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Un dialogo con Ottavio Fatica

di Domenico Pinto

Ottavio Fatica, nato a Perugia, vive e lavora a Roma. È fra gli interpreti più profondi della letteratura in lingua inglese. Ha lavorato a lungo per Theoria, Einaudi e da diversi anni per Adelphi. Ha vinto il Mondello per la traduzione di Limericks di Edward Lear e nel 2007 il Monselice per la traduzione di La città della tremenda notte di Kipling. Ora è al suo esordio come poeta. «La Talpa» lo ha intervistato.

È appena uscito, con il titolo Le omissioni, il tuo volume nella ‘bianca’ di Einaudi. Dov’eri in questi anni? Perché l’esordio in così tarda estate?

Sono sempre stato qui, nell’esilio occidentale. Anche a fare poesie. L’importante era farle; la pubblicazione no – o poteva attendere. E si è fatta attendere! Ma la ‘tarda estate’ è una bellissima stagione, la più struggente; è quando sono nato. Come mai sia andata così è storia lunga. C’è stato un momento che sembrava propizio, nei primi anni Ottanta, quando Giacinto Spagnoletti e Giuseppe Pontiggia avevano caldeggiato la presenza di una scelta di ‘sonetti’ miei sull’Almanacco dello Specchio. Marco Forti, all’epoca direttore, si era detto d’accordo. Quell’anno la rivista interrompe le pubblicazioni, per riprenderle solo di recente. E io non ho insistito. Un’altra occasione, nel decennio successivo, per varie ragioni non si è concretizzata. Pochi anni fa le circostanze – e qualche spinta d’incoraggiamento – hanno portato infine a questo libro. Io però, a fasi rarefatte o convulse, ho seguitato a scrivere poesie. Che si venivano componendo in gruppi, in cicli, in possibili raccolte, passibili di pubblicazione. Anche adesso, dopo l’uscita del libro ho nuovi versi in cantiere.

Nella tua poesia appare forte la pressione dei modelli europei, mentre il  nostro Duecento più petroso è percepibile, di ritorno, nell’impianto delle rime. Vi è in essa una forma di doppio vincolo fra più tradizioni e condizionamenti?

Messo nell’impossibilità di agire, devo pur fare la mia mossa. Che sarà comunque sbagliata. Nel tentativo di sbagliare sempre meglio. Io non nasco come giovinetto sensibile, amante di bella poesia italiana scoperta magari a scuola. Non ho iniziato su qualche rivistina di tendenza né sulla scia di grandi o piccoli maestri nazionali. Io sono stato iniziato alla poesia da un’esperienza limite; esco dalla piaga Rimbaud, una ferita mai rimarginata. A partire da questo punto finale ho perseguito l’iter dei suoi eredi. Mi riferisco ai ragazzi del Grand Jeu, Daumal e in particolare Roger Gilbert-Lecomte, e poi Artaud. Un’esperienza che coinvolgeva tutta la persona, anima e corpo, e relativi bagagli. Poi però attraverso gli inglesi, più tradizionalisti per fortuna anche nell’eversione, ho rielaborato, ho rilavorato sulla forma. E lì il punto di riferimento è stato Hopkins. Nessuno estremista più di lui, nessuno più di lui deciso a far rientrare nella norma una poesia, una poetica, che debordava da ogni parte. E a prezzo di tormenti inauditi c’è riuscito. Così mi sono riaccostato alla nostra tradizione, l’ho vista, l’ho vissuta di ritorno – ed era mia, la mia. Solo così mi era dato ritrovarla. E poi i grandi ‘moderni’: Rilke e Benn, Mandel’štam e Chodasevič, Holan e Vallejo, più i tanti autori anglofoni: Yeats, Eliot, Lowell…

Tradurre è una triangolazione fra pratiche plurilinguistiche della scrittura, il luogo in cui si forma la propria lingua. È come voleva Antoine Berman, quando sostiene che essa è «origine et horizon de l’écriture en langue maternelle»?

Dietro il mio italiano c’è – non può non esserci – il latino. Per ritrovare «modi di condensazione propri dell’italiano» come spetta a «qualche autoctono, che forzi la lingua nativa… un rinvigorimento dell’italiano che deve derivare dal latino» scriveva Pound al traduttore. Diciamo che il latino è l’ombra propria; l’inglese o il francese sono ombra portata. Per dare spicco con veemenza ai contrasti di chiaro e oscuro. Da abbacinare un cieco. Di più: dal negativo dell’ombra restituire l’invisibile.

Sei l’unico italiano che caparbiamente rielabora le proprie versioni; per successive approssimazioni, arrotondamenti, estrazioni del classico. La traduzione è il cono d’ombra della tua scrittura, forse il palinsesto su cui riscrivi senza tregua le tue ossessioni di stile.

Lo so, è maniacale. Ma è un fatto che le mie autoritraduzioni sono diversissime anche dalle mie versioni precedenti, più vicine alle altre uscite prima o dopo da me compulsate. Segno che l’ovvietà, la scuola, la pigrizia hanno sempre la meglio. Estrazione è la parola che meglio coglie il senso dell’impresa. C’è talmente tanto da estrarre e riportare sul versante della mia lingua, quando si ha a che fare con un classico. Non già la traduzione come disegno o incisione (effetto piatto) rispetto a un quadro (col suo spessore materico), per dirla con Voltaire: tantomeno come foto illustrativa, patinata, come la vedono (e la vogliono) oggi in molti nell’editoria, rispetto alla scabrosità dell’opera. Che va vista come tridimensionale. Quanto traslato di qua dovrebbe avere il rilievo di un plastico, gettare a sua volta ombra. Io vedo due coni d’ombra capovolti e a incastro, la punta dell’uno sul fondo dell’altro, stratificati in spirali di fumo che salgono e scendono. Una versione della torre di Babele. Il palinsesto è un millefoglie: gratti e togliendo viene ad aggiungersi qualcosa. Qui l’omissione paga.

Hai sottratto Kipling alla cattività della foresta, alle letture edulcorate e in minore. Perché questo autore è così centrale per te?

Una parte l’hanno giocata le circostanze; la proposta mi ha dato modo di scoprirne la ricchezza, abnorme sotto quasi tutti i punti di vista: lingua, immaginazione, senso della narrazione, dell’epico, e poi il pathos, i misteri della psiche, ecc. Sottratto alla giungla resta un coacervo lacerante di opposti portati a maturazione – e talora a perfezione – artistica, riscontrabile in pochissimi altri casi. All’atto pratico del tradurre – una sfida continua, esaltante.

Le tue traduzioni seguono una linea diagonale, costeggiano zone all’apparenza laterali della letteratura in lingua inglese. Spettacolari repêchage, storie di spettri, marginalia, taccuini. Vi è confermata la tesi di Arno Schmidt: «i sentieri veri e propri, nella letteratura, sono i vicoli ciechi».

Molto ha giocato la possibilità di scegliere autori o titoli nella stagione di Theoria. Un modo per puntare su autori molto particolari, e a me particolarmente cari, come Lafcadio Hearn o Walter de la Mare, che nel canone invalso si pongono araldicamente di traverso: banda di bastardigia o di elezione? Quanto all’uscita di sapore beckettiano di Arno Schmidt non posso che condividerla. Fissare un muro è pratica meditativa. Un modo a lungo andare di sfondarlo – con la mente, cioè con il cervello, cioè sempre con il cranio. Q.E.D.

Ritorniamo al libro e al suo titolo: è un sistema di ceteris omissis, di lacune, di abrasi sul codice della memoria, che cattura solo la parte emersa di una vita di scrittura. Omissioni, ellissi di ciò che hai scritto, e ancor più di quanto non hai scritto.

L’immagine di parte emersa è calzante. Le poesie riunite nelle Omissioni risalgono tutte a dopo il Duemila. È pur vero che mi porto dietro ritmi, suoni, echi, immagini, giri di frase e semplici parole, da una vita. La raccolta è la punta di una piramide sepolta, o dell’iceberg. Un ottavo fuori, gli altri sette sott’acqua. Forse è quella la parte più importante, se non altro per far stare a galla il picco. Ma il riferimento al peccato – di omissione – è un punto fermo. Ne sono colpevole più di tanti altri: e ne sono consapevole.

La sensazione è che nel libro la scrittura nasca, senza fuoriuscire, dall’«occhio carnale della mente» e dalla «perplessità di cinque dita cieche». In questo murare le sensazioni, come il gatto di Poe, qual è il rilievo degli spazi nella raccolta?

È una questione di confini, di pellicole – per percepire l’infinito, più spesso la cattiva infinità. Il volume è diviso in cinque parti che rimandano tutte – me ne sono reso conto a cosa fatta – a concetti spaziali. Certo un modo di ammazzare o imbrigliare il tempo, che non si lascia però remissivamente imbrogliare. E di ribadire che pure da questa terra d’esili si intravedono gli asfodeli sull’altra sponda, i campi elisi…

Nella poesia incipitaria è scritto «L’inchiostro spanto è inchiostro fatto/ in casa d’un marrone/ come macchia di sangue sulla carta»: all’idea di Agamben del ‘pensiero come macchia d’inchiostro’ sembra aggiunto anche un movimento opposto che dall’inchiostro, come scoria del corpo, riconduce al pensiero e alla sua claustrofilia.
Il pensiero si crede in gabbia nel corpo. E non capisce che è quello il suo plancton. Se solo si vedesse com’è – come una seppia nel mare, il mare nostro. Hai parlato di claustrofilia: il pensiero gode di questa clausura. È la sua gabbia dorata. Come avere altrimenti idee così sublimi? Anche le più torbide o cruente, morbose, nichilistiche o suicide. Tutto torna a maggior gloria… di se stesso.

La raccolta è percorsa da parte a parte dal fuoco, dalla sua combustione, dal disgregarsi della luce in stelle, roghi, lampade votive, zolfanelli, lucciole, pale fires e feux follets. Verrebbe fatto di chiedersi, con i tuoi versi, «[…] è un censimento il tuo?/ che fai? che pensi? di’/ di’ di’ no// che aspetti?». In questo incenerirsi di ogni cosa, è l’io il «vero residuo» che continua a ardere, il comburente. Non sarà, questo, un travestimento conclusivo della fiamma di Ulisse?

Io vedo un bonzo in fiamme, la conoscenza pura che sboccia nella posizione del loto in un fiore di fuoco – e per protesta! Sento di più il mito di Achille, anche nella declinazione digradante che da Alessandro arriva a Lawrence d’Arabia. Chi non sa di sapere e fa il suo gesto, il suo verso; l’intelligenza delle cose, nelle cose.

In chiusa di libro si legge: «sarò stato primaticcio abortivo/ e ultimo inviato ego minimus modernorum». La consapevolezza lancinante di Rolandino da Padova sigilla lo smalto retorico di questi versi, le responsioni ritmiche a largo raggio, le rarità lessicali, l’embricatura delle rime. Per poter finire, l’ultimo dei moderni deve continuare, suo malgrado, a «traier canson per forsa di scrittura».

San Paolo strina la poesia d’apertura e quella che chiude il libro col suo marchio di fuoco sulla pelle arsiccia. «Il corpo è il libro»: il libro non è il corpo. E il cronista poteva dire di sé che era l’ultimo dei moderni milleduecento anni dopo Paolo; io non faccio che ribadirlo dopo altri ottocento anni. Con in testa l’eco dell’ego scriptor poundiano: lui sul formicaio sfranto; io su un letamaio rigoglioso. Per il poeta tutte le età sono contemporanee. Come niente si ritrova poetaneo di nessuno.

Con il titolo Il bonzo in fiamme, questa intervista è apparsa su «Alias», Anno 12 – N. 21 (23 maggio 2009), p. 17.

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10 Commenti

  1. “Il pensiero si crede in gabbia nel corpo. E non capisce che è quello il suo plancton. Se solo si vedesse com’è – come una seppia nel mare, il mare nostro. Hai parlato di claustrofilia: il pensiero gode di questa clausura. È la sua gabbia dorata. Come avere altrimenti idee così sublimi? Anche le più torbide o cruente, morbose, nichilistiche o suicide. Tutto torna a maggior gloria… di se stesso.”

    è interessante anche il partire dalla piaga Rimbaud per giungere ad Artaud, parola scritta come prolungamento dei sensi…

  2. Bellissima intervista e dopo una prima perplessità le poesie di Fatica mi piacciono sempre più (per quello che vale, cioè niente).

  3. Tra l’altro, ho fatto un esperimento.
    Ho postato una poesia di Fatica in un forum di appassionati di opera lirica, e ne ho ricevuto un commento grandioso.
    Ecco di seguito il mio post e il commento dell’utente “Pinkerton” (che come tutti sanno è il Luogotenente di vascello che fa perdere la testa alla Madama Butterfly pucciniana).

    Giordano Tedoldi scrive:
    Propongo qui una poesia di Ottavio Fatica, non so francamente che pensarne, ho un embrione di giudizio positivo, mi piace il loro tono squinternato, ci sono singole illuminazioni (“pensare è pensare babilonia”) che rasentano l’idiozia da canzonetta eppure seducono. Altri abbinamenti “il cuore pesa pensa” sono triviali, che ‘pensiero’ derivi da pondere (pesare) è nozione scolastica. Comunque è un poeta contemporaneo che val la pena conoscere.

    UN PIENO DI

    C’è un pieno di rumori e di discordie
    …un coro una babele di rumori
    ……e di discordie di’ di no c’è un muro
    …di rumori di’ di no se il fuoco ti ha parlato

    corpi celesti gravitano
    …grazie a una grande pesantezza il cuore
    ……pesa di più se il fuoco ti ha parlato di’ di no

    i sensi rampicanti fanno presa
    …al muro di rumori e di discordie
    ……statue senza lo sguardo affacciano
    …dai parapetti dei giardini pensili
    ………sulla laguna

    pensare è pensare babilonia
    …il cuore pesa pensa di’ di no
    ……se il fuoco ti ha parlato

    sulla laguna di silenzi e calami la lingua
    …che balbetti una fiammella fioca ormai
    …….balbetta il fuoco ti ha parlato e quando
    ….e quante volte quante? è un censimento
    …….il tuo? che fai? che pensi? di’
    …di’ no
    .
    che aspetti?

    Commento di “Pinkerton”

    La partenza è migliore dello sviluppo, che incappa nel “già detto, anche in quel modo” ( cosa curiosa in una poesia che fa gran sfoggio di “non detto”). Di “statue senza lo sguardo” e di “lagune di silenzi” son piene le fosse. Sul metonimico “Pensare è pensare babilonia” che ha una laconicità di estrazione vagamente pubblicitaria, direi che , se non altro, è “a la page”, insomma possiede una sua modernità formale.
    In definitiva il poeta gestisce lo stilema adottato, criptico e frammentario, con sufficiente asciuttezza e anche con una certa eleganza ( delizioso l’intercalare “dì di no”, non punteggiato. L’altro intercalare è un sostantivo (“il fuoco”)).
    Insomma Giordano, malgrado certe ingenuità ( ah, tutti quei punti interrogativi sul finale!…), a me sembra una cosa delicata e venuta bene.

  4. Giordano Tedoldi scrive:
    Propongo qui una poesia di Ottavio Fatica, non so francamente che pensarne, ho un embrione di giudizio positivo, mi piace il loro tono squinternato, ci sono singole illuminazioni (”pensare è pensare babilonia”) che rasentano l’idiozia da canzonetta eppure seducono. Altri abbinamenti “il cuore pesa pensa” sono triviali, che ‘pensiero’ derivi da pondere (pesare) è nozione scolastica. Comunque è un poeta contemporaneo che val la pena conoscere.

    Perplessità su Fatica sono state già espresse qui su N.I. Certo, scrivere di “illuminazioni che rasentano l’idiozia” e di “abbinamenti triviali” non sembra essere una lettura critica del testo ma un tentativo (disperato) di apparire originale a ogni costo tipico di chi con la scrittura intrattiene relazioni solo in termini di autocelebrazione.

  5. @Mr. Wheeler:

    Lei dice:

    “Certo, scrivere di “illuminazioni che rasentano l’idiozia” e di “abbinamenti triviali” non sembra essere una lettura critica del testo ma un tentativo (disperato) di apparire originale a ogni costo tipico di chi con la scrittura intrattiene relazioni solo in termini di autocelebrazione.”

    Solo perché da povero diavolo non ho ben capito, caro Wheeler, le chiedo di spiegarmi a chi si riferisce questa frase “ma un tentativo (disperato) di apparire originale”… il tentativo disperato sarebbe quindi del lettore poco critico o dello scrittore? … me lo chiedo – e glielo chiedo -perchè sintatticamente sembrerebbe riferirsi al lettore poco critico, ma concludendosi con “l’autocelebrazione” mi sono sorti seri dubbi.

    (tutto bene con la vetrina quest’anno?)

  6. Ho criticato alcune poesie di Fatica qualche tempo fa. La linea letteraria che lui segue mi sembra però assolutamente giusta, oserei dire necessaria al tempo d’oggi. Si comincia PER FORZA con Rimbaud, che non abbiamo nemmeno iniziato a capire (tant’è che ancora spacciano per primo poeta moderno l’accademico Baudelaire), e si finisce in mezzo a tanti casi disperati, Artaud, Dylan Thomas, Celan, Trakl, Cvetaeva, Rilke, Benn, Mandel’stam ecc. ecc.; gente che ha pagato LETTERALMENTE CON LA VITA la propria vocazione, che ci ha mostrato quanto sia pericoloso (oggi più di ieri) essere poeti. Poiché essere davvero poeti vuol dire interpretare il proprio tempo (e il tempo d’oggi è terminale), e più in generale il dramma della condizione umana, per sé e per gli altri, il “mestiere” del poeta è al limite; io spero che, con nuovi strumenti di conoscenza, questo limite si riesca a farlo rientrare nel bordo della vita, a bruciarcisi senza morire, a capirlo e carpirlo meglio, insomma. Non a caso anche Fatica parla di confini, inabissamenti, parti emerse e immerse, pellicole e gabbie.

  7. Che ventata di freschezza la lettura di questa umile presentazione di sé dell’autore! Non c’è autocelebrazione, non c’è ricercatezza nel raccontarsi, tutto è diretto, efficace, comunicativo, dialogico, affascinante … come la sua poetica! Mi domando cosa mai un commento possa aggiungere a tanta grandezza, qualunque elogio potrebbe sembrare una beffa, perciò per evitare di essere fraintesa, dirò: “grazie di esistere Fatica!”
    E chiudo con le sue profetiche parole finali: “Per il poeta tutte le età sono contemporanee. Come niente si ritrova poetaneo di nessuno.”

    Sua devota M.

  8. @Lucifero
    Mi riferivo senz’altro al lettore (autocelebrativo nel senso: guardate quanto sono straordinariamente fico io che commento “rasentano l’idiozia da canzonetta eppure seducono” e poi sottolineo la trivialità da nozione scolastica (?!) dell’abbinamento pondere -pensare) così concentrato nello schivare la banalità da diventare la caricatura di se stesso

  9. Pondere in latino non esiste, ho commesso una topica. Pendere, è il latino per pesare, da cui pensiero.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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