Otto testi

di Fabio Teti

[da: Il buio che si vede (in progress)]

Penso con qualche gioia
che un giorno, e

F. Fortini

non lo sai dire non dirlo, va trovato 
altro, adesso, non se ne vendono
di rondini, pardon, non se ne vedono,
se il trave sta marcito ma nascosto
da cartelli, opachi enormi, vessilli
di sunglasses – e impalcature, anche, 
e ancora queste insegne di seni da lappare passo a passo
come una canga per gli occhi
silenziosa, perché ha 
già vinto


*


…viene il soggetto facile,    (pompa, falsetto)

l’inesaurito.      è:     il solito litigio
di eravamo / e ora vano, epoca
bella / adesso cella,
   
                          – si dà
scontato, come se nulla,
come se un litio, rirumi-
nato. come se infine
avesse avuto   latte appena
nato e non il guasto e buio-nube del reattore,
creature ancora con tre natiche,
coane tossiche, pareti casa
un disegnino fatto
con il gesso.
questo.

:

verbo «uscire». mondiglia della gomma.
cancellatura dritta al centro
dell’infanzia. una
giustizia


*


mette buio – e mette l’acqua
ad antracite. (lo spartito
sparito). sta sporto, guarda minuti le semistàsi 
dei globi, tra e sotto, se passa.
non passa.


                «il fiume poi non
era neanche questo», si dice – vede
(pensa) come lo passano le chiavi,
bottiglie a fare chiusa, a fare 
intralcio. ogni minuto dell’acqua 
che allenta le borchie, i lucchetti, 
ogni minuto degli occhi troppo aperti per vedere
riscoccare una luce dall’asma 
dei platani.

 

(ah, già,
             scena in taverna, dopo. interno, 
a luce chiara – e finta. «spiacenti». e «abbiamo però
carciofi fritti». «fagioli alla botte».
«mai preparata qui

l’anguilla»


*

stenta ancora    tenta schizzo molto
piccolo, tipo ”sezione di fiume
con porcospini e spore”. che

sono false, farse da farci frasi –

dovere vedere come ha flusso
la feccia – acidi ftalici sali, oli
neri, cloruri, nessuna acqua.

e gli alveari vuoti sotto i tetti. e i cesti
coi mucchi degli occhi
cavati.

   
*

                                …tanto ha fatto il toro
                                   A. Rosselli


Il cane alla catena dà gli strappi –
è iniettato. Suono dei rotòri,
carrelli estratti, niente
succede.
            Le immagini seguenti
in quanto tolte dalle retine

così è costretto a chiudere,
pur di vedere: – i cremati le nubi
bianche, di fosforo, esplose. E le altre bombe
che aggiornano le impronte digitali
sulla carta delle nostre
banconote 
        
          
*

Che poi non basta, lo vede, vedere 
non gli basta, non solo, o deve 
credere che piova solo 
dentro i coni accesi, dei fanali, 
i fasci di fari, e le finestre. Lo scroscio invece è già che fa 
le pozze, biosce nere tutt’intorno il visto 
visto, – e sciacqui, pantani, 
cloache in cui si specchiano 
gli spicchi, i rami intorti, e diedri, 
e tra stella e stella morta 
ma crivellato, m’appreso all’improvviso 
in uno alla visione 
                          il buio, 
che si vede, 
                 ch’è sempre quello 
qualunque sia il frattempo fra dado 
e dado del risiko scagliato 
sulle vie delle raffinerie 
e degli oleodotti, e i monaci 
incendiati, i colli appesi o segati 
con un coltello da cucina 
a lungo – con 
minuzia.

*

È evasa al giro di delirio
e rimozione ma è corrosa, è illeggibile
a sfrascarla dalla siepe;

la pagina, quella che conta, trovata, 
là dentro, stracciata, o sotto, 
ma fusa quasi sull’asfalto, 
quasi disciolta – i tipi, sbavati,
le gromme, la grana che un ricorso
d’acquate e di pneumatici
ha scontorto, fradiciato. – Fili 
de le pute, chelidri, bargelli del brago e
anche peggio. Ma leggerla,
doverla leggere
lo stesso

*

Andate anche le mosche, via, ciampàne,
e andate anche le sanie, le estreme,
finito. Questo: sta ancora solo il
resto molto morto sull'asfalto,
molto asciugato, dopo il guardrail.
Che si capisce è inguardabile: nessuno
vuol levarlo, toccare. Attesi attàgeni, antreni,
bruchi anche di tinèola, di aglossa,
a finire il ciclo. Non si sa
altro. Dovevano 
già stare









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22 Commenti

  1. Nota:

    nato a Castel di Sangro (AQ) il 17/12/1985

    *

    i testi di questa mia prima pubblicazione sono tratti da un lavoro in corso d’opera (probabilmente) – non rispecchiandone per altro la reale articolazione.

    *

    l’esergo fortiniano è tratto naturalmente da La gronda, in Una volta per sempre. Altri palesi riferimenti sono al Montale de L’anguilla e della terza parte di Notizie dall’Amiata. Infine, il montaggio di citazioni che chiude ”E’ evasa al giro etc.” traccia una linea che va dalla cosiddetta Iscrizione di San Clemente (”Fili de le pute”) al Montale, ancora, di Botta e risposta I, 2, in Satura. Passando per Inferno XXIV, vv. 86-87.

    Credo sia tutto.

    Un saluto

  2. Belle, ritmo incalzante, immagini potenti, mai scontate. Davvero una prova notevole, complimenti.

  3. “Drenata e mummificata, la salma accoglie nuovi ospiti: larve di attageni e di antreni, i bruchi dell’Aglossa cuprealis e della Tintola bisellelia. Con essi si conclude il ciclo”. Le Particelle elementari, Michel Houellebecq

    “Attesi attàgeni, antreni,
    bruchi anche di tinèola, di aglossa,
    a finire il ciclo”. Fabio Teti

  4. @ Viola

    Voleva essere una semplice annotazione, senza sminuire il valore dei testi, peraltro notevoli, a mio avviso. Grazie

  5. Grazie a te, anche perchè i “metodi” e le “retoriche” – come a te ben noto – sono fondamentali per ogni scrittura, un caro saluto, V.

  6. Con un qualche ritardo: ammirando forte poesie come Doxa, o plaquette come Esercizi del rischio, le vostre note positive (e inaspettate), non possono che farmi piacere: per cui, sinceramente, ringrazio.

    Con postilla poi per Quintiliano: certo, la splendida la gelida pagina 41, avevo ben presente il pezzo di Houellebecq mentre scrivevo quei versi. Non ho inserito il riferimento tra le note postate questa mattina semplicemente perché, rispetto all’uso dialettico e in certi casi addirittura strutturale di altre citazioni/allusioni presenti, non è affatto indispensabile a una migliore comprensione del testo. Un riferimento insomma non decisivo; o in parte, suppongo, un poco travolto dall’impianto allegorico in cui effettivamente si ripresenta e contrae. Detto ciò, ringrazio per i complimenti, e per la stramba sensazione provata nell’essere oggetto d’ispezione di trouvailles fontistiche…

    Un saluto
    F.T.

  7. Piombo sul testo con troppa avidità, mi faccio prendere dai suoni e mi fa nno negli stomaci un antico jazz.
    Uau, direi con un settantasettismo.

  8. Notevole la fastella costruttiva, l’amalgama della pastella che incalcina le parole, forse troppo allusive, spesso poco dichiarative, ma credo sia intenzione autoriale. Essenziale il rimescolo della gromma che stagna in fondo allo stomaco (come nota Woland). Non condivido troppo, sono espulsione di altra scuola, ma si riconosce valore alla pienezza dell’impasto che genera allacci (non abusivi) a tutta una teoria di voci che hanno segnato l’epoca nostra. Confermo: notevole.

    mdp

  9. @ Woland, che anche senza pince nez e gatto parlante vede piuttosto bene: il jazz, generalizzando, può essere una buona chiave formale: “lo spartito / sparito”: l’improvviso, metricamente parlando, che poi scava dentro sé il proprio necessario rigore (non regolarità: e: contraddicensosi, anche). metrica non libera, dunque, ma piegata alla realtà del ritmo (che è, per quanto mi riguarda: percezione+pensiero, lettera+immediato doppio fondo). Il ritmo è reale, dannatamente, nasce dall’incrocio tra diverse realtà, flussi. La forma, l’apriori invece etc etc. ma perché sto a seccarti con queste cose.

    @ PDM: ti ringrazio intanto della bella nota. Sulla questione dell’allusività potrebbe aprirsi un dossier, ma ho più domande che risposte, per ora, quindi evito di produrmi in un inservibile pastone. Generalmente, penso alla mia scrittura come a un punto di possibile incrocio tra allusione e dichiaritività, tra doppio-fondo e movimento di superficie. La lingua “sta per”, comunque e ad ogni modo, non posso fingermi il contrario, ed è il suo limite e insieme il suo illimite (questo, naturalmente, a mio modo di vedere). La tua osservazione sulla pochezza dichiarativa, che non condivido sino in fondo, mi costringerà comunque ad affrontare più di petto la questione. Anche di questo ti ringrazio.

    Un saluto

    F.T.

  10. Grazie Fabio per la risposta. Anch’io non sono del tutto fermo sulla stabilità apparente del magma di quello che vado scrivendo, anche se al segno ho da sempre preferito collegare il senso definito e definitivo più che il suono del bordo, la struttura che scivola. Siamo tutti impegnati in un’infinita inchiesta su noi stessi, quindi buona indagine a te… e anche a me!

    mdp

  11. Benissimo, Marco,

    mi spingi però ad una precisazione-riflessione aggiuntiva, o frammento di: con quello ”sta per” non volevo certo intendere il linguaggio come mero strumento, guanto da calzare o meno a seconda, punes da martellare o non martellare in (o: su) una cosa. ”sta per”, ma non è ”staccato”. nè da me, corpo e pensiero, nè dalle cose; e di questo complesso il linguaggio è proprio tessitore e allo stesso tempo conseguenza, tessuto. e, come ogni organismo in cui si incrociano azione e retroazione, le eventualità di ”scivolamento” o al contrario di ”collegamento univoco” non credo, ma è opinione personale, possano essere semplicemente frutto – o soltanto frutto – di una applicazione volitiva. credo anzi la poesia sia precisamente, naturalmente quasi, il punto di messa in crisi di ogni univocità. in quanto processo di conoscenza (processo appunto, non strumento), e di “inchiesta”, come dici bene. perciò, gaddianamente, anche di imprevedibile deformazione.

    Ricambio l’augurio di buona indagine, e ti ringrazio dello scambio.

    Un saluto,

    F.T.

  12. Benissimo, Marco,

    mi spingi però ad una precisazione-riflessione aggiuntiva, o frammento di: con quello ‘’sta per” non volevo certo intendere il linguaggio come mero strumento, guanto da calzare o meno a seconda, punes da martellare o non martellare in (o: su) una cosa. ‘’sta per”, ma non è ‘’staccato”. nè da me, corpo e pensiero, nè dalle cose; e di questo complesso il linguaggio è proprio tessitore e allo stesso tempo conseguenza, tessuto. e, come ogni organismo in cui si incrociano azione e retroazione, le eventualità di ‘’scivolamento” o al contrario di ”collegamento univoco” non credo, ma è opinione personale, possano essere semplicemente frutto – o soltanto frutto – di una applicazione volitiva. credo anzi la poesia sia precisamente, naturalmente quasi, il punto di messa in crisi di ogni univocità. in quanto processo di conoscenza (processo appunto, non strumento), e di “inchiesta”, come dici bene. perciò, gaddianamente, anche di imprevedibile deformazione.

    Ricambio l’augurio di buona indagine, e ti ringrazio dello scambio.

    Un saluto,

    F.T.

  13. Hai perfettamente ragione, la parola è processo, non strumento. Anche se il dire diventa creare associazioni di senso e quindi anche strumento. Un laboatorio oppure l’elaborato? Come si comprende dalle mie continue atuocontraddizioni, sto cercando nuovi orditi per le mie “tele”, e fruttuose conversazioni come questa fanno molto bene all’evoluzione della riflessione.
    Grazie e a presto.

    mdp

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