Padroni Delle Libertà

di Leonardo Palmisano

Un giorno, tra cento anni, gli esseri umani che godranno di una Terra meravigliosa e che vivranno esistenze felici e spensierate, ricorderanno Silvio Berlusconi come colui che per primo mostrò al mondo, a cavallo tra due millenni, tutta la verità sulla natura della dottrina politica economica e sociale uscita vincitrice dai conflitti grotteschi e sanguinosi del ventesimo secolo: il liberismo.
“Egli”, diranno, “incarnò alla perfezione l’idea che, in totale assenza di avversari, l’arroganza del vincitore non potesse continuare a essere giudicata come l’espressione di un imminente tentativo di aggressione ai contendenti, ma meritasse di essere considerata e percepita  per quello che era: il mezzo migliore per far capire a tutti che nessuna contesa sarebbe più stata possibile”.

Mentre in questi giorni, i capi della più grandi democrazie occidentali si affannano a parlare di riforme e di trasparenza del sistema finanziario, il nostro presidente del consiglio tiene ovunque delle lezioni spontanee sulla libertà di stampa, illuminandoci con dei sillogismi inattaccabili: “La stampa è libera di dire ciò che piace a suoi padroni”. Insomma, “se io tengo in vita un giornale comprando degli spazi pubblicitari, di fianco al mio marchio o subito dopo lo spot del mio prodotto non può esserci una notizia sulla pericolosità della crisi economica. Ci dev’essere una bel trafiletto ottimista sulle virtù terapeutiche dello shopping compulsivo. O tuttalpiù la foto di una bella ragazza!”
Anche i giudici appartengono ai loro padroni.
Anche i parlamentari.
E, naturalmente, i cittadini.
Confutare questa posizione, oggi, vuol dire mettere in discussione i pilastri dei nostri regimi democratici – o quanto meno ostinarsi ad anteporre, in maniera anacronistica, il bon ton alla sfacciata evidenza dei fatti.
Se l’unico principio condiviso dalla totalità degli esseri umani evoluti è quello secondo cui ogni individuo ha il diritto di perseguire il proprio interesse personale e immediato; se viene considerata legittima e, anzi, virtuosa ciascuna azione volta a raggiungere il maggior profitto e il maggior potere possibile [e non esiste persona dotata di una minima dose combinata di razionalità e sincerità capace di negare queste due ipotesi] allora è inutile fingere di scandalizzarsi quando qualcuno, persino in un periodo di crisi e di rischio recessione, si ostina ad attenersi, alla lettera, alle inconfutabili leggi del mercato.
È arrivato quindi il momento di smettere di considerare l’Italia come il luogo in cui, da venti (anzi, no, da trenta…, anzi, no, da quaranta…, anzi no, insomma, da troppi) anni si vive in una sorta di imponderabile anomalia, e di cominciare ad accorgersi che il nostro Paese è, in verità, un’avanguardia, un esperimento teso a dimostrare che, liberando l’umanità dalle ragnatele dell’etichetta democratica, si potrà finalmente intraprendere un percorso di ritorno verso una comoda e appagante oligarchia. Se, insomma, per Marx la dittatura del proletariato era il preludio del comunismo, per i governi moderni la parentesi democratica è stata solo una necessità, un modo per allontanarsi una volta per tutte – e con l’approvazione unanime dei cittadini – dall’ipotesi di stato socialista, e incamminarsi verso la forma di governo che pacificherà la storia: la plutocrazia.
Nessuna chiesa e nessuna ideologia è oggi in grado di opporsi a questo processo. Anche i papi hanno i loro padroni. Non c’è alternativa. E l’arroganza di chi persiste nell’esprime questo concetto non è che l’espressione naturale del concetto stesso: è il suo abito, tagliato su misura. Anzi, la sua pelle.

Ma la pelle trema.
Perché c’è un piccolo inatteso ostacolo a questa marcia trionfale. Ed è la crisi economica scaturita da un sistema che, arrivato a questo punto, non può rischiare di mostrarsi meno che perfetto. È qui che si gioca la partita. (O forse, senza paura, bisognerebbe dire che qui si gioca il destino della nostra specie.)
La guerra che Silvio Berlusconi combatte contro la parola crisi, contro l’idea stessa che questa parola contiene è, in verità, la guerra del liberismo in difesa della propria potenza, della propria vittoria, del proprio diritto a proclamarsi religione universale.
Crisi vuol dire ricominciare a guardarsi nelle tasche, a contare i soldi, vuol dire smettere, anche solo per un attimo, di essere consumatori di massa e ritornare a gestire le proprie spese, consapevolmente, secondo la categoria della priorità. Vuol dire, quindi, tornare a essere classe, vuol dire persino accorgersi di non aver mai smesso di esserlo. E allora vuol dire risveglio di coscienze e di idee, di mondi alternativi, di antagonismi – di contendenti!
L’arroganza torna a essere il tono della minaccia, non più della consacrazione. L’oratore tossisce.
La frase che sta per urlare l’ha ripetuta tante altre volte. Ma mai con questo tono.
“Sempre voi, soliti c- – – – – – – -!”

E il resto dipende da noi.

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6 Commenti

  1. fino ad ora credevo di essere uno dei soliti retrocomplottisti un po’ fantapolitici, di quelli che immaginano comitati invisibili di potenti del mondo che muovono le proprie pedine a proprio piacimento.
    così, siamo almeno in due.
    non credo nella democrazia, se questa viene imposta ad immagine e somiglianza di chi decide del mio destino, del mio stipendio, del futuro mio e dei miei figli, e sono sempre più convinto che essa non sia altro che il miglior vestito del capitalismo (cit. Lenin)

  2. Sì, il resto dipende da noi e non è poco. E ognuno di noi non può non fare i conti con questa realtà perchè si tratta della nostra vita, del paese in cui viviamo, della società che stanno smantellando sistematicamente.
    Io ci sono.
    Il silenzio è come sempre in questi casi assordante.
    Bellissimo post, Leonardo, bentornato.

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domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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