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La volpe (15 luglio 1997-15 luglio 2009)

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di Francesca Matteoni

a S.

Tulse Hill, dicembre 2007

I

Ti scrivo da quest’ultimo mese, in cui ci si raccoglie. Si richiama il freddo dall’esterno, a palme schiuse, si strizzano gli occhi nel sole di ghiaccio: il vento taglia le bocche, indurito contro il pensiero. Ormai vivo di partenza, tra l’Italia e Londra. Abbandono le montagne tutte attorno alla provincia toscana, il senso di un mondo protetto, per la metropoli di tempi fagocitanti, vertiginosi, che scendono dalla City ai villaggi delle periferie. Nel suo cuore è un raccordo di antico e moderno – s’infuocano i palazzi di specchi, l’acciaio architettonico proprio accanto alla cattedrale di St. Paul, all’Old Bailey dalla giustizia bendata, dove le folle si accalcavano per vedere gli assassini, i ladri, la miseria ignorante delle streghe tutti esposti nei ceppi tre secoli fa. La domenica gli uffici sono chiusi: mi piace camminare in questo deserto gigante di pietre, colonne, vicoli tra le banche serrate. Non come a Leicester Square con l’irritazione crescente per i turisti che non sanno mai dove attraversare; sulle scale mobili non stanno sulla destra, discutono allegramente tra di loro, collezionando sfilze di accidenti mentali da chi si affretta nel sottosuolo, per i treni. Poi a volte mi lascio trasportare negli snodi riprodotti, moltiplicati delle strade e della metropolitana – non c’è un altro mondo di paesi e natura, Londra lo divora, ci si inventa sopra. Un treno si blocca per l’uragano, i cavi elettrici sbattuti sui binari, e devo camminare fino alla stazione di Totteridge, all’estremo nord. Ci sono colline brune e foreste, che svettano sulle case a schiera. Mi fermo in un bar minuscolo, ad ordinare una delle terribili cioccolate inglesi, con troppo poco cacao in una tazza enorme. Penso che comunque la solitudine è anche bella, non devo rendere conto a qualcuno, posso restare lì, semplicemente a osservare le cose, lasciare che la loro storia ignota sia la mia. Le mie giornate sono questo scoprire e chiedere del passato. Uno strascico vago, persistente di informazioni, di fili che si raggiungono nella rete del paesaggio, quasi che niente avesse mai significato di per sé, isolato nell’attimo in cui accade. Incontro di nuovo gli eventi trascorsi, brillano in frammenti estranei, come la neve di Joyce sui vivi e sui morti, smantellano l’inganno degli anni, del loro spostamento.

Per tutti questi anni ho derubato la vita. Ho incanalato ogni immagine in me stessa con punti di sutura, frasi mandate a memoria, spillate sui buchi di futuro. Mi sono contaminata – una rocambolesca imitazione di tutto, un assemblaggio che cigola e inciampa per tenersi insieme. Il mio sangue è una colla spalmata, penetrata su tutto ciò a cui mi accorgo di assomigliare. E poi non assomiglio a niente, mi stanco perfino di ciò che difendo come necessario – mi stancano lo stesso lavoro e le stesse facce: posso resistere mesi finché non ho voglia soltanto di starmene senza far nulla, con l’erba nella bocca a guardarmi gli alberi o sulla sabbia in un paese qualsiasi dove finisce l’occidente, non c’è più nessuno. Per alcuni, come scriveva Chatwin, l’irrequietezza è un destino.
Non la si vive la vita, la si sottrae e a nostra volta si è sottratti – siamo un fuoco dentro un vaso d’argilla: ogni volta che un pezzo si crepa esplodiamo più violenti, più esposti alle intemperie, al soffio bagnato che c’inghiotte.
Lo sai che mi rinfacciano la spontaneità come un vizio sbagliato; mi chiedono la compostezza, di non lasciarmi aperta agli altri, cosicché si mangino il pane su di me, fatta sostegno disadorno. Io non capisco cosa significa questo darsi ridotti, parcellizzati, imbastire la gravità dei tempi, della delusione sui gesti, quest’arroccarsi nei ruoli, non saper più stare seduti sul suolo, sulla poca stabilità certa. Si è comunque una polvere condensata nel desiderio e poi restituita, mischiata ad altra polvere battuta e ruotata più veloce nelle suole. Mi si rimprovera di non soffrire abbastanza, di non serbare troppo a lungo un rancore, nonostante la rabbia, ma la rabbia vera non si esibisce, nella rabbia vera si sta dentro, con l’infinita tenerezza della sconfitta, dell’amore che arriva sempre tardi, che tardi quando è concluso, una foglia secca, smangiata al centro, si fa conoscere, comprendere.
Sono nata nel giorno della conversione di San Paolo e questo vorrà dire qualcosa. La stampa su carta del quadro di Caravaggio la tengo sul muro, accanto al letto. Nella prima versione, invisibile allo spettatore, Paolo reclina il capo all’esterno, fuori dalla tela mostrando tutto il suo terrore. Caravaggio dovette coprire lo scandalo della rivelazione, della luce – addolcire il viso, dipingerlo quasi dentro un sogno. Ma è vero – la luce è terribile. È terribile avvertire con ogni fibra e centimetro di pelle tutto lo stordimento del dolore e della resa, come una mano enorme che ti scaglia sul suolo, ti tiene, così solamente ti sostiene. È terribile allargare le braccia, dire sì, riuscire a vedere, quando l’oggetto è ormai distante, sfolgora nella sua perdita. La mancanza diventa interezza – ci schianta e ci entra nelle ossa, col vigore di un corpo mai avvertito così tenace e forte. Ciò che è morto soltanto sa vivere nelle parole. Paolo accetta e crede e inizia a ripetere la voce del suo dio, dell’amico magnifico sulla via di Damasco: lo riconosce, lo diffonde come i pezzi più concreti di se stesso, ma gli è negato toccarlo, mettere, come Tommaso, le dita nelle piaghe e nel sangue – gli è negato l’abbraccio. Deve costringere tutta la luce in se stesso. Nella sua gioia è disarcionato, solo.

II

E’ mattina. Fuori dal grande magazzino hanno lasciato il corpo di una volpe investita da un auto nella notte. E’ intatta: gli occhi sono chiusi. Il pelo rossiccio trattiene l’umidità dell’alba, come un cucciolo lavato lungamente dalla madre. La volpe è l’animale timido e saggio del Piccolo Principe che chiede di essere addomesticata per poter conoscere poi la perfetta nostalgia, guardando il colore del grano maturo, che è lo stesso dei capelli del bambino. La volpe è disposta ad aspettare ogni giorno, un passo dopo l’altro vincere la sua paura, e tutto questo per il colore di un’assenza. Mi rivedo a sei anni, con la mia ostinazione per l’uccellino morto, trovato tra le zampe del gatto. La gola minuscola recisa dall’artiglio, incrostata di sangue, moscerini, umori. L’occhio assurdamente aperto davanti a me. “Se l’occhio è aperto, forse è ancora vivo”, mi ripetevo e stavo lì, a smorire nelle voci sbiadite, mentre i bambini tornavano a casa per la cena, correvano sulle biciclette – il corpo infantile atrofizzato, irrespirabile, aguzzo sul cemento del marciapiede, io stavo lì, conficcata, con gli occhi ipnotizzati nella pupilla vitrea, nera. L’esistenza continua senza pudore, ci marcia addosso, marcia addosso ai nostri morti chiunque essi siano – sono morti dovuti, se ne nutre. Vorrei toccare la volpe. Vorrei prenderla, se non fosse che è così perfetta, che non la voglio spezzare. Poi verrà la pioggia a scomporla, renderla fluida, come una tela che scolora, una cattedrale di Monet. Perderà odore e consistenza lentamente nella terra. Se questa è una forma del dolore è anche la sua gratuita, totale inappartenenza, l’oblio.

III

Ogni tanto ritorna il settembre dei miei diciotto anni. Presi tutte le pillole. Era stata una giornata normale, quasi felice. A casa la sera, tra le mattonelle rosa del bagno, avevo semplicemente aperto l’armadietto delle medicine, preso una manciata di scatole, di quelle che usavo da bambina per fare i mobili ai pupazzi, e svuotatone il contenuto in gola, con calma, con diversi bicchieri d’acqua. Davanti a me nello specchio non c’era nessuna smorfia di pena o di soddisfazione. Volevo solo che dentro qualcosa smettesse di crescermi come una melma straripante e densa. Volevo solo non sentire più quel male sordo, senza lacrime: dormire, sognare un’altra vita, raggiungerla. Non ha importanza che fosse la fine di una storia, di quelle che si costruiscono più nelle fiabe che nella realtà, dove l’altro è solo lo strumento della propria idea romantica covata per tutta l’infanzia nei libri, nelle pagine dei diari. Qualcuno diverso che finalmente comprenda la nostra diversità. Un volto, un nome, la stretta dei baci, la pelle cavata via nel sesso – erano solo i residui solidi con cui stipare le tasche e affondare. Il mondo mi commuoveva troppo, era insopportabile come l’invisibilità del mio camminarci dentro, l’incanto spezzato degli anni in cui bastava rifugiarmi sotto il letto e pensare, pregare Dio, essere buona, perché mi tornasse un senso pieno delle cose, perché agli altri io fossi magicamente un senso.
Più tardi la sera, crollai nel prato, in una valle d’eco, senza controllo sulle mie ginocchia e incapace di chiamare mia madre. Non sapevo più la forma delle parole, i suoni come cigni dai colli piegati bizzarramente, sventrati. Una marmellata insipida di consonanti e sputo. Quando arrivai al pronto soccorso ero una corrente prosciugata, mi sentivo sempre meno solida fino ad un no, non ora ripetuto con la forza incrollabile di una voce interna, mia, che mi reclamava. Onde convulse, timide di respiro mi tornavano nel petto. La mattina sveglia nel letto d’ospedale ero dentro questa cappa grigia, una sorta di alba prolungata che non sfociava nel giorno. Non sapevo più cosa dovevo pretendere – se la sera prima tutto ciò che riuscivo a riassumere erano le parole “andare via”, ora mi trovavo in una penombra asettica, infinita, una monotonia senza oggetti né possibilità di desiderio e neppure la consolatoria capacità di arrendermi. Pensavo a restare distesa con le palpebre serrate, perché il bianco degli occhi si vaporizzasse e non vedessi più. Ero tutte le cose che stanno dentro il corpo, d’improvviso piene di rumore, pesantissime. Avevo le braccia indolenzite, le narici scorticate dal tubicino della lavanda gastrica, inserito in malo modo, di fretta nella notte – l’ago della flebo conficcato nel dorso della mano a ricordarmi il passaggio di un tempo attraverso di me. La pelle gialla come una busta vecchia di camomilla, un involucro inumano, aderente alla mia assenza. Ero schiacciata nel letto con un certo isterico orgoglio per la crosta di sangue sotto il naso a rivendicare un gesto nel vuoto. Mi crescevano sopra le lenzuola e l’aria dalle finestre, come in una poesia di Sylvia Plath, Tulips, ma non c’erano fiori, né fotografie, né il rosso accecante dell’ebbrezza e della salute – solo l’odore di varechina, il verde slavato dei muri, il pavimento acquatico di straccio e catino, un bisogno incomprensibile di pulizia. Mi giudicavano? Le infermiere, i dottori, gli altri pazienti. Non riesco a ricordare un volto. Mi mandarono a colloquio con uno psicologo pieno di riccioli grigi, una formalità dell’ospedale – ci andai annoiata, rispondendo vaga e strafottente. Neppure lo psicologo aveva questa gran voglia di dialogare. È successo anche a te? So già la risposta. Due anni dopo ti legarono nel letto. I polsi tagliati chiuso nel bagno. Come nell’illustrazione, l’ultima, de Il Corvo di O’Barr, gli avambracci esposti nudi, il sangue a grumi che cola dagli squarci. Le ferite stanno dentro, cucite e appuntite l’una sull’altra, e la gente non aguzza gli occhi per vederle – avresti detto. Poi qualcuno tira via il filo spenzolante e si lascia fuoriuscire.

Avevi questa predilezione per le armi bianche, la purezza dell’acciaio. Collezionavi spade: alcune te le riportava tuo padre dalla Spagna – una, dicevi, era una riproduzione di Excalibur o almeno Excalibur era il suo nome. La prima volta che venisti a casa mia eri un quindicenne strampalato, i capelli neri fin quasi sugli occhi, ti andavi a scovare le persone in cui vedevi qualcosa, un tormento, una singolarità, una disposizione all’ascolto o una qualche tua idea di bellezza. Ti presentavi alla loro porta senza invito, inchiodandole per ore con le tue domande e le tue confessioni. “Questo è un pazzo”, pensai. Mi spiegavi la tua teoria della vita come continua ricerca di una strada, d’invisibili maestri di discipline interiori, che permettessero di agire e difendere come un cavaliere con la spada in un libro fantastico. Per te non erano fantasie: cercavi l’assolutezza, quasi che ai sentimenti dovessero corrispondere corpi ed esistenze piene. Ti appassionavi e ti plasmavi nel fuoco di ogni persona scelta, gettando via tutto quello che ti appariva superfluo, per un frammento di verità e coesione: il mondo avrebbe dovuto risponderti a causa della forza che mettevi nel tuo credere. Forse questo pensavi. Non ti importava della derisione e del fascino che suscitavi a fasi alterne nei tuoi coetanei, restavi sul piano della caparbia idealizzazione, ti ricreavi nel protagonista di una storia colma di colpi di scena. Cos’era per te l’amore? Essere dentro le cose, totale, restare integro. Restare integri e all’unisono: uno scavare a fondo della sete, per riportare il grezzo del cuore in superficie, trovare risarcimento e casa nell’altro.
Spesso condividevamo una stralunata alienazione, uno spaccatura di intolleranza così tipica dell’essere giovani, ma più profonda in noi – tu dicevi che io ero di vetro, io mancavo di cogliere quanto tu fossi andato ben più lontano. Una sera del tardo autunno nel negozio di giocattoli di legno trovai una casetta che stava in una palmo, con le finestre e la porta disegnate in bianco: al suo interno c’erano i tre personaggi di una famiglia ed un abete in miniatura. Ti dissi che era tutto ciò che serviva: una casa molto piccola dove potersi nascondere, con il tetto pieno di neve, la luce bassa dell’inverno, circondati da quello che si ama. Fu il tuo regalo di Natale per me, il più importante nella serie dei miei oggetti infantili, scrigni di significati e segreti. Fuori pioveva. Ti piaceva la pioggia. Ti piaceva camminarci dentro, finché il battito dell’acqua (le nuvole sfatte sull’impermeabile e tra le dita), diventava l’unico suono, una distanza tra te ed il mondo. E ancora succede anche a me, di guardare le gocce sui vetri quando mi sembra insostenibile l’esistere, e sospettare che qualcosa altrove mi vuole bene, se lascia che l’acqua sia un silenzio, un riparo dallo sbaglio in cui cado, quando devo reimmergermi negli altri.

Ti ricordi la gatta, Milù? Era luglio, quando la portasti a casa mia, aveva appena un mese, nera, come l’altra gatta, Amy, che avevamo trovato morta nel prato il giorno prima. Tu non ti eri fermato a riflettere, avevi passato la mattina a cercare figliate di gatti, dove possibilmente ce ne fosse una femmina e nera, abbastanza buffa, le orecchie sproporzionate, grandi da cucciolo, per intenerirmi. Mia madre non ne voleva sapere. In questa casa ci sono sempre stati gatti, padroni assoluti delle scale, delle stanze e del giardino, ma il vedersene una così uguale a quella appena perduta e all’improvviso, faceva tanto male quanto bene. Non so nemmeno perché non ti dissi di no, di riportarla dalla vecchia signora dove l’avevi presa, che qualcuno ne avrebbe senz’altro avuto cura meglio di noi. Era una vita così piccola – ed io mi chiedevo come può un corpo raggelarsi tanto in fretta e duro come una scorza ferrata sotto il pelo, anche nella solarità ad onde regolari, i polmoni gonfi dell’umido e dell’afa, nell’estate. Ma poi c’era questa certezza atroce della gioia, che lei ferisce esattamente dove s’impianta e arrampica, perché ha la stessa impronta della sofferenza ed è più cruda e ostinata della rabbia. Esattamente come in quella poesia di Vittorio Sereni, Appuntamento ad ora insolita, dove il poeta dice che non è affatto rara la gioia, “la si porta come una ferita” o come un coraggio, una tregua esposta su tutto ciò che ha fine. L’amore fa male aprendoci: dove siamo oltraggiati dalla perdita si allarga il posto per una creatura nuova. La gattina nera era il tuo regalo, la mia creatura da accudire. E cosa sappiamo poi dell’amore delle bestie? Quando tornai dall’ospedale, era la gatta a vegliare su di me. A seguirmi, a tenermi d’occhio. Non rientrava in casa se io mancavo. Non mangiava se non ero io a riempire la vaschetta del cibo. Senza il fardello delle parole, la gatta sedeva sul pavimento, fissandomi: era una dignità, il piccolo del mondo fuori da me stessa, riconquistato un pezzetto alla volta.
La gatta Milù se ne è andata, anni fa, per una malattia ai reni, strascicava le anche per le stanze, non riusciva più a nutrirsi, finché non c’era che un atto di pietà per chi non chiede, l’iniezione del veterinario in un pomeriggio di gennaio. È strano decidere la morte, anche se lei è così netta allo sguardo, vicina. Dall’auto, riportando il corpicino a casa, le insegne dei negozi, i lampioncini del ristorante cinese, i fari, sfocavano gli edifici, ricreavano una città liquida, che cola asfissiante nei pori, e tutt’attorno solo cerchi luminescenti e muti restano reali.

La gatta è sepolta nel prato, sotto il vaso della pianta di limone, nel cimitero degli animali.
Era caduta nella buca come un sacco, svuotato dell’umore e dell’aria.
Tu, sono dieci anni che sei morto.

IV

Il giorno in cui sei morto non ho sentito niente, mi sono accorta di quanto sia vuota l’idea di ciò che chiamiamo anima, come si è soprattutto pelle e pesantezza sorda sulle ossa. Il giorno in cui sei morto io sapevo che non era successo nulla di straordinario, non avevi sconvolto nessun copione, lo avevi piuttosto seguito alla lettera, era tutto perfettamente normale. Il giorno in cui sei morto io ero viva e fredda con un viso inutile su cui imprimere la costernazione allo specchio. Il giorno in cui sei morto, avvertivo soprattutto fastidio per questa tua morte avvenuta nell’eccitamento, nello scoperchiamento dell’estate. Il giorno in cui sei morto non ti sopportavo e la cosa più terribile era proprio questa: non poterti dire quanto eri irrimediabilmente insopportabile.
Ero come i manichini nei dipinti di De Chirico circondati da una luminosità impossibile, priva di sorgente; sospesi in piazze deserte d’angoscia per una folla che dovrebbe arrivare come un maremoto; costretti ad impersonare sulle facce di lampadina guasta, di palloncino saturo, le cose che nemmeno riescono a vedere.

Alle sei di mattina del quindici luglio, squillò il telefono: io avevo dormito male, passando rapidamente da un sogno confuso all’altro – mi alzai per rispondere senza la capacità di riflettere sulla stranezza dell’ora o sul mio poco sonno. All’altro capo c’era tuo padre, con la voce vaga, spezzata, chiese di parlare con mia madre. Non capii subito. Chiamai mia madre e mi misi a sedere sulla poltrona, le gambe ciondolanti dal bracciolo, come facevo da bambina. Se penso a quel momento esatto so che non sono stati più di pochi attimi prima di comprendere che non era di ospedale che mi avrebbe parlato mia madre, riagganciata la cornetta, eppure un flusso di immagini e memoria si espande da tuo padre a te, alla notte trascorsa, al salotto con le persiane chiuse contro il caldo, al nulla completo da dire. Rividi in successione il viaggio a Madrid l’autunno del 1996, io con i capelli molto corti, una giacca verde di pelle acquistata in un negozio dell’usato, ospite nella casa di tuo padre ad Aranguez, stordita per un indefinibile malessere d’amore che tu credevi di curare spedendomi in Spagna, la visita al Prado la testa che mi scoppiava, le lacrime davanti ai quadri di Goya, e poi il lungo ritorno in auto, fermandoci in Catalogna per la notte. Tuo padre che parlava costantemente di te, di quanto tu fossi fuori da ogni schema, di quanto io mi vestissi in modo buffo, di un suo viaggio in Ungheria in case di contadini senza elettricità, dei luoghi della guerra civile, gli anarchici, l’orgoglio di poter credere in un ideale oltre se stessi, il cielo pieno di piombo sull’azzurro, fuori dalla capitale. Rividi te l’anno precedente, steso nel letto, al buio, che non parlavi e guardavi ripetutamente la videocassetta de Il Corvo – lo avevamo visto al cinema assieme quando uscì, ricordi? Puoi ricordare da ovunque ora tu sia? E avevi lasciato la moto allucchettata da qualche parte su per la collina e non avevi nessuna intenzione di salire con me sul mio motorino per andarla a riprendere. Rividi un’altra estate, la Piazza della Sala dove erano rimasti alcuni grandi pannelli bianchi a coprire dei lavori in corso – iniziasti a disegnare ovunque caricature dei tuoi professori con i miei pennarelli: io stavo seduta sul pozzo a guardare, eravamo un gruppo di quattro o cinque ragazzi e ridevamo e non c’era nessuno attorno. Rividi te la settimana prima, con il cranio rasato a zero di fresco, entrare nel pub dove andavamo sempre, inquieto, scattoso, mi riportasti a casa: quando mia madre ti chiese cosa volevi bere, dicesti che eri di fretta, che dovevi andare via. Non esistevi più. Non riesco a ricordare il volto di mia madre quel giorno. La ricordo di spalle, al telefono, nella camicia da notte a fiori. Si venne a sedere accanto a me con incredulità: io chiesi se ti era successo qualcosa, ma la mia voce era staccata dal corpo, ubbidiva ad un suo ruolo imposto, slegato dalla mente e dalle emozioni. Cosa avevi fatto? La sera prima ti eri allontanato da casa in auto verso le colline semideserte, avevi fissato il tubo di scappamento all’interno dell’abitacolo sigillandolo con lo scotch da pacchi, acceso il motore. Il posto dove sei morto, mi hanno detto poi, te lo sognavi da mesi. Ma non ha molta importanza, si pensano e si dicono queste cose per dare senso all’assurdo, al rumore dello sparire. Morire per il monossido di carbonio è quasi senza sofferenza, rapido. Tu dovevi averci riflettuto chiuso nell’auto. C’era una lettera di tuo pugno, scritta prima di collegare il tubo. Se avessi atteso ancora un po’ avresti visto comparire tuo padre, che si era insospettito e aveva tentato di seguirti, arrivando troppo tardi, sfondando con un piede il vetro del finestrino, tirandoti fuori che ti muovevi ancora, con una smorfia esilarata, incosciente, già incapace di riconoscere, di espellere il veleno e respirare. È questo che succede, dunque. Se ti avessi parlato, cercato, se io avessi voluto vedere, se io ti avessi fermato. Nella penombra della stanza il tuo suicidio era ogni cosa scheletrita: la pianta del beniamino plastificata nelle foglie verso il basso, il telo sgualcito sul divano dove l’anno precedente ci eravamo scattati una foto per il tuo compleanno (il tuo compleanno che veniva d’agosto, se solo tu avessi aspettato), il pavimento macchiato di epidermide dove sbattere i piedi, poi stendere le gambe, il busto, l’orecchio piantato sul marmo. Tu eri ovunque e non vivevi, beffardo e irraggiungibile come la noia dell’astro solare, la sua alterigia. Mi vestii per andare a casa tua senza di te. C’erano i tuoi disegni, i due amanti-pipistrello abbracciati l’uno all’altra, i tuoi animali buffi dagli occhi strabuzzati, le spade dentro l’armadio, la poesia per tuo fratello più piccolo dove gli chiedevi di essere ricordato, perché ti accompagnava sempre quest’idea della morte, ti ci cullavi. C’era la gatta che avevi preso al canile, uno straccio rinsecchito di animale, che si era trasformato con le cure di una famiglia, era ingrassata: il pelo folto e lungo di leone domestico. Credo di aver quasi pianto quando ho visto la tua gatta. Tuo fratello aveva raccolto un po’ di cose sul tavolino, i tuoi diari, stampate di fogli. Tra le tue poesie c’era quella sulle patate fritte, scritta con la forma di una patatina infilzata dallo stuzzicadenti, l’unico piatto, dicevi sempre, che tua madre cucinasse alla perfezione, ma anche quello che mangiavamo noi, nei pub, ad ore insolite. Chi non sa niente dei suicidi se li immagina depressi da lungo tempo, lugubri, poco inclini all’euforia, con un’infelicità ostentata e lamentata o un’esagerata timidezza che li ingrigisce sul fondo delle strade. Certo questo non è un ritratto di te – il suicida ha una disperata brama di vivere e un entusiasmo chiuso a cerniera sulla sua fragilità. Avevo nella testa più di tutto parole elementari come strano, impossibile, vuoto. Non era questione di soffrire, ribellarsi – era più che altro un problema di presenza, di concezione del tempo: non potevo distinguere sequenze temporali, sembrava di muoversi in un disegno infantile, senza prospettiva, dove tutto è indistintamente in primo piano. E i sentimenti perdono la loro invisibile consistenza interiore: si formano all’esterno, negli oggetti, sono la vista e il tatto, sembrano non provenire da noi, ma investirci per essere identificati in qualche modo – i mobili, le pareti, le chiavi, il portone che non si chiude troppo bene, questa volta, sul mondo. Così tutto improvvisamente mi colpiva, come attratto dalla mia gravità, ma non riuscivo a percepire le contusioni, i tagli.

V

L’ossessione della morte è l’ossessione del corpo. Quando è buio all’interno, eppure cattura tutta la luce su di sé, gli occhi meravigliati dei vivi, il sospetto abbagliante dell’ossario in emersione. Nella stanza mortuaria ti riaffiorava lentamente un livido sotto l’occhio sinistro, la memoria di un incidente di moto, avvenuto qualche anno prima. Era l’unico segno di attività nella tua persona, l’esalazione dei vasi sanguigni mai completamente riparati, nonostante lo strato chiaro, riformato, di pelle sullo zigomo. Anni dopo trovai alcuni versi che una poetessa veneta, Giovanna Frene, aveva scritto nella fine di quel 1997 – Luce della luce dei corpi senza luce/ luce dell’essere dei corpi senza essere/ essere del tempo dei corpi senza tempo – seppi subito che le parole scontavano un suicidio, la violenza di una verità, più che di un dolore, la perdita quale gesto invece che accadimento. Se tu ci fossi ancora, forse l’avresti copiata da qualche parte, messa in una di quelle buste misteriose dove archiviavi i ritagli di cronaca che parlavano di morti volontarie. Invece sei anche tu poco più di un ritaglio di giornale, la fotografia piccola in bianco e nero, sul quotidiano locale, ogni anno, non destinata ad invecchiare.
Su di una mano c’era appena il segno di un graffio. Eri il punto solido in quel fluttuare di persone e di odori floreali, sudore, aria claustrofobica sui divanetti e le sedie di plastica. Da vivo io non ti toccavo, non ti accarezzavo, mi ritraevo spesso dai tuoi gesti d’affetto. Ora tenevo l’inerzia gelida delle tue mani sotto il mio palmo. L’unica cosa che si poteva fare, che avesse senso, era questo guardarti, salutare i conoscenti e gli amici, automaticamente, a volte con sollievo, ancora guardarti. Perché alla fine ti avrebbero chiuso, sigillato di legno e metallo, saresti sfrigolato nella combustione del fuoco, come avevi chiesto, intero, annullato in sbuffi rossastri, reperto d’ossa frantumate nell’urna.

Dei due giorni della tua morte non so rammentare un sentimento: soltanto azioni e volti e tentativi di nutrirsi all’ora dei pasti, lo scorrere meccanico del quotidiano, oltre te. Le camere del commiato si trovano proprio davanti alla fumetteria dove compravamo le avventure del Sandman, il signore del sogno, il tuo Morfeo scuro e inquieto, allampanato nel trench nero, con gli occhi fondi come due frammenti di spazio interstellare. Non hai fatto in tempo a leggerne la conclusione. Anche Morfeo muore nella storia. Muore la sua dimora crepuscolare, di visioni appassionate e tristi che fanno sperare nella notte per tornare ancora ad una vita preclusa. Il suo regno di malinconia, di languore e di amori infelici, affondati nel desiderio. Ma poiché muoiono i personaggi e non le cose che li animano e fra di tutte il sogno è certo la più duratura, il signore della sabbia rinasce ad altra forma, in un individuo di chiarore e innocenza, questa volta. Per la più strana delle coincidenze aveva il tuo nome, Daniel. Non Morfeo, ma Daniele, salvato dalle fauci dei leoni, colui che si rende a Dio, che da Dio solo è giudicato. Pensai che avrei voluto comunicartelo e non potevo. Sono ancora così tanto impastata di terra, dello spazio angusto e feroce del mondo e degli affetti.

Poi ti chiusero. Prima della messa, di quel dio in cui non credevi, ma a cui ostinatamente chiedevi risposte, vennero a saldarti nella tua fissità, a portarti via, a lasciare che si potesse piangere. Dopo la morte l’assenza. Dopo la decompressione dell’anima, un vagabondaggio brancolante nelle parole.
Il suicida contrariamente all’opinione diffusa, crede moltissimo, crede più di tutto alla salvezza e tenta un dio o l’esistenza, la provoca fino al non ritorno. Il suicida non si tira fuori, sta dentro, impastoiato nella sua esperienza, crede con forza, ma ottusamente, senza sporgere gli occhi ai confini. Come chi ha gli occhi colmati di foglie e non sa tendersi al movimento del cielo o al residuo delle pietre, delle tracce sul terreno impolverato. Allora io provavo rabbia e quasi ti detestavo e sentivo che tu volevi essere salvato, nonostante mi ripetessi quasi per tranquillizzarmi che era un destino segnato, il tuo, data la convivenza intensa col suicidio, che per te equivaleva allo stare sempre al centro di ogni cosa. Ma il convivere con il suicidio, non è detto, porti alla sua scelta.
Scelte, sì. Una scelta è sempre un’esclusione, qualcosa che infine si svincola perfino dagli affetti. Avevi dovuto far tacere gli affetti in te, prima di lanciare la tua moneta. Ci avevi escluso, ricordandoti di noi a posteriori, con non so quale lucida apprensione, spiegando nella tua lettera cosa avremmo dovuto fare del tuo corpo, delle tue cose, delle tue poesie.
Chissà se ci vedevi radunati nella chiesa, se ti pentivi, se eri soddisfatto, se tentavi dalla bolla irreale del tuo essere di toccarci, portarci conforto.
Di tutte le cose che potevo dire, quando io ed altri fummo invitati a parlare, mi urgeva specificare che la tua assenza era un numero di telefono a cui non avrebbe più risposto la tua voce. Che perderti non consisteva soltanto nel non incontrarti più fisicamente, per caso, per appuntamento, per strada, in un bar, sotto casa tua – ma non avere più in alcun modo un segnale da te, nemmeno rarefatto, immaginato dai suoni, dalle sillabe, da scampoli di conversazione a distanza.

Nell’ultima pagina del diario di Cesare Pavese, il 18 agosto, nove giorni prima la data del suo suicidio, il poeta si dibatteva tra la sua decisione e un segno invisibile di pietà, che venisse da un altrove, verso chi con se stesso è implacabile. “Basta un po’ di coraggio”… diceva per darsi determinazione. E poi il compimento del proprio dire – “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più.”. Non scrivere più, non lasciare più segni, una lacerazione che schioda dagli schermi dove stiamo impressi. La vita tutta sospinta in un gesto, la scrittura o l’amore, e nel suo violento scalciare in un altro che ne è l’opposto. Come chi concludendo un’opera, una tela enorme di colori e fatica, non provasse almeno per un attimo l’impulso di squarciarla con una lama e con le dita, scorticare il proprio lavoro, quasi urlando tu non sei me né io te, non c’è misura tangibile che possa contenermi. Io sono niente. Sono un io davanti cui il resto del mondo si stupisce e non afferra.
Era questo? Era questo dimmi, nella volontà di essere arso, ridotto alla cenere svolazzante, alle farfalle tossiche di fumo, all’asfissia dei polmoni e poi delle pupille di chi era costretto ad accompagnarti fino al fuoco? Era questo che ti schiantava dentro e ti spezzava i bracci per farne remi nel forno crematorio?
Un cadavere per consumarsi completamente in circa un’ora necessita di 1300 gradi centigradi. Un’ora di sarcasmo e crudeltà e spossatezza sotto il sole, tra le margherite storte, l’erba, la ghiaia del camposanto. Un’ora in cui ti dissolvevi e prendevi uno spazio nei nostri corpi, sostavi sulle nostre spalle, scendendo per i muscoli, nella residenza del tempo a venire.

VI

Ti sei fatto immagine bidimensionale in una fotografia e ti sei fatto fiume taciturno, resistenza, cosicché non comprendo spesso se sto raccontando di te o di me, noi due ci mescoliamo, il poco della tua esistenza terrena è nutrito da ogni mio dubbio o raggiungimento, tu non ti dilegui, ma scendi nella mia sete. Io non ti posso mai abbandonare. Sei un monologo dialogante in me, che mi fa sopportare un po’ di più, come se avessi due destini paralleli da compiere e non uno, se fossi insieme l’ombra e la chiarezza che ne scaturisce in un abbraccio, una durata certa dell’esistere.
Anche ora che ti scrivo, come se un morto da dieci anni potesse leggere e prendere una penna per rispondermi, o farlo in un segno del tempo, un cambiamento atmosferico, un messaggio notturno bisbigliato in sogno – è a me che scrivo, ti seppellisco e ti chiedo un’altra volta di restare.
Poi più che a te, penso ai simboli – alla volpe appena lasciata, quella morta in Effra Road, e quella fantastica del nostro legame, di tutti i legami, dei nodi che mi arrestano e tengono profondamente, anche se le persone che li hanno stretti se ne sono andate da lungo tempo.

Ho questo ultimo ricordo che ritorna. Non ne abbiamo mai parlato quando vivevi. Era una sera fresca di giugno, non so da dove tornavamo, con la tua moto. Avevi imboccato una strada dietro casa mia, che procede tra abitazioni sempre più rare verso gli uliveti, i prati incolti di fiori selvatici, trifoglio e soffioni, pezzi di bosco, recinti naturali di rovi. C’era questo odore forte d’erba sprigionata, che amavo nella mia infanzia, mi faceva sentire sola e libera. All’improvviso tu rallentasti e iniziarono a scendere le lucciole: una folla intermittente e luminosa che nessuno aveva intenzione di cacciare, chiudere a partorire spiccioli sotto un bicchiere. Così tante e grandi e bianche non credo di averne mai più viste. Ci esplodevano addosso come stelle.

Immagine: Yayoi Kusama Fireflies on Water

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24 Commenti

  1. molto molto bello. la scrittura di francesca matteoni in questo testo emerge con una straordinaria bellezza e forza.
    BRAVISSIMA

    lisa

  2. nel suicidio c’è molta più ironia.
    e se la storia è vera forse non hai neanche il diritto di farne sta specie di biografia di un tubo di silicone ininpistolettato.
    in tutti i suicidi c’è una palude di risate sotto forma di lacrime, sta solo a saperle cogliere.
    se poi ti può consolare, anch’io sono nato nello stesso giorno della porno star più figa del secolo e sono un cesso, ma non ne ho fatto una malattia.

  3. Lo trovo straziante.
    Occhi lucidi e pelle d’oca che non svaniscono, nonostante l’afa di questa irrespirabile e soffocante nottata estiva. Io l’ho letto ad alta voce. Palleggiandomi le singole parole sulla lingua, come fossero caramelle, assaporandole pian piano, scrupolosamente, nel tentativo quasi infantile che non svanissero, che mi regalassero sensazioni epidermiche infinite. Che meraviglia, il gusto amaro della sofferenza, del nostalgico ricordo, la cruenta malinconia di ciò che ora è essenza, informe, anima senza carne.
    Egoismo, egocentrismo? Urla nel vuoto, inascoltate?Difficile giudicare un gesto così drastico. Forse non ha neppure un senso, farlo. Forse va solo rispettato, come scelta, estrema . Anche se la scelta assurda e irreversibile di un tragico momento di (lucida?) follia.
    Di certo non vedo “una palude di risate sotto forma di lacrime”. Un’immagine troppo trash, che non condivido, che quasi “sporca” un racconto e un ricordo dalla purezza disarmanti.
    I miei complimenti a Francesca.

  4. il suicidio è più vita… non direi. e ogni suicidio è cosa a sé, e ogni scrittore ha il diritto di descriverlo come meglio “sente”. tra l’altro, francesca qui parla di un fatto vero, sentito, sofferto personalmente.

  5. a tratti sono stata urtata, quasi irritata, dall’estetizzazione. ma non dentro lo scritto: nel gesto, nella composizione di chi espone il malessere fino al fare quasi vanto, medaglia, senso di maledizione. ho conosciuto il fascino da cui parte: dal corvo a sandman -da ragazzi–e poi su fino alla plath e a pavese – quando s’è più grandi. e allora poi cosa succede, che l’estetizzazione sconfina, travalica, si travasa in un’altra cosa, quando il gesto poi davvero avviene e lascia intorno degli attoniti, impotenti alla parola, stretti in un silenzio che non ha nulla di estetizzante. come la chiusa finale che espone secco e dolente un ricordo così, insieme magico e da niente. vivo, dunque la mia irritazione si trasforma in domanda e alla fine del brano mi sento strana, comunque catturata e volta a pensare a cose a cui si cerca bene o male di sfuggire.
    mi sembra inoltre un po’ presuntuoso credere di poter dire, in un commento, cos’è o cosa non è il suicidio, tirar fuori polemiche sterili da cortiletto, è più interessante parlare di quel che s’è letto no?

  6. Grazie a voi per i commenti, rispondo ad Azzurra perchè penso che tocchi un punto importantissimo, su cui mi sono interrogata molto quando ho deciso di scrivere questo pezzo. Il fascino del tutto estetico del suicidio e il modo in cui alcuni di noi, specialmente da adolescenti, lo subiscono – sapevo di doverlo rendere anche forse sfiorando l’iperletterarietà, non so, così come sapevo di dover andare fino in fondo scrivendo (perchè altrimenti la scrittura non ‘serve’, non apre lo spiraglio tramite cui si respira di nuovo). Usi una parola fondamentale: irritazione. Ti direi che è la stessa che sento io e ho sentito mentre questa cosa nasceva. Fino al tentativo finale di liberazione. Il rischio è sempre quello di cedere ai propri miti, specialmente quando si usa una prima persona, e anche quello di diventare indulgenti con se stessi, cosa che spero di non aver fatto, non solo relativamente al testo. E Il Sandman… so che tu l’avresti capito!

  7. visto? l’ho letto. scusa per prima. ma non ce la faccio. riguardo questo testo, invece. più vita, meno vita, più risate, ironia, etc etc. a me piace la torta sacher, ma non riesco a farla. riesco a fare diversi dolci, ma la sacher, no. posso fare, che so, i bigné. strudel. berlingozzo. per dire. la sacher no. provato diverse volte, ricette diverse. niente. boh. ma, sempre per dire, prendi la ricetta della pasta frolla. la prendi, e cominci a variarla. ci metti il cacao, e diventa pasta frolla al cacao. aggiungi un bianco, togli il burro. metti lo zucchero di canna. o la farina integrale. di solito viene bene. poi ci sono le preferenze. ognuno ha le sue. a chi non piace la farina integrale, ad esempio. o che so, chi la vuole più burrosa che ovosa. tanto per dire. però, beh, si ha il diritto di fare queste cose, se pensiamo che il risultato finale sia migliore. certo, si può dire che la pastafrolla classica sia in un certo modo, e trovarsi d’accordo su quello. ma se è buona quella al cacao, perché non farla?
    non ha senso tutto questo che sto scrivendo, va bene. fa lo stesso.
    io avrei scritto in modo diverso, ma ho vissuto altro. mi piace quello che hai scritto qui, e parla molto della vita, della vita tua, che non è la mia, ma è sempre vita. anche la mia, no?
    sto fingendo di. altrimenti non ce la farei.
    scritto persino troppo.
    occupo spazio. no?

  8. al posto de Il corvo, andammo a vedere Quattro matrimoni e un funerale. dev’essere quella la differenza. Era già pieno, come si chiamava il cinema, uff, lì a Piazza del duomo? era quello, dove c’era Il corvo, no?
    vabbé, andammo di corsa al Lux, per Quattro matrimoni. ora smetto e vado a fare la spesa. ciao.

  9. mi fu censurato un commento. Lo riformulo in intellettualese. Ringrazio il sig. F.Krauspenhaar per avermi dato un avvincente saggio di tolleranza della libertà di espressione dinanzi a ciò che è stato decretato come opera d’arte pubblica.
    Ripeto, se non volete bastian contrari, non lasciate aperti i commenti. E non censurate per così poco. Altrimenti che differenze ci sarebbero?

  10. @ Francesco. Ho cancellato il commento IO. Non so dove questo pezzo sia stato ‘decretato’ opera d’arte, comunque esiste la libertà MIA di cancellare commenti che non mi aggradano. Nello specifico, come puoi vedere, non censuro nessun commento che esprime una opinione per quanto io possa dissentire o trovarla senza fondamento. Invece mi viene proprio una gran voglia di cancellare commenti che cercano senza motivo SOLO la polemica, tra l’altro esulando dal testo, come il tuo nei confronti di Franz Krauspenhaar, che non mi sembrava averti mosso particolari minacce. E questo per la chiarezza. Ogni tuo commento simile verrà nuovamente cancellato. Poi pensala come ti pare.

  11. Chiedo venia.
    Riprendo il mio post “ottimo lo stile, ma il suicidio è altra cosa”.
    I commenti servono per commentare: se F.K. liquida tutto con un “ognuno è libero di fare quel che gli pare” allora non è un tappare la bocca? Se lo scrittore “ha il diritto di descriverlo come meglio sente” anche il lettore gode dello stesso diritto o no?
    Se tu Francesca moderi i post, cancella tutti quelli miei, fammi sta cortesia.
    In fondo non sono un letterato, sono giusto un lettore di passaggio, che ha dedicato un po’ della sua giornata a leggere le tue cose e a lasciare un commento. Non lo faccio più.
    Buona giornata e buona scrittura.

  12. Straziante, un pugno nello stomaco, un dolore fisico. Non ho pensato ad altro per tutto il pomeriggio, lui è saltato fuori dalla pagina com’era, stralunato pazzo e tenero come un cucciolo, buffo allegro disperato come lo ricordo. La sua voce strascicata, la sua scrittura barbara, piena di errori ortografici e dalla sintassi sgangheratissima, che sorprendentemente s’impennava in poesia; la lunga lettera che mi scrisse durante il compito in classe, con la preghiera di non mettere il voto. La colonna sonora di Arancia Meccanica. La spilla a forma di civetta che regalò a mio figlio Enrico, l’ultima volta che lo vidi, pochi giorni prima che tutto succedesse. Ciao Daniele

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francesca matteoni
francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Sono nata nel 1975. Curo laboratori di tarocchi intuitivi e poesia e racconto fiabe. Fra i miei libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Acquabuia (Aragno 2014). Ho pubblicato un romanzo, Tutti gli altri (Tunué, 2014). Come ricercatrice in storia ho pubblicato questi libri: Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014) e, con il professor Owen Davies, Executing Magic in the Modern Era: Criminal Bodies and the Gallows in Popular Medicine (Palgrave, 2017). I miei ultimi libri sono il saggio Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi (effequ, 2019), il testo di poesia Libro di Hor con immagini di Ginevra Ballati (Vydia, 2019), e un mio saggio nel libro La scommessa psichedelica (Quodlibet 2020) a cura di Federico di Vita. Il mio ripostiglio si trova qui: http://orso-polare.blogspot.com/
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