Natale con bambino

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di Helena Janeczek

Sta per arrivare il Natale, il Santo Natale, e Gilda è nervosa più del solito: ferma in macchina allo svincolo dell’autostrada mentre cerca di uscire da Milano, ferma con davanti un cartello che sovrasta i cavalcavia, un rettangolo gigantesco che dice “Aiutare chi è rimasto indietro”. Gilda, oltre ad essere rimasta indietro nell’ingorgo prenatalizio, lo era anche rispetto a quei cartelli che nei mesi dei suoi piccoli spostamenti con carrozzina per il centro di Gallarate non ha visto sorgere e ora vede spuntare dappertutto. Certo, li conosceva. Però ne conosceva soprattutto le parodie, quelle tipo “Meno tasse per Totti” che Bruno trova e stampa in ufficio e poi si porta a casa per farsi perdonare i suoi rientri a sera tardi. Questa conoscenza secondaria l’ha ingannata. Perché adesso l’uomo dalla faccia ritoccata che affianca le sue promesse letteralmente campate in aria, le si rivela nella sua doppia natura che è ridicola e minacciosa. Non da una parte una e dall’altra l’altra, nemmeno un po’ e un po’, ma precisamente: minacciosa perché ridicola. Questo è quanto Gilda Macchi avverte in questo istante, in coda sotto l’ombra del cartello elettorale all’altezza dell’uscita di Viale Certosa. Questo è quanto Gilda Macchi non si direbbe mai, perché Gilda e quelli come Gilda sono abituati a separare il ridicolo dal pericoloso, perché quelli come Gilda si riconoscono in una parte- per giunta minoritaria in tutto il Nord -che ha da sempre riconosciuto e sprezzato il guitto, l’istrione, l’imbonitore ciarlatano e che individua il pericolo nell’altra parte, nel popolo furbo e fesso, cinico e mammone che invece vuole farsi abbindolare. “Vuole farsi”: è questo il paradosso in cui Gilda ora inciampa istintivamente, costretta ad avvicinarsi con scarti di pochi metri al punto in cui avrà oltrepassato il candidato premier. Stavolta- avverte- nessuno ci crederà più seriamente, né all’immagine consumata quanto quella dei vecchi eterni conduttori tv ai quali rassomiglia, o visto che siamo in clima, ai Babbi Natale della pubblicità, né ai doni che porta, anche se forse non sarà un caso che dia inizio alla sua campagna proprio adesso, sotto Natale. Però lo voteranno, lo eleggeranno per uno stanco assenso a chi la spara grossa, per cortocircuito fra cinismo, furbizia e fesseria, cosa che forse, sotto sotto, vuol dire: per disperazione. Per una remissiva, inconsapevole, finta allegra disperazione italiana, atteggiamento non molto dissimile dal fatalismo meccanico con cui i piedi alternano freno e acceleratore come se fossero una funzione a parte dell’organismo e come se le code in macchina fossero un male naturale.
Forse per questo Gilda ora comincia a non poterne più, Gilda è nervosa più del solito e non ne ha ragione, perché è stata lei ad aver deciso di venire a Milano per fare acquisti e auguri portandosi dietro Piero: Pierino che nonostante le frenate sempre un po’ meno dolci del dovuto, adesso fa il riposino del pomeriggio all’ombra di Berlusconi. E’ andato tutto bene, più che bene. Il piccolo ha potuto lasciarlo in piazzale Loreto, il piccolo che era sempre stato fin troppo bravo, fin troppo facile, ora che secondo i manuali di puericultura dovrebbe entrare nella fase “paura degli estranei”, lo è ancor di più: dopo dieci minuti in braccio alla zia mai vista prima che gli faceva “bu, bu sèttete”, emetteva versi di delizia tali da richiamare per gelosia anche lo zio Aurelio. Mentre lo zio se lo portava via sul divano per contenderlo con “salta, salta cavalluccio” e sua moglie si precipitava a riesumare giochini e carillon, Gilda, dopo essere rimasta un po’ a guardarli con un sorriso e già addosso il cappotto buono, si diede uno strappo e si precipitò giù in Corso Buenos Aires. A fare shopping: termine odiato del quale ora faceva una parola d’ordine aderendovi con fredda e militante frenesia. Attraversando il sottopassaggio di Loreto aveva messo a punto un piano. Arrivare in Piazza Lima e possibilmente non andare oltre, in Piazza Lima dove poter liquidare un certo numero di vecchie zie e altro parentame di second’ordine, altre persone cui bisognava fare il regalo, ma non si sapeva mai cosa regalare o si sapeva che una cosa valeva l’altra, ossia che niente potrà mai essere realmente desiderato, poterle sbolognare in buona coscienza con offerte di cioccolato, tè, caffè, miele e zucchero di canna del commercio equo e solidale. Prima però fermarsi da “Immaginarium”, filiale di una catena arrivata da poco dalla Spagna che a detta di non ricordava chi avrebbe prezzi migliori per giocattoli educativi simili a quelli della lontana e affollatissima “Città del Sole”; poi in Piazza Argentina da “Giacomelli Sport” a cercare una giaccavento leggera in Goretex per Bruno quando va a fare alpinismo. E sperare che strada facendo saltino fuori le Doc Martens assenti nei negozi gallaratesi che, specchio dei gusti della maggioranza, non contemplano adolescenti infagottate dentro jeans più larghi di tre taglie e pure in estate anfibi.
Dopo un’ ora e mezza, Gilda si trova circondata dai sacchetti ad aspettare il metrò che in una fermata riporti lei e il suo bottino a Piazzale Loreto. E’ andata bene, più che bene. Ha trovato tutto e anche di più: una sciarpa tessuta a mano in Guatemala o in Honduras come sorpresa per Francesca; un tappetino musicale che suona se lo calpesti per quando il piccolo si metterà a gattonare e camminare; sei volte lo stesso bruco verde e arancione, un sonaglio di stoffa come pensiero per i bambini più o meno dell’età di Piero: la nipotina di Luciana, il figlio del dentista Colombo che è cliente di Bruno e l’aveva invitato in barca l’estate scorsa, uno per sua cugina, due di scorta e anche un piccolo gesto per Sabrina che ha incontrato di recente al supermercato trovandola incazzata quanto lei per l’esito definitivo delle elezioni americane, quella conta all’ultimo voto in Florida che puzza di brogli, e il fatto che la pensasse uguale quella ragazza venuta da lontano e ritrovata in mezzo ai banchi della frutta e verdura, l’aveva confortata.
Faceva caldo sotto il metrò o era la sensazione di accerchiamento da borse e persone che riempivano la banchina. Gilda ebbe un primo smottamento, nessuna voglia di arraffare i suoi acquisti e buttarsi nel vagone quando sarebbe arrivato. Tutta quella fretta e soprattutto furia era stata una forzatura della sua indole, ma al tempo stesso, ora, in quel breve spazio di tempo che la restituiva all’inattività, la assaliva l’inquietudine di essere stata via già troppo, l’ansia di tornare da suo figlio. Sottoterra il cellulare non prendeva. “Ho fatto lo shopping di sinistra” fu la frase che l’attraversò, mentre per abitudine e perché non si sa mai, teneva d’occhio i sacchetti. Le sembrava una tale assurdità, una tale contraddizione. Mollare un bambino di sei mesi per accaparrare i regali di Natale destinati in gran parte a chi non ne ha bisogno e di chi non ti importa niente, fare questa cosa che pare un dovere, anzi lo è, un dovere che si mangia tutto l’amore e il piacere del gesto di donare, persino nei confronti di coloro a cui il regalo lo faresti per amore e con piacere, e oscura per sempre il fatto che Natale lo si festeggia, perché qualcuno è nato. Lo oscura a tal punto che Gilda si rese conto di pensarci per la prima volta: perché aveva un bambino che non sapeva ancora camminare né parlare, perché salendo nel vagone della metropolitana aveva afferrato le buste dello shopping natalizio al posto suo. Se Piero avesse pianto per cercarla e zia Silvia, anziché chiamarla, avesse cercato di confortarlo lei? Sarà successo in quell’ora e mezza passata come niente, la prima volta che si separava da suo figlio.
Uno zingaro grattava sul violino il solito “Danubio Blu”, tempi sbagliati ma col amplificatore, per fargli raccogliere l’elemosina tutti dovettero spostarsi, il metrò era più pieno del solito verso quell’ora, qualcuno barcollò indietro investendo un sacchetto dell’”Altromercato” che Gilda non aveva fatto in tempo a sollevare, uscita dalla metropolitana, nel sottopassaggio della stazione di Loreto, penetrava da sopra, da fuori, il suono delle zampogne,“Tu scendi dalle stelle o re del cielo”, incanalato nelle scale aumentava, era un suono violento, insopportabile sotto terra, quasi toglieva l’aria, “che nasci in una grotta al freddo al gelo”, un suono da grotta, pagano- il Natale era un Carnevale, forse lo era sempre stato, al diavolo il Natale.
Ma Piero, no, non aveva pianto. Aveva mangiato la pera omogeneizzata e succhiato un pezzo di pane e ora si sbafava, senza far storie, il contenuto del vasetto di pasta, pollo e verdure “Migros” che Gilda aveva fatta comprare in Svizzera da Bruno per viaggi ed emergenze: seduto in grembo a sua madre che si calmava sentendosi addosso il suo peso e il suo calore, imboccato dallo zio Aurelio, mentre zia Silvia stava scolando la pasta per gli adulti.
“Arriva un aereo e viene da Timbuktu….mmh..che buono!”
Glielo disse, Gilda, quel suo pensiero sul Natale, su Babbo Natale maschera da carnevale, Babbo Natale e Berlusconi, altroché “tu scendi dalle stelle”, altroché re del cielo.
“Adesso arriva un aereo dal lago Titicaca! Bravissimo, Pierino.”
Continuava a sembrar non recepire, lo zio Aurelio, continuava a far atterrare aerei dai luoghi più improbabili nella bocca sempre disponibile di Piero. Poi, quando pranzarono anche loro e il bambino venne tenuto occupato con la sua crosta di pane, rispose. “Certo, Gilda, che il Natale è pagano, l’hanno messo lì apposta: nei giorni del solstizio d’inverno, dello Yule germanico, dei nostri sfrenati Saturnalia. Certo che le zampogne, questi otri di pecora o di capra, sono strumenti antichissimi usati per celebrare Dioniso o Bacco. Natale è un baccanale, brava, hai ragione: festa di banchetti e sacrifici resi innocui sotto forma di regali prima ancora che festa del consumismo. Con buona pace delle buone intenzioni del nostro papa e dei nostri cardinali che ogni anno ci richiamano a rispettarne il senso autentico cristiano. Ma quando si fa gli apprendisti stregoni e si crede di poter fregare gli dei antichi col trucco da due soldi di rinominare le loro festività, non ci si può troppo stupire e lamentare che la vecchia coltura sia più resistente di quella nuova e che l’insieme generi frutti ibridi e mostruosi. Berlusconi, dici tu, a questo non ci avevo mai pensato, beh sì, magari…”
“E’ ovunque, zio, con la sua finta faccia bonaria, con le sue promesse assurde, a sei mesi prima delle elezioni…è disgustoso”
“Disgustoso?..Mah..sai, io pensavo: quasi quasi stavolta ci provo e lo voto”, disse e ridacchiò poco e piano, un riso d’accompagnamento simile a un colpo di tosse catarrosa.
“Tu, proprio tu, voteresti per uno che si definisce “unto del signore”?”
“E sennò per chi? Per il nostro buon parroco di campagna che ha gestito l’IRI, per Bertinotti che va a farsi fotografare in cashmere accanto al subcomandante Marcos, entrambi molto “United Colors of Benetton”, non c’è che dire. O vuoi che speri in un governo dato in mano ancora a un personaggio come questo Dottor Sottile, a un cosiddetto tecnico che poi nella realtà dei fatti vuol sempre dire: a qualche grigio burattinaio del vero potere, uno di quelli che non pagheranno mai di tasca loro. Cuccia, ecco il vecchio orrendo Cuccia l’avrei votato, peccato che alla fine sia morto pure lui…”
“Non dici sul serio, vero?”
“Non dico sul serio, no, perché non ci vedo più niente di serio in tutta questa politica italiana, da anni, solo che questo qui, questo e i suoi alleati, visto che sono più nuovi, visto che hanno più fame, fame di potere, ma anche di riconoscimento, persino se vuoi” e ridacchiò di nuovo, “fame di amore, magari dovranno darsi un po’ più da fare…”
“Berlusconi? Ma quello pensa solo agli interessi suoi e per il resto può anche andare in malora tutto il paese.”
“Lo so che la pensate così. Può darsi. Può darsi che avete ragione. Ma io dagli altri so cosa aspettarmi, da questi no. Se poi faranno male, faranno peggio, basta, li manderemo a casa. O anche tu pensi che nel caso vincesse Berlusconi, è in pericolo la democrazia?”
“No beh, però…”
“Gilda, ti prego. Tu sei troppo giovane per ricordarti di Mussolini che con questo ometto qui non c’entra un tubo, ma gli anni settanta te li ricordi, no? Le stragi. Il rapimento Moro. Ustica, Gladio, la P2. Di quale democrazia stiamo parlando? E’ questa la splendida, luminosa, incorrotta democrazia che sto commendatur Brambilla col suo piccolo sogno di redenzione brianzola dovrebbe mettere in pericolo? Ma va là!….Dai, passiamo ad altro: noi a pranzo il secondo non lo mangiamo, ma se vuoi c’è del formaggio o della frutta. Vero, Silvia?”
La zia, dopo aver messo nel lavello i piatti fondi, si era presa Piero che cominciava a fare una faccia troppo seria, vuoi perché dopo aver avuto l’attenzione esclusiva, ora nessuno se lo filava più, vuoi perché sentiva l’irrigidimento di sua madre, e l’aveva portato a fare un giro.
“Un po’ di frutta va benissimo, grazie.”
Sbucciarono in silenzio arance e mandarini. Gilda pensava a quanto volesse bene a suo zio Aurelio, quanto l’avesse sempre ammirato, e si diceva che le persone più intelligenti rischiavano di essere fregate dalla loro stessa intelligenza, perché neanche stavolta si poteva dire che fossero stupide le cose espresse per le quali era rimasta male. Ma in fondo non era questo. Le venne in mente una celebre battuta di Moretti, quella di un film che ora non ricordava quale fosse, e lei, Gilda Macchi, madre di Francesca e Piero Aspesi, nata nel 1959 a Gallarate, seduta in quel momento nell’angolo pranzo di una cucina al settimo piano di Piazzale Loreto, in alto e un po’ a sinistra di dove il duce e Claretta avevano penzolato a testa in giù, nonostante non avesse mai gridato cose orribili e violente, non si sentiva per niente una splendida quarantenne. Solo una donna lontanissima nel tempo e nello spazio da quella che era stata. Lontanissima da quelli che erano stati lei e soprattutto suo zio Aurelio quando a lato delle molte morti inutili di una quasi guerra fatta, cucinata e mangiata in casa, e poi le morti ancor più inutili di chi alzava bandiera bianca con l’eroina, suo zio Aurelio aveva presentato nell’aula magna della Statale “Gesù Cristo Liberatore” di padre Leonardo Boff che decenni dopo il buon papa polacco aveva fatto scomodare dall’ordine francescano. Gilda era piccola, Gilda andava ancora a scuola, avrà avuto più o meno la stessa età che sua figlia aveva ora. Lo zio e il prete brasiliano portavano occhiali simili e le stesse barbe di adesso, solo più lunghe e scure, ma avevano negli occhi una luce e un calore nella voce che non c’erano più, non certo in Aurelio, e a Gilda, piccola come Francesca, era davvero parso quel che si poteva chiamare ancora il sole dell’avvenire. Avvenire: ne era rimasto solo il nome di un giornale cattolico a cui lo zio era abbonato. Nemmeno l’aspirante redentore brianzolo osava più adoperare quella parola. Possibile che suo zio non li avvertisse- dal piccolo texano eletto in Florida a Berlusconi- i segni dell’oscuramento che avanzava? O si era oscurato pure lui al punto di essere finito sulla stessa lunghezza d’onda? Comunque Aurelio doveva aver percepito che Gilda per troppo tempo era stata altrove, incupita. “Sai per noi il Natale erano arance e mandarini”, disse dolce e goffo, “anzi nemmeno il Natale, più la befana…il profumo delle bucce d’arance, era…”
Gilda alzò la testa e gli sorrise.
“Questo è davvero un commento da vecchio zio”, aggiunse, mentre glielo ricambiava, e in quel sorriso palesò tutta la fragilità di ritorno delle persone anziane, quel bisogno imbarazzato di protezione per cui, nei casi estremi, potevano essere liquidate come rimbambite. Questo a Gilda fece un male che non si aspettava.
“Ma no, zio, che sei sempre grande e imprevedibile”, rispose materna, “per esempio, quella cosa sul commendator Brambilla che ti è uscita prima è pazzesca. Perché non pensi di dedicare un capitolo del tuo grande libro sui messia a Berlusconi?”
“Sai com’è: quando uno deve comprare un frigo nuovo, va a finire che vede dappertutto frigoriferi”.
Al che lo zio Aurelio rise, a lungo e forte, e nell’energia metallica di quella risata c’erano tutti i cascami rotti di quella forza lanciata in avanti, utopica e concreta come un autotreno, che era stato anni e anni prima.

racconto pubblicato sul numero 46° di “Nuovi Argomenti”

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3 Commenti

  1. “Non dico sul serio, no, perché non ci vedo più niente di serio in tutta questa politica italiana, da anni, solo che questo qui, questo e i suoi alleati, visto che sono più nuovi, visto che hanno più fame, fame di potere, ma anche di riconoscimento, persino se vuoi” e ridacchiò di nuovo, “fame di amore, magari dovranno darsi un po’ più da fare…”

    io ho fame di racconti della Janeczek. :-)
    e poi un’altra cosa. fino a quando una letteratura militante, appassionata, regolarizzata dalle intenzioni di descrivere l’intorno, ce la fa raccontare vicende tanto farsesche?

  2. anch’io ho fame di racconti della nostra J., ma, posso dire?, senza la foto del demente che deturpa la signorile homepage di NI.

  3. “… palesò tutta la fragilità di ritorno delle persone anziane, quel bisogno imbarazzato di protezione per cui, nei casi estremi, potevano essere liquidate come rimbambite. Questo a Gilda fece un male che non si aspettava.” Io ho fame di altre storie a cavallo tra la Città e la nostra Provincia… Grazie Helena.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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