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Deserto d’acqua e altre poesie

di Francesco De Girolamo

Deserto d’acqua

(dall’Ilva alle Murge, via Taranto e Salento)

Ed ora chiamami straniero, selva di moli informi
ed anse fiocinate ed alberi lunari senza più brada,
stregata linfa, muraglia di miasmi protetti
di incombusti pozzi di neve nera e calda,
dai sigilli alle arcate nascoste, infecondo frantoio
d’oro eroso e argento arsenicato, ciurma persa
in lungomari sbarrati, bordeggiante e sinuosa
in caffetani intarsiati di sabbia turchese
e bellici scafandri rococò, tessuti da piccole larve
in brulicanti bazar indostani o grotte singalesi.
Ritorta costa d’Itria, pitagorico regno burlesco
della riscossa dei malnati, in forzato soccorso
ai derelitti, dannati d’oltremare, d’altro dialetto e stesso
volto di pietra scura. Ed anche voi, visitatori di passo,
scesi a sciamare da logore carrozze e non da inermi,
naufraghe prigioni, bare a trecento piazze per smunti
traci assetati, voi che ormai forse non fuggite altro
che il vostro antico, pallido tedio, fate attenzione
a togliere ogni spina, ogni residua stilla di veleno,
prima di assaporare il cuore polposo di quel nostro
selvaggio frutto di cactus, ocra-arancio, candito
allo scirocco dei più nascosti orti dell’assolata baia
d’un troppo stanco Ulisse, che mai tolse gli ormeggi,
deposte le sartie lasche, dal malioso pontile a tutto sesto
delle lampare in perpetua risacca.

(2009)

Tre movimenti

MINUSCOLE SPINE
– Basso lontano –

Svanisci, limpidezza, da questo sogno imberbe,
a diradare il fumo con venti caldi
da dove i cieli si levano piano,
senza cadere a capofitto nel vuoto.
Splendore cupo, che seguivo con gli occhi
lungo il mare, quando inerme piangevo
senza sapere il perché, o sapendolo bene;
forse anche più di ora, che non piango
se non di velenose, minuscole spine.
Chiarore informe, infetto, che mi donavi
un’ora spuria di quiete, troppo vicino
al tuo dolcissimo lete, come un osso
gettato ad un cane, perché non latri forte.
Torpore maledetto, nascosto sotto il cuscino,
che mi assalivi nel letto, come un assassino,
e liberavi il buio dalla paura; certo,
ché la paura eri tu, di ogni livido gesto;
e con cura mi riportavi oltre, dove finivo
di assaporare il segreto del tuo silenzio
dorato, come racchiuso in un nido
di tiepide braci, una capanna ovattata
di croci, di un legno tramato e lieve.
Sopra di me vedevo il regno fiero
della tua promessa, il tuo manto dischiuso
sul mio capo; ed ero tutt’uno con te,
come una dama fiera di soggiogarsi al suo re,
come se nel mio sangue scorresse segreta
l’ondosa asprezza della tua saliva,
e le mie lacrime luccicassero del seme tuo
per benedire il nulla spietato che preme
su dalla gola di chi non ha che un ben misero
incanto da custodire tra i suoi gualciti panni.
Oh, quante volte mi sarei perduto
senza il tuo grigio lampo! E svenduto
nella speranza di essere creduto un altro,
che afferrasse le cose ed avesse la forza
di camminare sicuro e guardare sereno,
come i ruvidi eroi dei film da cento lire,
alla sala parrocchiale, frugando nei calzoni
di un compagno di scuola che diceva:
“Dai, continua, non farti pregare!”
Per poi negarsi, nella menzogna più vile.
E quelle cento lire erano il prezzo di un giuda
imbellettato sul sedile, per venire a sputarti sul viso
la sua arte d’inganno più cruda, la fierezza virile
di ogni bestia più uguale a una bestia normale.
E poi, tornato all’aria, rinnegandoti anch’io,
per un letto accogliente di chiare memorie,
soffici, calde come in un sole blando,
prima che si inarcasse il volo, prima
che tutto fosse nemico di tutto.
Odiosa vanità, trascinarti nel fango
fu la mia insperata vittoria,
fu la mia vera gloria, ora che ringhio
di gioia feroce nel saperti finita
nel cerchio delle ombre che non hanno più vita.

OVUNQUE FERITO
– Sospeso leggero –

E’ già un soffio quel ringhio; e già un riflesso
di quel tonfo lucente rifrange sordo, mutato negli anni,
spoglio di inganni, in un dolore tenue come quando
i denti, giù in fondo al palato, sono ancora di latte
e la pelle profuma di fragrante sudore, ed il seme affiora
mai veduto, inatteso, nell’anno del primo dio; non sai
ciò che sembra crescere occulto, ma avverrà
che il “mai più”, forse, possa chiamarlo “ancora”,
dove trova ristoro ogni spasimo, ogni assurdo rimorso,
giacché forse non è questo il perdono, la sorte, il sogno espugnato,
la disdetta, il destino domato, l’insondabile pegno del ricordo
che in un cieco abisso tiene la piccola furia di nuovo assopita.
E allora? E’ tutto qui, proprio davanti a te, ma gli occhi non lo afferrano,
lo nasconde l’aria nuda, arsa come i frutti feriti dal sole di luglio,
che all’orizzonte affonda la sua lama nel maglio dell’onda.
Puoi correre a gridare che non sarà mai più molto, per te,
e gioire come ogni uomo, alla fine della sua attesa.
Oppure credere in silenzio che un altro ti vedrà
e manterrà il segreto che tu non oserai mai rinnegare.
Ovunque ferito. Non ascoltare altra voce. Entra nel vuoto
ad occhi chiusi, come un’ombra lambita dal velo dell’alba,
le mani tese verso l’aria fresca del vento che ghermisce polvere e oro.
Ovunque conduci la tua stella catturata, il tuo nuovo occhio
che vede oltre il sangue e non teme che lo vinca l’oscura
piaga, che lo spenga paura, che lo trafigga, quindi,
in un ritorno del tempo che insegue un altro tempo,
il soffio non placato dell’insondabile notte.

(2008 )

Per Uscire Subito
Festival di poesia

– Mosso con furia –

Per uscire subito da questa gabbia
vorrei affogarmi in una fogna
dove la melma sia più alta;
ed i topi divorino subito
questa inutile carcassa,
chissà da quanto ormai
priva di ogni parvenza d’umano.
Prima che il cancro divori
il suo organo prescelto
e la demenza senile, quel lembo di encefalo,
che ancora, a stento, a volte respira,
seppure senza nemmeno un lontano ricordo
di quella felice pazzia che un tempo vi albergava
e lo scuoteva come un frutto maturo su un ramo spezzato.
Per uscire subito da questo schifo spietato
occorrerebbe magari un infarto,
secco, senza soffrire, andando a fare la spesa,
un giorno che non piova, cadendo di schianto
sull’asfalto, a braccia distese,
come ali malnate dischiuse in un vano,
maldestro tentativo di volo.
Per uscire da tutto ciò ed al più presto.
Ma tu cosa farai? Vorrei essere certo
che non verserai nemmeno una lacrima;
me ne rincrescerebbe, non ne vale la pena.
( Non rovinarti la cena! )
Pensa che sono tornato lì, da dove
forse un giorno arrivai: l’infernale
incoerenza del nulla ancestrale…
Bisogna essere veramente idioti per ascoltare
tutto questo, senza vomitare o fischiare,
o fare qualcosa che fermi il convulso ruotare,
gli uni sugli altri, come formiche
avide di molliche ammuffite.
Per uscire subito è meglio tacere
e lasciare il foglio bianco,
piuttosto che dire qualcosa a questo branco
di flaccidi orchi in attesa di qualche parola
che non sia la solita: merda.

(da X Quaderno di Poesia da Fare, 2007)

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11 Commenti

  1. Poesie colme di ricordi, piene di profumi e di ore: un versificare che ci racconta molte trame insieme, e allo stesso tempo lavoro di cesello sulla parola giusta, sulla cesura il più possibile esatta.
    Mi complimento,
    davvero. Gabriella Gianfelici

  2. Meticolose, forti, dure, annunciano dolori che sono una chiave di violino per chi è musicista dentro…
    Si precipita e si risale, leggendole, ti mettono sotto sopra, sono olfatto e gusto e grido…
    Grande Francesco….
    con affetto e stima
    Monica
    p.s. non so se sono stata chiara, ma questo è quello che ho sentito quando le ho lette, praticamente ho scritto di getto….

  3. Mi sembra che in queste poesie Francesco operi un tentativo di giustizia. Giustizia sociale, personale e poetica.
    Cercherò di spiegarmi dicendo che nei poeti la fiducia nella parola è tale e tanta che la caricano di tutte le indignazioni, ne fanno ora un grido sommesso, ora un vero e proprio urlo, come avviene qui. Attraverso la parola operano una riparazione ai guasti del tempo, degli uomini e anche ai propri errori forse…
    Molto suggestive per la ricchezza di immagini che ben s’intessono nel tessuto del pensiero poetico. Un caro saluto, Lucianna Argentino

  4. non posso che essere d’accordo con Lucianna Argentino.
    che si levino forte le voci, fino all’infinito nostro essere, perchè di tutti è la vita, diversamente vissuta.

  5. ci sono autori come l’amico francesco che sanno dare sensi di estrema finezza elegante al proprio scrivere raffinato che mi lasciano sempre il gusto del colore..cn stima infinita
    r.m.

  6. Poesie dense, su cui riflettere, da rileggere.
    C’è una forte non rassegnazione in questi versi.
    Auguri a Francesco.

  7. Grazie a tutti coloro che hanno tanto generosamente commentato i miei testi, e a chi si sarà soffermato comunque a leggerli, spero. Un grazie speciale, ovviamente, a Massimo (Max) Rizzante e a Nazione Indiana.

    francesco

  8. Mi ha molto coinvolto, caro Francesco, questa tua serie di scritti, davvero intensi. E queste righe che cerco di scriverti paiono proprio inadatte ad esprimere il mondo poetico che hai saputo evocare. Sei riuscito anche qui ad incidere il quotidiano sul vuoto di questi anni,le impronte degli uccelli. Sai raccontare la vita e restituirle significato e secondo me anche speranza. Ho capito che devo leggerti un po’ alla volta e trovarmi poi con le dita nere, come avessi letto il giornale. Vorrei tanto scrivere un commento che entra nel merito ed interpreta il tuo lavoro mettendo in luce nuovi aspetti. Ma la tua stella brilla già di luce propria. Vostro affezionato AM

  9. Grazie, Antonio. Anche “scrivendo”, a volte, si anneriscono le dita…
    Speriamo che ne valga la pena; e che tutto il nero, poi, ne scorra via.
    Con ricambiato affetto,
    francesco

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