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Se qualcosa è accaduto….

carcere

(incontro con i ragazzi dell’istituto di detenzione minorile di Palermo «Malaspina»)

di Evelina Santangelo

Scrivo queste riflessioni, qualche ora dopo l’incontro, con una stanchezza addosso che non avevo sentito mentre mi trovavo lì, davanti a quei venti ragazzi circa, seduti nel laboratorio.

Torno con il pensiero oltre i cancelli, oltre le serrature a doppia mandata. Alcuni ragazzi se ne stanno muti, immobili, in fondo alla stanza, altri, i più vicini, hanno le facce atteggiate a una proterva spavalderia. Alle pareti, le domande e le riflessioni emerse durante la lettura di alcuni brani del mio ultimo romanzo, Senzaterra.

Non so bene da dove cominciare, adesso che mi trovo lì dentro (mai ho percepito la preposizione dentro con una tale evidenza, e concretezza) con quei ragazzi che non lasciano trapelare granché.
«Incontri ravvicinati tra extraterrestri», mi viene da pensare, mentre fatico alla ricerca delle parole che possano intanto colmare la distanza che all’improvviso sento crescere tra me e loro.
«Anche io sono di Palermo», dico. Mi sembra che questo sia un punto importante da chiarire (forse più a me stessa che a loro) per riuscire a gettare un ponte su cui tentare di instaurare un’ipotesi o almeno una parvenza di dialogo.

«Anche io sono di Palermo, siciliana, come voi, e questa storia mi riguarda, come riguarda forse anche voi. Tutti… molti siciliani infatti spesso si ritrovano a chiedersi se sia meglio restare in questa terra o andarsene… come è accaduto a chi è arrivato qua da altre terre». Dico questa frase tutto d’un fiato. Guardo i ragazzi siciliani. Guardo i ragazzi stranieri. Qualcuno sorride, qualche altro scherza con il vicino, incurante, altri mi osservano in silenzio.
Sono lì, anzi, lì dentro, eppure ho la sensazione precisa di non esserci, o meglio di essere ignorata, intenzionalmente ignorata. Non è che mi stiano mancando di rispetto, no. È come se ci sia una pellicola tra me e loro, un di qua e un di là, e in mezzo un confine insormontabile.
È questa la prima sensazione. Nettissima. Come se fosse una questione delicata di equilibri, che non possono rompersi, che non devono rompersi. Come se la rottura potesse avere esiti irreparabili.

Silenzio. Poi qualcuno inaspettatamente alza la mano, apre uno spiraglio. È un ragazzo straniero che, lottando con quel suo italiano stentato, comincia a parlare. Gli altri ridono, sghignazzano. Lui però se ne frega, dice quello che pensa. «Il padre di Gaetano ha ragione. Lo fa per il figlio. E il figlio lo deve seguire… deve ascoltare il padre…».
Si capisce che quelle parole lo riguardano più di quanto non sembri, ma non è il solo a pensarla così. Nessuno però ha ancora intenzione di parlare.

«Se uno non parla, non esiste», azzardo. «Lui ha avuto il coraggio di parlare, di dire cosa pensa. Se uno non dice cosa pensa e non si sforza di trovare le parole per dirlo, è come un fantasma. Non esiste. Se voi state qui davanti a me in silenzio, non esistete. Io sono qui e parlo. Ci vuole coraggio, a parlare», dico, non sapendo bene dove finirò per arrivare in questa sfida tra il loro silenzio e la mia ostinazione a voler trovare le parole per gettare questo benedetto ponte, per quanto precario, tra me e loro.
Certo, sono un po’ sconcertata da quelle mie stesse parole, dal loro tasso di provocatorietà, che però non mi sembra susciti reazioni.
Chi ha deciso di stare in silenzio, se ne rimane in silenzio. Chi non l’ha deciso, però, finalmente parla.
«È una storia vera?»
«Un poco sì e un poco no. Ho cercato di raccontare tanti pezzi di storie di tante persone».
«Una specie di riassunto di tante persone», interviene un ragazzo.
«Sì».
«Così uno… tutti si possono rivedere in questa storia», interviene un altro.
«Sì», dico. Non ho detto mai tanti sì a raffica come adesso.
Qualcuno cerca di capire quanto mi riguarda. Parlotta con il compagno vicino.
«Che c’è?» chiedo.
«Niente. Ma… parlavo della storia. Davvero. Secondo me la sente dentro, perché… si vede da come parla».
Mai mi è stata posta una domanda del genere in modo così diretto. Mai ho risposto in modo così netto, senza pensarci. «Sì».
«Si vede», fa il ragazzo annuendo.
Sembra che questo, il fatto che si veda, dia credibilità a tutto quello che ho scritto.

Guardo i ragazzi in fondo, che continuano a rimanere in silenzio. Non ci provo neanche ad arrivare fino a loro. Provo però con quelli più vicini, quelli delle prime file, i più turbolenti, i più recalcitranti, i più esibizionisti forse, e dunque anche i più reattivi.
«E voi… cosa pensate di Gaetano? Del ragazzo che non vorrebbe andarsene…»
«Che sbaglia».
«Che deve seguire il padre», fa il ragazzo straniero.
«Ma Gaetano, – dico, – non è che non vuole andarsene, dopotutto, vuole solo provare a restare, chiede solo di poter vivere nella sua terra con dignità, studiando, lavorando come si deve, con tutti i diritti riconosciuti… Vuole provare. Magari poi se ne andrà, ma prima…»
«Lo capisco. Lo capisco, – dice un ragazzo, uno dei più loquaci. – Ma se uno qui non si trova, è meglio che se ne va. Che significato ha stare qui e protestare. Protestare per fare cosa… Io, per esempio, me ne vado. Che sto qua io! Che m’interessa di stare qua».

Tento un accenno al fatto che ognuno di noi è parte di una comunità, che se lui potrà andare in un posto migliore, come dice, è perché la gente, tutti coloro che ci abitano, hanno contribuito a renderlo migliore. Dico che una città, un paese è anche fatto da chi ci vive. Mi guardano muti.
È evidente che espressioni come «essere parte di una comunità», «essere cittadini», «essere responsabili tutti»… non significano granché per nessuno di loro, indistintamente.
Allora provo un’altra strada. «Il padre di Gaetano, – dico, – non se ne è andato perché in Sicilia non trovava lavoro, se ne è andato perché sapeva che la sua dignità sarebbe stata calpestata se avesse accettato di lavorare in nero, alle condizioni di qualche mafioso della zona, perché ci sono leggi uguali per tutti che regolano il lavoro… È una questione di dignità…. Per questo ha preferito andarsene».
Quelli che hanno deciso di parlarmi annuiscono, come se avessi detto la cosa più sensata del mondo. Tutti loro sanno che cos’è «la messa in regola» e me lo dicono con convinzione. Questa «messa in regola» però non sembra la precisa espressione di un «diritto» sacrosanto, il riconoscimento minimo della dignità del lavoro. Annuiscono, sì, ma nessuno sembra convinto che questo possa davvero accadere, in Sicilia almeno.
«Se uno la pensa così, è meglio che se ne va».

Qualcuno pronuncia anche la parola «futuro». L’ha scritta pure sul cartellone delle riflessioni: «Il padre vuole dare un futuro al figlio».
«E cosa vuol dire per te futuro?» Lo dico così, senza pensarci. E quando mi rendo conto è già troppo tardi. Il ragazzo rimane in silenzio, la bocca sigillata, lo sguardo sfuggente.
Così questa parola, «futuro», rimane sospesa, ad aleggiare nella stanza come un oggetto misterioso, un simulacro di una cosa importante che però non si sa bene cos’è. Solo dopo un po’, quando torna a intervenire il ragazzo loquace, quella parola si fa espressione di una voglia rabbiosa non tanto di riscatto, ma di «levarsi da qui», da una terra dove, «non c’è niente da fare, le cose vanno come devono andare…»
«Perché vanno come devono andare?» chiedo.
«Perché qui è così».
«Gaetano, il protagonista del romanzo, – insisto, – è uno che cerca di capire come è fatta la sua terra, cos’è che non va, per questo vuole studiare, per conoscere le cose, per capire, ma anche per avere le parole e farsi ascoltare. Se uno non sa niente, se uno non dice cosa pensa, se uno non ha le parole per dire le cose, come può far valere le sue ragioni…»
Mi guardano, poi fanno spallucce.

Se fatalismo, indifferenza per le sorti collettive, non-speranza, irredimibilità avessero un volto, credo che quel volto avrebbe un’espressione molto simile a quella impressa sulle facce di alcuni di questi ragazzi, mentre parlano della Sicilia, dove le cose vanno così e basta… dove si può rimanere solo alle condizioni imposte… non si sa bene da chi o da che cosa… alle condizioni «connaturate» a questa terra. Nessuno dice «connaturate», certo, ma è evidente che è questa la parola più vicina al sentimento che cercano di esprimere con i gesti e le facce.
E allora: «Meglio farsi i fatti propri». La frase arriva puntuale. Però detta da quel ragazzo ha qualcosa di diverso, di più radicale dentro. Un senso di rabbiosa solitudine e dissimulata disperazione. È come se attorno a quella frase, ripetuta, ci fosse solo vuoto, una mostruosa solitudine. «Uno da solo che può fare, va’!»
«Ma non sei da solo…» dico.
«Sì, invece. E poi… che m’interessa, a me… Di nessuno, mi interessa…»

Mi giro verso il cartellone. Leggo qualcosa del tipo: «A me, Palermo mi piace». L’ha scritto uno dei ragazzi in fondo, che lo ribadisce impassibile: «A me Palermo mi piace. È il posto migliore».
«L’unico posto dove vivere?» chiedo.
«Sì».
«Qui… non si può rimanere, – insiste un ragazzo straniero. – Qui non c’è futuro…» Ma lo dice senza nessuna intenzione di contrastare il pensiero di nessun altro, come una cosa che pensa lui. E infatti nessuno ribatte. Così le sue parole rimangono anch’esse sospese ad aleggiare sopra le nostre teste come quel «futuro» che non si sa bene cos’è.

«Vorrei leggere un passo del libro che mi piace molto, – dico, – perché qui il padre abbraccia il figlio e il figlio si lascia abbracciare, anche se la pensano in modo diverso… Qualcuno mi aiuta?»
Dinieghi. Imbarazzo. Poi un ragazzo all’improvviso si alza. Senza dire una parola, decide di darmi una mano. Prende il libro. Comincia a leggere. Con tutta la fatica del mondo. Come se dovesse conquistarsi ogni singola parola. Come se stesse combattendo una guerra.

Non mi è mai capitato prima, ma in quel momento, mentre lo aiutavo a pronunciare qualche espressione più difficile, mi rammaricavo di una cosa insensata… mi rammaricavo di aver usato parole così difficili appunto… parole che sembravano tutte sbagliate, assurde, inerti, mentre uscivano smozzicate dalle labbra di quel ragazzo.
È una sensazione davvero straniante percepire l’inerzia delle parole, delle proprie parole. Eppure, in quella lettura c’era qualcosa di diverso, qualcosa che aveva a che fare con lo sforzo straordinario che il ragazzo stava facendo per leggere delle parole. E il fatto straordinario era che quello sforzo rendeva assolutamente irrilevante che le mie parole, in quel momento, venissero decifrate, comprese. Era come se quella fatica insomma bastasse da sé a colmare tutto il resto.

Ecco, io non lo so cosa resterà di questo incontro ai ragazzi stranieri e italiani con cui ho trascorso un paio di ore oltre quei cancelli azzurri, oltre le doppie mandate delle serrature.

Se qualcosa è accaduto, è accaduto non certo mentre spiegavo come Gaetano guardasse i tetti pieni di serbatoi di Eternit… e pensasse come fosse spaventoso quel paesaggio punteggiato di amianto… anche questo, per tutti loro, rientra nelle cose che devono andare così, secondo un cieco determinismo, che è un carcere dentro il carcere. Il vero, inconsapevole carcere che nessuna parola, per molti di loro, potrà spezzare.

Se qualcosa è accaduto, è accaduto prima probabilmente, mentre leggevano quei pezzetti di una storia che raccontava di un ragazzo che voleva tanto una cosa che si chiama «futuro»… non altrove, ma lì… in quella che è anche la loro terra…

Se qualcosa è accaduto, è accaduto oltre l’ingombro delle parole abissali, quando un ragazzo cui probabilmente non importava granché di trascorrere due ore a parlare con la sottoscritta, si è alzato, ha preso un libro e, fregandosene del giudizio di tutti, me compresa, si è messo a leggere parole impossibili senza che si levasse una risatina, né un applauso di scherno o di sufficienza.

Se qualcosa è accaduto, ha a che vedere con quel gesto finale di alcuni che, senza applaudire, si sono avvicinati a darmi la mano tra mezze parole di compiacimento.

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2 Commenti

  1. Ci sono sottolineate molte cose con cui fare i conti.
    La parola, che non se ne sta sospesa a soppesare concetti e cose oltre la vita ma si cala e si sporca di terra,nella terra della vita delle persone.
    La parola è un ponte in cui non si passa sopra ma ci si sta dentro e per starci deve avere spazio e cuore,deve averci il respiro, altrimenti anch’essa è un carcere e suona vuota. Non serve che abbia più fututro di così, se ha queste doti è gia nel tempo, quello di ogni vita senza che ci siano parole potenti o parole servili, la parola si rigenera ad ogni stagione trovando le sue profondità in noi che la pronunciamo vivendola.
    Dentro, è un carcere se noi stessi siamo i carcerieri e non si muove un passo nemmeno se ,di solito, tu te ne stai in un fuori che è fuori da tutto, compresa la vita, che è relazione.
    In-segnare e dire preferendo andare,ire, appunto, da un dentro ad un altro in tutti gli abitanti di questo pianeta, che follemente e senza raziocinio si pensa di poter sempre rinchiudere:dentro i con-fini,dentro i lì-miti,dentro le parole come ceppio come i cippi di una strada segnano l’unica storia da ascoltare e scrivere,con gesti profondi,senza che le parole si carichino di altre some, ancora una volta la vita in con-notati che superano le storie stesse,prese una per una.
    Ringrazio per questo gesto, per questo incontro e per quanto porta in sè, con semplicità e nitidezza.fernanda

  2. Ho letto con attenzione il tuo racconto e ho pensato che le parole possono mettere in relazione idee, costruire spazi comuni e possono tentare di avvicinare mondi molto distanti. Il gesto che hai fatto, provare a mettere quei ragazzi in relazione con le parole di Gaetano, è come aver fatto vivere le parole scritte, averle fatte agire, pulsare dentro la testa di ognuno di loro. Credo che sia stato faticoso emotivamente recarsi lì, provare a vedere le loro facce e sostenere i loro sguardi e provare a gettare tra te e loro un filo di relazione; potevano essere tanti Gaetano lì davanti a te. Penso che questa visita i ragazzi che hai incontrato se la ricorderanno e che ognuno diloro se la ricorderà in un modo segreto e personale e magari proverà a trasformarla in uno sguardo un pò diverso. Da soli il tuo libro, le tue parole, la tua visita, forse, non riusciranno a muovere meccanismi incancreniti e non perchè non ne hanno la forza, ma perchè purtoppo quotidianamente sono contraddetti da mucchi di parole vuote e ipocrite e di azioni altrettanto sconnesse e scollegate dai pensieri. Ma questa è una considerazione oggettiva e realistica che, però, non deve fermare chi , come te, crede nel senso del proprio lavoro e quotidianamentelo lo mette al servizio di un progetto più grande. Grazie per la tua testimonianza. ambra

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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