La caverna

meris-angioletti

di Andrea Cirolla

L’unico modo per uscirne è scrivere. Usare parole come colpi di piccone, e come piccone la lingua. Lavorare, giorno dopo giorno, di piccone e pala. La pala è per pulire il pavimento, per togliere i detriti, le parole sbagliate, le pagine malriuscite. E non è detto che il lavoro più semplice sia colpire. Potrei picchiare contro la parete per una notte intera e pensarlo all’alba un gran lavoro, poi dover pulire e pulire ancora per tutta la settimana successiva. Poi pensare, anzi magari averne la consapevolezza, che la mia camera sia sporca più di un sottoscala senza luce e senza finestre, e non si potrà mai pulire abbastanza. Allora perderei altre settimane, e i mesi successivi solo a pulire, ancora, a cercare ogni briciola, a buttare via pagine e pagine di vocabolari. Mi sentirei così prossimo all’afasia che, quasi, comincio a percepirla ora, col futuro arriva, e io non mi muovo di un passo, e mi compiaccio quasi a scriverlo, sembra di vederlo piombarmi addosso, sì, io sto qui in questo istante e non faccio un passo in più, è tutto il tempo dei secoli dei secoli che mi si rovescia in testa come un acquazzone. Ma non mi bagna, c’è solo polvere, polvere e briciole, briciole e parole, tutto si mischia, il mio posto con le sue corrispondenze nella mia fantasia. Fantasia e poi ancora realtà, quasi soffoco, sì, lo sento. Uno. Due. Tre, quattro. Sento, arriva un respiro. Cinque, sei. Ricomincio. Sette, otto, nove – è quasi dieci. Dieci. Dal di fuori hanno lavorato più di me, meglio di me, i fabbricanti di discorsi, bei discorsi e frasi su frasi, hanno armato dal di fuori la mia parete, che sembrava così scavata, così scolpita dal piccone, dai colpi di parole, che quasi si vedeva qualcosa, fuori, sembrava quasi trasparente. Ora è buio, tutto più di prima. Con questo buio si lavora meglio, non c’è il rischio di essere visti, né di vedersi. Tolgo le scarpe per sentire neanche il mio rumore. Strusciamenti, prima, poi il sudore dei piedi, poi ancora tutto si placa, si assottiglia. Rallento con gli attrezzi per non guastare il silenzio, che arriva, toglie anche lo sporco di torno. È tutto più nero, perché nero lo era già – ora è un nero senza palpebre. Uno schermo di parole fittissime tutto attorno. Mi gira la testa e io giro con lei, ballo un valzer con i nomi, gli aggettivi preposti, arrivo agli articoli, al primo, poi al punto. Chiudo gli occhi ed è il bianco. Apro gli occhi e fa lo stesso. Smetto di lavorare. Ignoro le parole come dimentico il piccone, la pala, e di stare dove sto. L’unico modo per scriverne è uscire. L’unico modo per uscirne è scrivere.

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9 Commenti

  1. Scrivere nel pensiero comune viene come una limpida acqua, zampilli di orto botanico, semplice, facile da iniziare o fermare.
    Non è il caso, è un lavoro di ogni giorno, con un romanzo sta scrivendo, si dice in cantiere. Qualche libro è una casa mai finita, senza tetto, con il cielo troppo grande. A volte il cielo è immenso, l’architetto non puo affrontare un lavoro senza fine.

    Bel pezzo sul dolore, il lavoro ingrato dello scrittore.

  2. @vv e @fk. Posso dirmi contento: era proprio quello che volevo passare. Grazie della lettura.

    P.S. L’opera in antiporta è di Meris Angioletti, artista giovane e bergamasca. Si tratta di un lavoro sul Finnegans Wake di J. Joyce, dello stesso tipo di quello su tre racconti di E. A. Poe in mostra attualmente alla GAMEC di Bergamo, nel contesto di un’esposizione (“Ginnastica oculare”) dedicata ai meccanismi della memoria.

  3. La mia immagine era proprio questo: la scrittura che autocancella e nel cancellarsi apre un nuovo ingresso al testo. Mi fa piacere che tu l’abbia usata per questa caverna. meris

  4. @Meris. Incredibile! Ho visto recentemente la tua Ginnastica oculare alla GAMEC di Bergamo. Mi è rimasto talmente in testa il primo lavoro – 6 S. Kracauer, Il romanzo poliziesco. Un trattato filosofico, trad. it. di R. Cristin, Roma, Editori Riuniti 1984, pp. 40-41 – che nello scrivere la pagina sulla Caverna non ho potuto fare a meno di lasciarli sovrapporre mentalmente. Insomma, prima di cercare un’immagine la scelta era già stata fatta, e, chissà, forse proprio durante quella prima visione. Un grande piacere anche per me.

  5. @andrea. Mi fa piacere che tu abbia visto la mostra. I miei progetti nascono quasi sempre come scrittura -piuttosto che come immagine- per questo mi interessa molto il rapporto con lo scrivere, del quale cerco di dare una visualizzazione. Scrivimi se vuoi, mi fa piacere: memoletta@gmail.com

  6. Scrivere è urlare. Sia che urli di gioia o di dolore, il gesto in sè è liberatorio. Ti riveli e ti liberi. E vedi la luce.
    Bello il concetto della caverna come scatola claustrofobica che imprigiona lo scrittore, che lo devasta lentamente mentre cerca di “partorire”il pezzo. Immagine inquietante, ma sublime.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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