Tre Apocrifi

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di Marco Ercolani

Visione

Inedito di Samuel Beckett, 1 gennaio 1970.

Attraversa il sentiero correndo; si impenna, appare, scompare; è di un bianco lucente, investito dal sole, non ne avevo mai visto uno simile, sebbene avessi sentito parlare di cavalli fin dall’infanzia…
Dovremmo potere. Ma con prudenza, passo dopo passo, rammentando il fango che blocca i muscoli, ricordando la stretta delle corde e il gelo delle sbarre. Un movimento dopo l’altro. Il piede destro sopra un punto, il piede sinistro sopra l’altro punto, curvi, la bocca aperta, gli occhi serrati.
Il cavallo bianco mi impressiona, ma anche le altre cose bianche, le lenzuola, le pareti, i fogli, i fiori, e soprattutto l’idea del bianco, agghiacciante in mezzo alle tenebre, quando io, sveglio, la fronte sudata, come un sudario alzato fra il letto e la porta…
Dovremmo volere. Ma tenendo i piedi sollevati da terra a ogni passo successivo, smettendo di strisciare come siamo abituati. Tastare, sfiorare, osare variazioni anche minime, senza vedere se è buio o luce.
Ci fu un tempo che cercai sollievo sbattendo la testa nel bianco: era il cuscino soffice, la parete dura, i fogli che accartocciavo, le tovaglie che piegavo, i sentieri nevosi, la calce viva, e tutti i fantasmi che, alla notte, con l’arrivo del nero…
Dovremmo sapere. Ma cosa? pensieri, teorie, idee di salvezza? La mente è una scala che gronda acqua, scalino dopo scalino. L’occhio non la trattiene, la osserva marcire nelle pozzanghere, calpestata dai passi imminenti, rinnovata dalla pioggia che cadrà. La lingua ci tiene nelle stanze, nelle poltrone, negli schermi, a rimasticare sillabe.
L’unico vero fantasma è mia madre: lì, bianca, sotto la finestra bianca, agita un fazzoletto, come se dicesse addio. E’ quella che dice addio. Ma non se ne va. Resta la neve. Lei rimane. Forma una rete. La voce, impigliata alla rete, si colma di parole.
Dovremmo capire. Ma non capire spalanca strade, svela grotte, dilata sentieri. E finalmente, respirando, dondolando…
Lasciatemi qui, nel sudore, ghiacciato. C’è di meglio altrove. Impensabile ritrovare il punto bianco perduto nel bianco, vedere chi è fermo al culmine della bufera, incrostato di ghiaccio, a sognare il nero totale.
Dovremmo salire, gradino per gradino, pietra per pietra. Approdare a porti ricchi, isole felici, orme conosciute. Vedere, rivedere, prendere possesso. E respirare, viaggiare, salire. Ma ormai è una questione di nomi: abbiamo dimenticato il nome del mare.
Il ritorno alla quiete è immancabile e banale. Notte e giorno, con temperature diverse, mettono alla prova il mondo. Un poeta disse – quante forche fa? – che la notte è nera e bianca.
Dovremmo scendere, dal caldo al freddo, dal bianco al nero, dalla volta alla cripta, a intervalli regolari, variando la posizione delle mani, la curva della schiena, l’arco delle gambe. Non è difficile. Basta scivolare, come il bimbo ritorna dentro la madre, come la testa si versa nel nero. Ma dopo?
Tutto noto tutto bianco corpo nudo bianco gambe aderenti come cucite. Luce calore suolo bianco un metro quadrato mai visto. Muri bianchi un metro per due soffitto bianco un metro quadrato mai visto. Corpo nudo bianco fisso gambe cucite gli occhi appena.
Dovremmo parlare, ma come? la bocca serve a mangiare, mordere, masticare, e non lascia spazio alla lingua, la lingua non vibra più, è ricacciata giù nel palato, le papille inerti sopra un muscolo dove il cervello non arriva a comporre la voce…
Muri bianchi una traccia un intrico. Segni nella calce grigio pallido quasi bianco.
Dovremmo dipingere. Ghiaccio, naturalmente. Dipingerlo della sostanza della carta. Un bianco di pergamena, di cartone, di riso, di stoffa, e pensare il mondo come qualcosa che lo rende grigio. Un bianco che respira, spazzato via dall’aria, sporcato…
Un senso una natura un tempo quasi mai azzurro e bianco nel vento nel ricordo mai più facce bianche senza tracce una sola linea radiante una linea bianca all’infinito.
Dovremmo scrivere. Cancellare il bianco con segni fitti e continui. Dalla scomparsa del chiaro sotto lo scuro delle frasi nasce un vuoto più reale dell’aria, il grigio sbuca da ogni punto del foglio, da ogni poro della pelle, con incomprensibile ardore…
Nero lento rovina rifugio quattro pareti all’indietro. Bianco e vuoto senza rumore. Bianco. Senza lingua senza voce.
Dovremmo tacere.

***

Segni

Trovati dalla Polizia del V° Arrondissement nelle tasche del suicida Paul Antschel, annegato nelle acque della Senna il 16 aprile 1970, e schedati come Reperto 1 e Reperto 2.

Reperto 1 (scritto a matita su foglio quadrettato, con calligrafia irregolare: alcune lettere sono stinte ma leggibili).

Dagli alberi piantati dal crepuscolo nelle nostre stanze incendiate
libereremo piano i colombi di vetro, fogliame eternamente
frusciante, ci cresceranno sulle spalle e sulle braccia e non ci sarà più vento,
ma uno stagno d’ombre in cui non metti radici,
un lago ghiacciato, dove si disputano la corona di squame gli annegati,
e la vita è la barca a riva, priva di remi.
Una voce verrà dalle fiamme verso di noi per macchiare l’argento di sangue,
annunciando, di nuovo, nell’incendio: Non io, ma solo loro sanno l’ora!
E allora partiranno dal deserto per riversarti la sabbia accanto:
che ci siano anche i monti attorno, che si rimanga nella valle della Tristezza –
e tu libererai piano i colombi di vetro, lentamente, uno alla volta,
e quando scoppieranno nell’aria, parlerai con me senza rendertene conto.

Reperto n. 2 (fotocopia di lettera, in più parti macerata e illeggibile).

45, Rue d’Ulm             Paris, 18 feb(…) 1962

Mio caro Petrica,
da qualche giorno ho scritto ad Alfred Sperber: ti sarei riconoscente se anche tu potessi leggere la lettera indirizzata a Sper(..).
Come ve la passate?
A te e a Yvonne il meglio! (Così come a tutti gli amici).
Una preghiera: dai a C(…) il mio indirizzo. E dille che ti prego di scrivermi una p(…), due o tre parol(…).

Con affetto, Paul Celan.

Non so se vi è perven(…) questa notizia: Lia è annegata nelle acque del Mediterraneo, lontano, quanto più lontano da tutto (…) resta d’indimenticab(…) ma vicino col cuore e al cuore.

***

Così muore mammina

Alcune pagine rifiutate dal romanzo di Louis Wolfson, Mia madre, musicista, è morta…, 1985.

Okay, mia madre muore. Mancano poche ore all’evento. Okay okay. Ma io, cosa devo fare? A cosa devo lavorare? alla sua resurrezione? Se è possibile, combinerò qualcosa in merito. La ricordo bene, al Memorial Hospital, ormai pelle e ossa, la camicia tirata fin sopra il sesso: la chemioterapia ha depilato, con singolare bizzarria, quell’orifizio nero che ora sembra quello di un’adolescente, quel buco d’inferno da cui sono uscito senza averlo chiesto, inaugurando la mia presenza in questo mondo di menzogne e di stupri, da cui si esce solo con i piedi in avanti, pronti per essere atomi scagliati nel vuoto.
Una madre non muore tutti i giorni, come lei centinaia di persone, su tutto il pianeta, nello stesso secondo, cessano di respirare. 407 persone, per essere esatti, su questa Terra idiota, in questo incessante obitorio. Matria mater maticka mutter, non madre: ne sopporto il nome solo in una lingua straniera. È giusto che il male guasti il bacino, scavi le mammelle, deturpi le guance: Rose, mia madre, musicista mediocre, morrà a Manhattan al Memorial Hospital per le metastasi di un mesotelioma nella notte fra martedì e mercoledì di un giorno di metà maggio del millenovecentosettantasette, in una sventurata allitterazione di m, un mmm interminabile come quello che bisbigliai nascendo e cercando il tuo nome, Rose, ma subito mi schiaffeggiarono, mi gettarono sul marmo freddo, mi accecarono con una luce bianca, lasciandomi a strillare con futuri compagni di follia. Cocciuta e instancabile, eroica e feroce, Rose; hai posseduto la casa, coltivando piante e mescolando risotti; hai cucinato e cucito, stirato e lavato senza sosta, nelle domeniche e nei giorni feriali, il sorriso disegnato dai denti duri nella bocca conquistatrice, i due piedi che battono il pavimento della cucina, due zoccoli di ferro; camminavi da padrona nei tuoi latifondi domestici, facevi sentire il tuo passo pesante e immortale, poi ti fermavi a guardare la televisione, le sue radiazioni da cancro, finché aprivi la bocca e russavi. Il sole poteva abbronzare le tue rughe, il freddo costringerti a un maglione in più, ma non c’erano pause nel tuo élan vital. Nei momenti liberi suonavi il pianoforte – musica languida, melodica, romanza da salotto. Una vita inflessibile coltiva sempre sogni deboli e figli debolissimi, dai sogni inflessibili, dalla vita sradicata. Quella vita si espone inerme al giudizio dei servi della chiesa e dello stato, che unanimi gridano allo scandalo. Ma nessuno mi punga più il culo e mi pianti gli elettrodi nella testa. Non sono uno a cui si possa sparare per strada, io sono normale, io gioco alle corse, bevo, gioco, bevo, corro, galoppo – non mi doma, non mi cavalca nessuno – stretto dal morso sbavo sangue, nitrisco…
Ti ho odiato, ma mère, per la tua cocciuta devozione alle regole di Dio e della casa, per la testarda determinazione con cui, piccola Rose, vegliasti i tuoi genitori infermi – puzzavano della loro sporca urina o del sudore delle tue ascelle? – senza spargere una lacrima. Il male ti ammazza con la stessa ostinazione con cui hai cucinato dolci, fritture e ravioli per milioni di ore. E io userò l’energia che ho ereditato da te per sognare l’eutanasia dell’universo: così eviterò il mondo che servivi e disprezzerò ciò che amavi, mandando in frantumi le tue regole di ferro. Io diventerò un pezzo di ferro, una perfetta bomba al napalm, mia cara: basterà un piccolo scatto e la sicura… oplà. Non ce n’è uno al mondo che odia il mondo con più gusto di me, sono un fusto, un bellimbusto, così triste e frusto: cammino per strada con il walkmen fisso alle orecchie, la musica di Tom Waits nei timpani. È un buon veleno, non c’é che dire, Tommy. E salva dal veleno del mondo che ti inquina con la merda dei fenomeni, dei suoni che non puoi evitare e dissodano con colpi di pala il tuo cadavere in permesso di vita.
Tu sai quanto odiavi che io fossi scrittore: e io ho scritto perché odiavo il tuo odio, per essere vivo in uno spazio inaccessibile a te. Il lutto della tua stupida e sterminata energia, Rose, si trasformava in attenzione forsennata e malinconica alla parola. Ho letto e scritto libri, costruendo un bunker a prova di madre. No, non mi farò mai una casa mia: non ti lascerò questa soddisfazione. Non abiterò un posto dove si possa supporre che io diventi madre del mio spazio: occuperò luoghi precari – ponti, bar, baracche, cantine – che mi respingeranno da sé. Anche le case non vogliono paranoici che sognano l’apocalisse. Quando esco, la voce di Tommy nella testa, traverso ponti e strade, non sento nulla. Viaggio murato, come vivo murato nella mia stanza quando leggo, quando scrivo e quando dormo. Il mio unico interesse, mentre guardo quella gente muta che si muove davanti ai miei occhi ignorando di fare da contrappunto a una ballad di Waits, è scoprire i primi segni di corruzione su un volto o su una gamba: la mia prima curiosità è sapere come morrai, se il cancro oggi traverserà i linfonodi dell’ascella o se una nuova emorragia farà uscire il sangue dall’ombelico.
Non parlo, non avrebbe senso. La mia bocca è cucita. Il mio orecchio, invece, sente quello che vuole. Ma neppure per un istante posso udire la tua lingua: è altro quello che devo sentire: sono blues e ballads, deformate dalla voce di Tom; blues, ballads, rock songs, con cui posso camminare a occhi aperti nel mondo, senza paura, perché non sento più la lingua confusa della babele del mondo, la tua inutile lingua sterminatrice – fatta di pareti e piante, tagliatelle e crostate, abiti e pantofole. Non posso tollerare che noi possediamo una lingua comune, e che la tua edifichi strutture banali di conservazione della specie – vangelo domestico, torta alla fragola, matrimonio felice. Per questo mi muro vivo: oggi è certo l’anniversario di qualche massacro. Con la musica che mi protegge le orecchie, giro la città rumorosa e silenziosissima, senza voci umane. E, quando torno da te, mi rintano nel mio cantuccio: è un luogo pulito e proibito, lo specchio rovesciato dell’atelier polveroso di un pittore sperduto. Un cubo di libri allineati dietro una bacheca di vetro. Tu non li puoi toccare, non devi, Rose. Tu stai morendo nell’altra stanza – tu, povera pianista di banali canzoni da melodrama. E, anche se lo volessi, non potresti. Tutto è pulito, spolverato, perfetto. Non c’è bisogno di te. Non devo neppure chiudere a chiave la porta. Qui c’è un ordine metodico, paranoico, parodico. I miei libri fanno a meno di te: tutti vicini all’altro, diritti e tranquilli, senza un filo di polvere, come se non fossero mai stati letti. Eppure leggo sempre, anche quando nessun libro viene aperto, Waits mi urla nelle orecchie e io non sento le tue vere urla, nella stanza accanto – urla da mesotelioma, piccoli rantoli, il prossimo ricovero, la morfina che verrà.
Un incubo mi perseguita dall’infanzia: ho davanti agli occhi un testo che non posso decifrare, è fatto di poche e insignificanti briciole, è scritto in una lingua straniera; io faccio come se leggessi, sento la tua voce chiamarmi ma non rispondo, mi immergo nel libro, non capisco più nulla, le parole si confondono le une alle altre come in una macchia nerastra, e io apro gli occhi ma non riesco a svegliarmi, non so se sto sognando, so che ho le dita nere d’inchiostro, che sono tutto nero d’inchiostro, come se mi avessero fatto un bagno in tutte le parole rimestate e vomitate dal pianeta, e qualcuno mi bisbiglia: «È opera di tua madre». Ma io, intanto, moltiplico gli arsenali, accumulo le bombe, faccio bene i calcoli: sono solo io il non-uomo che gestirà la piccola apocalisse di questa misera Terra che comunque, fra cinque milioni di anni, con il Sole bruciato, non esisterà più. Sono qui e metto punto fermo al pianeta infernale. Non faccio risorgere nessuno, anzi, se potessi evacuare dalle città tutti quegli stupidi milioni di viventi!
Tumori! Tumori! Oh tu che muori! Ma forse, prima di guardare con occhi piccolissimi i piccoli insetti che tirano le cuoia nelle case e negli ospedali, bisogna guarire i cancri degli astri. Come si fa? Si tirano giù le stelle, si fanno tagli nelle comete lucenti, si suturano antichi splendori? No, mammina, non temere. Non finirò internato. Sarebbe facile, ma non accadrà. In fondo, io vivo con l’inatteso salario della schizofrenia: e, appena tu non abiterai più questo pianeta, io mi giocherò 386 dollari e 4 cents su House Call, alla prima corsa.
Un’ultima cosa, Rose: perché sei stata così scema? perché non hai gridato, mangiato e bevuto da scoppiare? perché, invece di farti curare da quegli stronzi dell’ospedale, non ti sei messa a correre nei campi, liberando il tuo corpo da quelle cellule deformi, come ci si scrolla da dosso un manto di diaboliche lucciole? Anche tu, come tutti i viventi, sei incapace di capire il messaggio più elementare. Non c’è più né lutto né pianto né dolore: se lo vogliamo, ma bisogna volerlo all’unisono, con un unico grido, la morte smette di uccidere.

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Altri testi di Marco Ercolani si possono leggere qui.

Marco Ercolani è nato a Genova nel 1954, dove vive e lavora come psichiatra. Scrive racconti fantastici e vite immaginarie e indaga il rapporto arte/follia. Tra i suoi libri di narrativa: Col favore delle tenebre (Coliseum, 1987), Vite dettate (Liber, 1994), Lezioni di eresia (Graphos, 1996), Sindarusa (Tabula fati, 1997), Il mese dopo l’ultimo (Graphos, 1999) Carte false (Hestia, 1999), Il demone accanto (L’Obliquo, 2002), Taala (Greco & Greco, 2004), Il tempo di Perseo (Joker, 2004) e Discorso contro la morte (ivi, 2008). È autore di due volumi di critica poetica Fuoricanto (Campanotto, 2000) e Vertigine e misura (La vita felice, 2008). Ha curato il volume collettivo Tra follia e salute: l’arte come evento (Graphos, 2002) e il convegno L’arte della follia (Genova, Biblioteca Berio, 2004.) Suoi testi sono pubblicati in Riga, Poesia, Il gallo silvestre, Ipsofacto, Nuova Corrente, Anterem, La clessidra, Nuova Prosa, La mosca di Milano, Ciminiera. È stato redattore di Fanes, rivista di cultura psicoanalitica, e di Arca. Quaderni di scrittura. Con Luisella Carretta ha ideato la collezione di arte e scrittura Scriptions. In coppia con Lucetta Frisa ha scritto L’atelier e altri racconti (Pirella, 1987), Nodi del cuore (Greco & Greco, 2000) e Anime strane (ivi, 2006) e dirige per le edizioni Joker «I libri dell’Arca».

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7 Commenti

  1. Grande assenza, grande presenza. Dovremmo tacere. E non si può.
    Condannati a lanciare segnali per non si sa cosa e non si sa a chi.

  2. gentili massimo & ferdinando, è, questo, il meglio che riuscite a cavare dalla lettura di questo post? allora siete a posto, i requisiti ci sono tutti: allo zelig cercano una nuova coppia comica

  3. @ M. Orfeo

    Gentile signore, il mio commento era serissimo.
    Se lei non riesce a capirlo me ne dolgo assai, ma di codeste cose, purtroppo, è fatta la nostra vita mortale.

  4. mi stupisce molto che su uno dei blog più seri e qualificati del web appaiano dei commenti di questo genere che non riguardano affatto i testi qui presentati meritevoli, a mio personale avviso, di una certa attenzione…
    Vi inviterei caldamente a leggerli e a commentarli, ne vale la pena.

    lucetta frisa

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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