistico, che di lì a poco, in Italia e non solo, diverranno la nuova parola d’ordine, hanno significato forse passatismo? Il non potersi di fatto inscrivere né tra i neoclassici né tra gli impressionisti o tra gli espressionisti, comporta forse per Respighi che egli sia stato un esteta privo di pensiero?[8] Certo, Respighi è spesso stravagante, turgido, pletorico, ma mai manierista, mai puro istinto. In qualche caso egli è portato al più cupo e totale pessimismo, ma esso non si risolve sic et simpliciter in rifiuto di una civiltà naufragata nelle spire di una crudele perdizione materialista. Tanto il pessimismo di Brahms è negativo, epico, tragico, votato al sacrificio senza speranza, tanto quello di Respighi è affermativo, volitivo, possessivo, senza la minima esitazione, convinto che esso abbia al suo interno un intimo senso, un senso del quale non è necessario comprendere gli arcani disegni perché esso c’è, lo si sente come già presente, naturalmente. Al contrario di Brahms, che non conserva più la minima fede nella logica della pura forma o della convenzione linguistica del classicismo viennese, e che per questo ha necessità costante di infondere alla logica immanente del proprio linguaggio e alla moralità intrinseca della forma dei contenuti del tutto estranei, secondo l’antica concezione protoromantica di un Beethoven o di uno Schubert, Respighi si affida ai propri strumenti linguistici ed estetici quali essi siano. Crede e basta, e per questo si affida totalmente, innocentemente, alla pura bellezza fonica del puro suono. Anche in questo, fra l’altro, la sua modernità rispetto a Brahms è incomparabilmente maggiore, ben più vicina a Fauré e Debussy. Ed ecco allora come, tra le Metamorphoseon respighiane e la ciaccona della Quarta Sinfonia in mi minore, forse il meno riuscito tra i movimenti sinfonici brahmsiani, si evidenzi perfettamente nelle prime, e assolutamente non nella seconda, un esempio davvero compiuto e convincente di neoformalismo modernista. Se il formalismo brahmsiano deriva da un manierismo cieco, ormai privo di valori etici riconosciuti come fondanti, quello respighiano assolve infinitamente meglio alla sua funzione proprio in virtù del suo maggiore astrattismo poetico. In Respighi la forma è forma, e la sua espressività lirica vale in quanto nuda e cruda forma, cioè in quanto possibilità, possibilità di apertura e di irradiazione fantastica di cui la forma in sé stessa è indice. In Brahms no, la forma è sostanza, necessità, ineluttabilità, è l’apice di tutta una cultura e di una civiltà trascorsa che tenta di imporsi sul disfacimento di quella presente pur senza comprenderla né essere in grado di comprenderla. È totale disfatta, totale fallimento, incapacità di parola e di perpetuazione. Perciò Respighi canta, Brahms langue; Respighi celebra ammirando, Brahms sentenzia intimando. Il primo riesce a farsi comprendere con semplicità e immediatezza, il secondo gesticola in modo convulso, sempre più caustico ed egocentrico. Al coro di quanti hanno descritto sinora il finale della Sinfonia in mi minore brahmsiana come l’apice della Quarta Sinfonia, il culmine dell’arte sinfonica di Brahms, il punto più alto raggiunto dalla sinfonia romantica tedesca assieme all’Ottava di Bruckner, la mia voce isolata sembrerà poca cosa, velleitaria e provocatoria. Sempre secondo queste letture, le Metamorphoseon costituirebbero invece il culmine di un processo di involuzione manieristica di Respighi, e tra le opere meno riuscite del bolognese forse quella meno riuscita. Pazienza. Ribadisco e confermo: ciò che ha valore nelle variazioni finali della Quarta Sinfonia di Brahms, al contrario dei tre straordinari movimenti che le precedono, lo ha solo per la perizia costruttiva che l’artefice vi sfoggia, non per capacità di sintesi formale o di intuizione poetica. Mano a mano tutta l’impalcatura sonora costruita sugli ieratici otto accordi si sfalda e diviene sempre più meccanica, pesante, farraginosa, priva di vita interna. Sembra davvero di udire un congegno meccanico che poco alla volta si inceppa, rimettendosi in moto solo per sprofondare verso il basso. È facile osservarlo nella prima serie di variazioni, che assume inconfondibilmente un carattere entropico crescente, sempre meno convinto, che va a spegnersi in quell’assoluto nonsense poetico che è la XV variazione, dove corni e tromboni ripetono stancamente lo stesso disegno sino alla completa paralisi musicale, pagina spenta e languida come forse neppure la più melensa delle pagine fintamente idilliche del Brahms sinfonico, quella dell’Andante sostenuto della Prima Sinfonia. A differenza dell’abissale meditatio mortis del movimento iniziale, o di quelle, più epiche, del Requiem tedesco o della Rapsodia per contralto coro maschile e orchestra, o ancora di quella lugubre e apocalittica del meraviglioso Intermezzo op. 118 n. 6, qui Brahms decide di mentire. Ma come sempre, come in mille altri luoghi anche meno nobili di questo, in musica agisce assai meglio l’angoscia tutta vitale per la morte che non la presunzione di una finta resurrezione. Eppure Brahms non si contenta più di questo limite etico, limite che egli stesso si era per lo più imposto sino a quel momento, per cedere totalmente alla retorica della “grande forma”: non riconosce la poeticità del finire e dello svanire nel tempo, non accetta di concludere il suo edificio sonoro con una semplice dichiarazione di resa, o magari di aperta condanna, ma si affanna ad erigere un trono sacrificale con l’enfasi un po’ tronfia e grottesca di un rituale profano, dove si resuscita un passato ormai riconosciuto cadavere, si istiga al suicidio culturale di tutta una società e di tutta un’epoca che nei valori di quel glorioso mondo perduto, che solo era santo e giusto, non si riconosce più. Tutto finisce perché tutto è finito, e così sia. Quale maggiore vitalità, quale incomparabile energia evocativa, quale profondità poetica, quanta maggiore freschezza inventiva nelle Metamorphoseon respighiane. Il tema viene alternato al suo basso, elaborato stroficamente e contrappuntisticamente o ripreso con modificazioni foniche e timbriche quasi quanto avviene in un altro dei maggiori capolavori inconsiderati della forma variazione del Novecento: il Bolero di Ravel. Ma questo tema è davvero la sintesi di un mondo parallelo, rimasto confinato oltre le barriere di un tempo chiuso come quello costruito dal mondo produttivo della nuova borghesia, non la resuscitazione spettrale di un passato che non esiste più, e il suo volto melodico una serie di coordinate libere da ogni costrizione mentale precostituita, che nelle mani di Respighi si amplia sino all’impensato. Non credo esista nulla di simile, non solo nella letteratura musicale del Novecento, alla Variazione VII in forma di cadenze delle Metamorphoseon. È come la volta di una delle più stupefacenti cattedrali sonore mai erette, e certamente della più moderna e innovativa applicazione della forma variazione della prima metà del Novecento italiano. Inutilmente si ricercherebbe qualcosa di altrettanto vitale e di pari perfezione stilistica negli altri autori della “generazione dell’80”, o di maggiormente foriero di estensioni poetiche future, di intuizioni e di possibili applicazioni sul piano di una concezione linguistica costruttivamente salda e fertile. Dove siano giunti i coprotagonisti di quella “generazione” lo si sa: al crollo del regime, o poco oltre. Cosa sia capitato in seguito a quel percorso illusorio, per reazione uguale e contraria, è altrettanto noto: una decisa progressiva dissoluzione linguistica e un aristocratico esilio incomunicativo, quello dei Ferienkurse darmstadtiani, i quali, pur nell’aura mitica cui sono assurti[9] e malgrado il valore dei suoi protagonisti, a nulla hanno condotto perché a nulla intendevano condurre[10].

Respighi autore arcaicista, classicista, nazionalista?[11] Nessuna di queste cose. Respighi parte e ritorna sempre a uno stesso lido: il canto, l’esperienza lirica, la capacità evocativa del colore timbrico. Perciò egli è anzitutto un poeta che cerca, non un esteta che ha già tutto trovato. E nella ricerca egli non aspira all’utopia della rivoluzione permanente, a nuovi spazi presuntamente incorrotti, ma alla conquista lenta e meticolosa di uno stile, alla definizione di un codice assolutamente personale attraverso il quale cantare laicamente il carattere metafisico della realtà. Male imperdonabile, specie per un tecnico dei suoni quel egli è stato o si pretende debba essere stato. Dunque il Pierrot lunaire è il nuovo che avanza, le Metamorphoseon non lo sono. Stravinsky è moderno, e moderno nel modo giusto, ma Respighi no. Respighi esce dal quadro, non si può collocarlo utilmente in nessun modo. In realtà un suo preciso posto egli lo ha, ed è quello lasciatogli da tutti i grandi maestri della musica europea. Respighi opera la stessa rimeditazione del passato dei suoi predecessori ma, a differenza dei suoi contemporanei, non la riduce a riverbero dell’antico. Egli, al contrario, porta il passato nel presente come presente, per infondergli nuova vita. Respighi, alla stessa stregua di uno Stravinsky, non ha pretese veritative, non ha messaggi universali in virtù dei quali convertire genti e popoli. La sua predilezione, come per Schubert, è tutta rivolta al puro lirismo. Il suo intento fondamentale, come accade in Mozart, è quello di portare del bello in un mondo dove ce n’è sempre meno, con semplicità e schiettezza, per pura insopprimibile inclinazione. È un’impresa ardua, per la quale i suoi sforzi si dimostrano talvolta insufficienti. Eppure è la sua posizione etica, il suo credo estetico, la sua dimensione poetica. In questo, e anche per questo, la sua collocazione tra i maggiori musicisti del Novecento deve ritenersi ormai salda e pacifica.


[1] Si veda il riferimento a A. Casella, I segreti della Giara, Firenze, Sansoni, 1941, pp. 281-282, nel saggio di S. Martinotti, Respighi tra modernità e arcaismo, in Musica italiana del primo Novecento, “La Generazione dell’Ottanta”, “Historiae Musicae Cultores” Biblioteca, XXV, Atti del Convegno (Firenze, 9-11 maggio 1980), a cura di F. Nicolodi, Firenze, L. S. Olschki, 1981, p. 111.

[2] M. Mila, Un musicien au tournant des époques, “La Revue Musicale”, XIII, 1933, riapparso con il titolo Un artista di transizione: Ottorino Respighi, in M. Mila, Cent’anni di musica moderna, Milano, Rosa e Ballo Ed., 1944; oggi in Ottorino Respighi, a cura di G. Rostirolla, Torino, Eri, 1985, p. 98.

[3] Ivi, p. 104.

[4] Ivi, p. 102.

[5] Ibidem.

[6] Il giudizio del compositore, che non potè assistere alla prima bostoniana con Koussevitsky, giudizio non dissimile da quello espresso in un primo momento a proposito delle Fontane di Roma, viene rincarato dal commento sbrigativo di Elsa Respighi, il quale in effetti non è che un’impressione personale del tutto estranea alle circostanze esecutive: «Ne è risultato nell’insieme, appuntava Elsa, una composizione un po’ forzata e di difficilissima esecuzione, il successo è stato piuttosto freddo ed è certamente uno dei lavori del Maestro meno eseguiti» (E. Respighi, Ottorino Respighi, “Le vite”, Milano, Ricordi, 19852, p. 228). A smentire la dichiarazione di Elsa, l’8 novembre 1930 il Boston Traveler riporta l’evento in termini entusiastici: «Respighi’s Theme and Variations emerged as a colossal achievement […] His is a rare genius for melody, and absolute tecnical command and above all, brilliant orchestration. Altogether the new work is a masterly composition» (cfr. le note di commento di E. Johnson nel libretto dell’incisione con la Philharmonia Orchestra diretta da Geoffrey Simon, per la casa londinese Chandos Records Ltd., 1985). Ma fatto sta che Respighi non ne parla più, e soprattutto non ne propone una ripresa italiana a Toscanini. Sulla scia della lapidaria dichiarazione di Elsa, in assenza di esecuzioni convincenti e di precise analisi stilistiche, ed essendo mancata – almeno sino all’incisione di Simon – una soddisfacente edizione discografica, sulle Metamorphoseon si dipartono, tutte uguali, le conclusioni di Daniele Spini, che si limita alla nuda citazione di Elsa (Ottorino Respighi, a cura di G. Rostirolla, cit., p. 71), di Sergio Martinotti, che parla di «sontuosa accademia ove il gregoriano rientra nel museo e diviene dimora per sopravvissuti» (Ivi, p. 130), di John C. G. Waterhouse, che scambia il commento di Elsa per un giudizio di valore addirittura denigratorio (Ivi, p. 243 nota 114), di Alberto Cantù, autore ancora oggi della sola monografia respighiana apparsa in Italia dopo quella di Raffaello De Rensis del 1935, che liquida il pezzo in poche righe (A. Cantù, Respighi compositore, introduzione di U. Ughi, Torino, Eda, 1985, p. 184). Nulla, neppure un cenno, nella raccolta di studi del Numero speciale dedicato a Ottorino Respighi, “Civiltà Musicale”, XI, 1996, 2 (n. 23-24 febbraio-giugno), pp. 3-173.

[7] M. Mila, Un artista di transizione: Ottorino Respighi, cit., p.100.

[8] Respighi, scrive Mila, come l’Andrea Sperelli del Piacere dannunziano, tutto sensazione (Ivi, p.101). «Non tanto egli esprime direttamente se stesso, aggiunge, quanto piuttosto si esprime attraverso la propria visione del mondo esterno: l’essenza della sua poesia sta nella sensuale reazione sonora del suo spirito che si espande molteplice sul mondo circostante, intento a ricostruire e colorire paesaggi, quadri, scene naturali, monumenti di storia, opere di vita e d’arte» (Ibidem).

[9] Di una dimensione mitica della cosiddetta Scuola di Darmstadt, intesa come “mito della modernità” da contrapporre ai miti propagandistici del periodo nazista, si è detto in H. Danuser, Darmstadt: una scuola?, in Enciclopedia della musica, diretta da J.-J. Nattiez, Vol. I (Il novecento), Torino, G. Einaudi, 2001, pp. 166-184. Sorta per “mitogenesi”, accompagnata da un “senso della missione” e da una fiera coscienza elitaria, la Scuola di Darmstadt per Danuser si è infine «nettamente e comicamente» dissolta con lo scandalo suscitato dalla “facilità” e “bellezza” evocata nell’estate del 1976 dall’esecuzione della Sonata per violino solo del giovane Hans Jürgen von Bosen (Ivi, p. 179).

[10] È possibile individuare due tendenze fondamentali nell’avanguardismo più oltranzista della musica contemporanea, una prima di tipo “calligrafico” risalente a Schoenberg e prim’ancora a Wagner, che identifica l’atto compositivo con il suo momento notativo e che si basa sul sostanziale grafocentrismo delle arti occidentali, una seconda – quella post-weberniana – di tipo “fonico-materico”, che identifica l’atto compositivo con la sperimentazione fisico-acustica sul suono qua talis. Agli esponenti di questa corrente sfugge in larga misura da un lato il fatto che la musica non si identifica con la propria scrittura, giacché essa non esiste sino al momento performativo, e dall’altro che la musica non si identifica con il suono qua talis, trattandosi al contrario di un codice linguistico complesso in cui il suono diviene “fonema” e il fonema “messaggio poietico”, da intendere in stretta dipendenza dalla propria funzione comunicativa. Si veda al riguardo, oltre agli studi di semiologia musicale di Ruwet e Nattiez, la cosiddetta fonologia generativa in autori come Chomsky, Sapir e Bloomfield.

[11] Circa la necessità di sfatare la presunta adesione di Respighi al regime mussoliniano, al contrario del ben differente atteggiamento di nomi come Alfano, Casella, Giordano, Malipiero, Lualdi, Mascagni, Pizzetti etc., sono stati forniti elementi importanti in D. Spini, Ottorino Respighi – Profilo biografico, in Ottorino Respighi, a cura di G. Rostirolla, op. cit., pp. 74-75.

(Da Sei controtesi a Massimo Mila – Discorso sulla natura dell’espressione e dell’innovazione musicale. “Itinerari”, XLVII, 1, 2008)

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2 Commenti

  1. La mia ignoranza, sesquipedale direbbe il Gaddus, della chose musicale non mi permette di intervenire in merito, dico solo che l’articolo è didatticamente interessante, e un ricordo di Mila, che ha svolto un complessivo ruolo culturale molto importante (ce ne fossero, oggi, di lettori-animatori come lui quand’era all’Einaudi), è doveroso.

  2. Mi vengono in mente due battute di dialogo dal secondo tempo di À bout de souffle di Godard (1960). Jean Seberg chiede: “Ti piace Brahms?” E Belmondo risponde: “No. Brahms non piace a nessuno”.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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