L’infanzia delle cose: un estratto

[Alessio Arena ci dona alcune pagine estratte dal suo nuovo romanzo, L’infanzia delle cose, manni editore]

arena
di Alessio Arena

Sopra al marciapiede della Piazza di Cascorro i gitani hanno sistemato una coperta a terra e si sono messi a vendere i meloni rossi.
È domenica pomeriggio, e il mercato finisce sempre qua dove è iniziato alle prime ore della mattina.

I gitani sono così: tengono i capelli lunghi.
I gitani tengono le catene d’oro con la Virgen del Rocío o altri santi che non si capiscono.
I gitani si vestono sempre poco: le femmine stanno con la canottiera pure se è il mese di gennaio.
I gitani alluccano fuori ai balconi e in mezzo alla strada: i maschi tengono i capelli lunghi e i peli sopra al petto.
I gitani tengono tutti quanti un naso importante: le femmine sputano a terra quando passano fuori alla salumeria di Manoli, e solo quando il freddo è davvero troppo freddo si mettono delle pellicce che sembrano i cani morti.
I gitani fanno le feste fino alle quattro di notte dentro al circolo gitano che sta in un palazzo sulla Calle del Ave María.
I gitani si sono accoltellati l’altro ieri con un gruppo di gitani della periferia che sono venuti a vendere la droga a dei ragazzi gitani che stavano in una Seat Marbella parcheggiata fuori al teatro della Latina.
I gitani cantano sempre, urlano come i pazzi e si mettono a suonare la chitarra fuori alla chiesa di San Cayetano per la messa del Rocío.
I gitani fanno la musica con le mani, e i bambini pure, quelle mani nere che si lavano dentro alla fontana di Tirso dove mia madre ha detto che, solo se si avvicina, uno si può prendere la tibbiccì.
I gitani sbattono continuamente le mani anche se ti stanno dando il resto della spesa.
I gitani sono i padroni del mercato.
I gitani sono i padroni di tutti i negozi di Lavapiés.
I gitani sono i padroni di Lavapiés.

Mezz’ora fa in mezzo ai giardinetti di Curtidores e dentro al vicolo di Santa Ana ci stavano fiumi di gitani con le bancarelle, le sedie, i tavolini, le coperte: si vendono tutto quello che uno può immaginare, tutto quello che tengono nella casa, e secondo me, se uno va vedendo, si vendono pure a loro.
Il mercato attraversa tutta la zona alta di Lavapiés, si arrampica sulle salite e sulle discese di quella parte del quartiere dove i balconi delle case sembrano le cappelle dei santi e dei morti che stanno a Napoli, piene di cose appese che sembrano d’oro, e di fiori spennati.
I generi della merce cambiano a seconda dei posti di vendita lungo il cammino verso la porta di Toledo, dove sta la sede della Polizia Locale, e il mercato vecchio, quello ufficiale, con il tetto a spiovente, che puzza di baccalà e di altre cose pure a cento metri di distanza.
Più stanno sotto sotto alla Polizia più i gitani diventano doci ’e sale, nel senso che se ne stanno più tranquilli, si nascondono gli orologi d’oro, le collane, vendono solo bambole mezze scassate, cose per la casa che non servono a niente, e fiori, soprattutto gerani e piante di basilico.
Sul marciapiede di Cascorro si sono messi a vendere i meloni rossi e il cane stava giocando con un melone, ha provato ad azzannarlo e io gli ho dato due calci ma non potevo fare niente.
«El perro! Es tuyo?»
«Sì, sì, è mio.»
«Coje al perro, joder!»
Io allora ho dato cento e uno strilli, e il cane ha girato finalmente la testa, mi ha guardato come se mi stava dicendo che devo fare sempre l’esagerato, e di scatto si è messo a correre solo lui, mi ha fatto cadere il guinzaglio da tutte e due le mani.
Se n’è andato per la chiesa di San Cayetano, ha girato all’angolo del Mesón de Paredes quando una macchina saliva dalla piazza e per poco non gli schiattava la testa.
Io questa strada la odio perché ci stanno i cinesi e quando passi devi fare lo slalom in mezzo alle sputazze dei cinesi che si mettono seduti fuori ai negozi presi in gestione dai gitani.
Non so perché i cinesi sputano sempre, ma la cosa brutta è che se stai correndo per acchiappare al cane può darsi pure che non fai in tempo a scansarti.
Ho fatto una corsa quasi con gli occhi chiusi fino alla Calle del Olmo, dove ci stava il figlio più grande di Manoli che era appena uscito dal barbiere, e puzzava di dopobarba quando ha alzato il braccio per dirmi dove era andato quell’animale esaurito.
Mi ha fatto girare per la Piazza di Agustín Lara dove sta quella chiesa bombardata che adesso ci devono fare una biblioteca, e sulla discesa del parcheggio sotterraneo il cane stava con le zampe alzate sopra al cofano della ipsilon dieci di Birra Peroni.
«Questo cane di merda!»
«È una femmina Antonio, la devi capire.»
«Ciao zio.»
Birra Peroni mi ha dato due baci che hanno fatto un sacco di rumore.
«Te la fai scappare sempre» ha detto.
«È uscita pazza questa cagna maledetta, te lo giuro, secondo me si è ricordata che stavi arrivando.»
«Eh sì, sì, quella che non si è ricordata è mia sorella, che non mi ha fatto trovare neanche due foglie di insalata.»
Però l’ha detto col sorriso sulla bocca.
«Quella mamma sta tutta esaurita, lo sai» gli ho detto, e allora lui mi ha fatto una carezza, ha aperto lo sportello, è sceso dalla macchina.

È più di un mese che non lo vedo.
È ingrassato, ha cominciato a prendere chili sopra al petto e sulle gambe, è successo dopo l’incendio del Golfo che lui stava chiuso dentro a discutere con Castravelli e altri suoi colleghi del magazzino.
Il fuoco lo ha abboffato come un Super Santos, un pallone con tutti quei puntini sopra alla pelle che forse gli fanno pure male ma nessuno lo sa.
Birra Peroni si è messo in viaggio l’altro ieri, si è fatto tutto lo stivale, e poi è passato per la Francia, ha dormito quelle poche ore di notte in qualche autogrill, e poi ha ripreso a fare il viaggio di Gulliver: strada facendo si è preso al ragazzo che deve venire a lavorare nel Golfo di Napoli, quel cugino di Castravelli che stava facendo gli orologi a Barcellona.
«Ma stai solo tu?»
«Sì, a Sandokan l’ho già accompagnato dentro al ristorante.»
«E tu perché stai vestito così elegante?»
«Quanti cazzi vuoi sapere» ha detto. «Prenditi questa mille pesetas, e vai a comprare qualche cosa di buono nel negozio di quella di fronte.»

È bello Birra Peroni, perché somiglia a mia madre.
Tiene gli occhi piccoli come lei, con la coda degli occhi che sembra disegnata con il trucco, e poi tutte quelle lentiggini in faccia, sopra alle guance e sopra al naso che è la cosa più piccola che tiene.
Perché Birra Peroni è enorme, c’ha la faccia di un bambino, però è alto, è tutto un pezzo, e tiene sempre le stesse braccia della foto di quando ha fatto il militare a Reggio Calabria.
Però adesso c’ha la giacca con la camicia a righe la cravatta e tutto.
«Gesù» penso io. «Ma sei sicuro che stai venendo da Napoli?»
«Sì, ’o scè, però alla frontiera do meno nell’occhio se sto più sistemato, e non sembro uno gitano.»
«E dove l’hai preso questo vestito?»
«Eh, è bello eh?»
«No, sembra di carta.»
«Overo? Si vede proprio assai?» mi ha chiesto preoccupato, mentre si puliva i segni che gli ha fatto June Christy sopra al pantalone, quando gli è saltata addosso per salutarlo.
«È un pacco del magazzino di Calimero» ha detto.
«Sì? Quelli che devi vendere tu?»
«Non proprio, questo è uno dei pacchi, poi ci sta altra roba.»
«Allora lo fai pure tu il magliaro, eh?»
Birra Peroni mi ha fatto un’altra carezza: forse ha capito che me la vedo un poco brutta a stare solo io a casa con quelle due vipere.
Io lo so che Birra Peroni mi vuole più bene da quando non tengo più a mio padre.
«Vieni pure tu a lavorare, ti guadagni qualche cosa in più e ti apri una libretta.»
Io ho cambiato discorso: «A te ti piacciono i lupini?»

Sono andato nel negozio di Manoli perché mi volevo prendere un chilo di lupini.
Manoli è la madre della famiglia dei gitani che vivono di fronte a noi, al terzo piano.
Sono una famiglia grandissima, e soprattutto la domenica a casa loro ci sta la gente fino a fuori al palazzo.
Il figlio più grande è quello più antipatico: tiene una ciglia sola, bella chiatta come la coda di una zoccola.
Io l’ho sentito un sacco di volte parlare con Erika da fuori al balcone, e allora sono andato pure io e ho visto che lui stava affacciato mezzo nudo, solo con un paio di mutandine bianche.
Il figlio di Manoli è una specie di scimpanzé che la collana con la Madonna non si vede in mezzo ai peli del petto. Tiene il collo sempre rigido con qualche vena ben in vista, le spalle larghe, e quel poco di pancia che basta a fare schifo.
Sta sempre fuori al balcone a fumare mezzo nudo, ma a volte si mette seduto su una sdraio e si appoggia un piatto sopra alla pancia, un piatto pieno di lupini che lui prende a quattro cinque alla volta, e poi sputa le scorze giù.
Io vado pazzo per i lupini, ci stanno poche cose che mi piacciono così, forse perché i lupini non sanno quasi di niente però tengono una consistenza importante sotto ai denti, e poi questo fatto che devi sputare la scorza ti fa passare un po’ di tempo.
Insomma sì, la verità è che mi piacciono proprio assai e starei pure ore a mangiarmeli, solo che mia madre non li ha trovati da nessuna parte, e non sa come si chiamano.
L’altro giorno allora mi sono fatto coraggio a chiedere al figlio di Manoli che stava lì, spaparanzato sopra alla sdraio come sempre, con la bocca piena, i peli lucidi di sudore sopra alle braccia.
«Come si chiama?» ho detto.
Lui ha fatto finta di non sentirmi, ma poi ha visto che lo stavo guardando, e che non me ne andavo.
«David.»
«No tu, i lupini… lupinos?»
Ha fatto una faccia scema, drammatica, quando ha detto «Italiani… piccolini… piccolini».
Mi stava sfottendo, però non sembrava divertito.
«Vafammocca» ho detto.
E lui allora si è messo in piedi, si è grattato con una mano un punto della sua schiena pelosa che sembrava che stava facendo una capriola all’indietro per arrivarci.
E si è ricordato.
«Chocho, chocho» ha detto. «Como tu hermana, Erika… chocho grande.»
Se parlava di mia sorella ero sicuro che mi aveva detto una cosa sporca, però mi sono stato zitto, gli ho riso in faccia, e gli ho fatto capire che Erika teneva la febbre a quaranta e stava morendo.

«Si sono messi a ridere tutti i gitani di sfaccimma dentro al negozio.»
«E perché?»
«Perché i lupini sono una parola sporca.»
«Ah sì?» mi ha detto Erika dentro al letto, con la voce in mezzo ai denti. «Lo so che significa… quello che non ti piace a te.»
«Statti zitta, devi morire.»

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31 Commenti

  1. oh,
    guagliò, ‘stu romanzo me piace assaje, perlmeno chello ca aggio liggiuto fino a mmò: tene ‘na parlantina sciuliarella ca è ‘na magnificenza. ‘N zomma se fa leggere e ppò, è sfezziuso: me pare Troisi e nu popo poco Siani, Alessandro. Secondo me Siani ‘o tteno, però quanno fa ‘o barzellettiere cu Troisi nun ce azzecca niente. Chesta è na parentesi o meglio ‘na digressione. Ma tirnammo a tte e ‘o rimanzo. Liggennelo, me pare ca staie ncop’a ‘nu carruocelo cu ‘e cuscinette d’acciaie; a differenza e chille ‘e legno ca s’appicciavano doppo nu poco, pure mettennece ‘o sapone ‘e piazza, chello trasparente, ambrato.

    Comunque me fermo ccà, ma penzo ca tra ogge e dimane, vaco addu Guida ncopp’o Vommero e me l’accatto.

    Te facce tant’augurie.
    Si me riesce facci’o passaparola.
    Ciao.

    Transit Scarpantibus

  2. Il romanzo io l’ho letto tutto. E credo sinceramente che Alessio Arena sia tra le cose più interessanti da leggere nell’ambito della nuova narrativa napoletana.
    Ha il brio di un Corsicato, la carnalità di un Lanzetta, mischiati a una tradizione più alta, di matrice ispanoamericana.
    Tutto questo in uno scrittore venticinquenne.
    Una boccata d’aria.

  3. Certo uno stile riconoscibile pare già ci sia.
    Ho letto di Arena in _Nuovi Argomenti_ e sul Corriere Francesco Durante cuce addosso alla sua scrittura il formidabile distintivo di “Realismo magico napo-latino”.
    Hai visto mai lo scugnizzo!

  4. E dopo la notizia che chocho significa ciò che significa, posso chiuder la valigia e partir domani per la Spagna più preparato.
    Grazie Arena.

  5. O nniro ‘e vascio

    (…t’arricuorde…)

    ‘O nnir’’e vascio è quanno
    ‘a matina te scite cu chillu penziero;

    (…t’arricuorde…)

    ‘o penziero d’’o ppane.

    ‘O cielo è nu vico,
    e ’o mare ‘na latrina
    vicina/luntana,

    (…t’arricuorde…)

    e, pe’ te fa nu bagno,
    ‘nchiavecato ‘e mmerda,
    ce vonne
    ‘e sfaccimme d’e sorde.

    ‘Nzomma,
    curnuto e mazziato

    ‘O nnir’’e vascio
    è ‘nu culore:
    ‘o culore ‘e ll’anema nosta.

    (…t’arricuorde…)

    ‘O nnir’’e vascio,
    è ‘o nnire
    dint’’a ll’uocchie d’‘e ccriature.

    ‘O nnir’’e‘vascio
    é ‘o core
    d’’e ccriature ittato dinto
    ’a munnezza.

    (..t’arricuorde…)

    ‘O nnir’’e vascio
    é ‘o nniro
    ‘e chi sfrutta ‘e ccriature,

    pe’ le mparà ‘o mestiere e,
    facennele faticà.

    Ma ce stanno
    dduje mestiere nuove

    ca pe’ campà e accumulà,
    pe’ furtuna d’o putere,
    ‘o putere legale e illegale,
    hanno fatto scola.

    uno: vennere droga;
    ddoje: scannà e accidere.

    Facenno pe’ mestiere,
    ll’assassino:
    ll’assassino pe’ lloro,

    (…t’arricuorde…)

    p’o putere…

    ‘o putere,
    ‘a dummeneca v’’a Santa Messa,

    s’addonocchia,
    se cunfessa,

    prega ‘o Pater Nostro,

    se f’a
    ‘o segno d’a croce
    e dice:

    Ora Pronobis,
    Ammenn e Così ssia.

    ‘E vasamane e a leccà ‘o culo
    ‘e putiente songo,
    sempe troppo pochi:

    – Avanti un altro –
    dice ‘o Signore d‘e prumesse.

    Chisto è ‘o servilismo,
    a paura p’o cchiù forte.

    Chillo te scamazza ‘a vita e,
    te sputa ‘n faccia,
    dicenno ‘o munno sano,

    (…t’arricuorde…)

    ca si nu scugnizzo,
    nu sfaticato,
    nu piezzo ‘e mmerda,

    (…t’arricuorde…)

    nu cocainomane, ‘
    nu guappo ‘e cartone:
    o, nu criminale assassino,

    (…t’arricuorde…)

    pupaziello dinto ‘e mmane soie:
    ‘e mmane d’o padrone).

    (…t’arricuorde…)

    E ‘a dummeneca
    vanno ’a Santa Messa,
    s’addonocchiano,
    se cunfessano,

    pregano ‘o Pater Nostro,
    l’Ave Maria

    po’ se fanno
    ‘o segno d’a croce
    e diceno:

    Ora Pronobis,
    Ammenn e Così ssia.

    Ma a tte fratello ‘e sango
    tutto chesto nun te ‘mporta:

    pecchè ‘o nnir’’e vascio
    è quanno ‘a matina
    te scite cu chillu penziero;

    (…t’arricuorde…)

    ‘o penziero d’’o ppane…
    d’a cocaina…ll’eroina…
    tangenti…pizzo…sorde…
    rilorge, gioielli…
    battesime…
    creseme
    e cummunione…
    spusalizie…

    ddio, ‘a maronna
    e tutt’e sante…

    e,
    quanno ce vò,

    pe’ fa capì chi cumanna
    dinto a chisto inferno,

    simmo nate dint’o stesso vico
    ‘o stesso quartiere,
    amice eremo…

    sventagliate ‘e mitragliette
    colpe ‘e pistole ‘e n’aria:

    addereto ‘a capa;

    ‘nfronte;

    e,
    amice nemice rimanimmo…

    Transit Scarpantibus

    PS: Stu piezzo è na dedica
    pe’ alessio, i gitani quelli di spagna,
    della nostra città e chiaramente
    tutti i gitani d’o munno sano.

    ciao.

  6. considero Alessio Arena insieme a pochi altri (presto su questi schermi) l’espressione più autentica di una nouvelle vague letteraria.
    effeffe

  7. E’ un romanzo che mi dà bella curiosità:
    Il tittolo mi attrae, le cose dell’infanzia,
    cose che scintillano, hanno un profumo,
    cose che fanno apparizione breve e forte nella memoria.

    Poi mi piace l’universo dei gitani sospeso
    alla vita del presente, ma di lunga memoria
    in Madrid, soprattutto a Sevilla, fanno parte del sangue
    spagnolo.

    Leggero per ascoltare la musica della lingua
    e del canto della memoria, stoffa viva.

  8. Questo romanzo ha una trama bizzarra e complessa, come quella delle grandi saghe d’oltreoceano. Queste prime pagine possono sviare il lettore che si aspetta un romanzo verista, napoletano, post-camorristico, studiato a tavolino.
    Niente di più sbagliato.

  9. caro Transit,
    tu che sei capace di tali dediche, come ti può sfiorare l’idea che la scrittura e il linguaggio di Alessio, possano collocarsi tra Siani e Troisi?
    il tuo è un doppio “sacrilegio” Siani, che conosco solo per la violenza dei media, sarà forse un bravo ragazzo con un poco di talento e una buona comunicativa per una platea “bassa”, ma niente ha da vedere con l’arte sognante e leggera di Troisi e la scrittura penetrante e tagliente di Arena.
    Purtroppo, caro Alessio, il linguaggio e le storie dei quartieri napoletani, apparentemente simili, fanno si ch’ addeventamme tutt’ purtuall’.
    un abbraccio Transit e vai avanti con la tua scrittura, sapendo, però, distinguere;l’evera ch’è bbona p’annettarse lu culo da la ‘nzalata nuvella….

  10. Io sarei curioso di sapere cosa pensano di Arena tipi come la Parrella e Lanzetta. Noto che in Arena c’è una napoletanità diversa, più sincera, atipica.

  11. Gionfy pe’ primma cosa quanno ‘o sottoscritto
    era piccirillo e faceva ‘o vient’e terra dint’o vico
    addò steva ‘e case c’o rischio d’e mazzate,
    di sacrilegge n’aggio fatto…anzi detto a meliuone:
    jastemmavo comme ‘nu turco, facenno scennere
    d’o Paraviso ‘o Pataerno, a Maronna e tutt’e Sante…
    pirciò di sacrilego nun veco proprio niente. Pienza ca,
    visto ca i’ e ll’ati cumpagnielle ce puzzavemo ‘e famme,
    jevemo dint’a chiesa pecchè c’avevano ditto ca llà dinto,
    ncopp’a ll’latare, se magnava, ma quanno ‘o prevete ce
    dette a ognuno ‘e nuje ll’ostia nuje dicettemo: ‘O magna
    chest’è. ‘O prevete se mettetto alluccà comme a nu pazzo
    e ce dicette male parole e parole sporche e facetto nu
    sacrilegio: jastemmaie purì’isso.

    pe’ siconda cosa chi t’ha ditto ca ‘o sottoscritto
    ha vuloto collocà ‘a ricchezza d’a scrittura ‘e Alessio
    tra Troisi e Siani? lieggete bbuono chello ca aggio
    scritto, ca chillo era ed è solo ‘nu termine ‘e paragone
    che va ‘a favore di Troisi, e pirciò, a maggior ragione
    di Alessio, anche se parliamo di cinema e di narrativa.
    Della comicità di Troisi e Siani ne parlavo con mio
    figlio Claudio di diciassette anni, cioè della profonda
    e gran distanza che separa i due. La cassetta di Troisi
    ce la vediamo almeno una volta al mese, mò viene tu
    tomo tomo cacchio cacchio e me dice sti ccose: bravo.

    Tutto questo pe’ capire meglio non solo la comicità
    (sociale, politica)di Troisi rispetto a quella barzellettiera
    di Siani, ma anche il legame etnico, di sangue e sofferenza
    con le proprio radicamnento territoriale. Però, penso,
    modestamente, che Siani, potrebbe…crescere. Infatti
    quando è costretto ad andare oltre la barzellatta,
    qualcosa di buono s’intravede. Ma sarà il lavoro e il tempo
    a dirci se Siani possa darci delle cose(infanzia)buone.

    PS:
    Gionfy stu piezzo ccà sotto
    è dedico a tte…comme
    differenza tra Alessio,
    Troisi, Siani, me e te.

    PS2:t’aggia lassà,
    è venuta chella d’a
    telecom…sta bussanno
    ‘o citofono…statte bbuono.

    ‘O vapore ‘e Viareggio

    ‘O sisco(il fischio) d’o vapore
    è chillo ‘e n’animale gigante:
    veco ca sta murenno.

    ‘a nave ‘a vapore,
    ca è partuta pe’ a Merica,
    sta nfaccia mme;

    ll’onna d’o mare so’ nnere,
    comme a pece,

    ce sta ‘nu mare spropositato,

    ‘o mare a notte me vene nzuonno:
    me dice tanti ccose senza sciatà,

    ‘a nave sta sbattenno
    ‘a ccà e a llà:

    ‘n coppa ce sta pure
    Rosario e Mariuccia,
    Perzchillo e Bambulella
    e ppò
    don Rafele
    e ‘a mugliera donna Caterina
    e chella capa scicqua ‘e Ruccotiello

    po’ ‘a mamma ‘e Tunninela d’o Mar’;

    si stengo ‘a mano,
    tucco
    ogni cosa:

    ll’acqua scura e ca s’aize pe’ vinte metre,
    ‘o fummo d’o vapore,
    ‘e mmanelle e ‘e vucchelle d’e ccritaure

    bavano a dint’o suonno
    e,
    ce nfonno ‘o dito attuorno,
    annettannele(pulendole):

    teneno ‘o sapore
    d’a santità

    ‘e d’e llacreme ca nun chiagnarranno cciù

    ‘o mare se fa cchiù gruosso e agitato

    me sbatte mpietto

    ‘a nave caccia fuoco e fiamme

    ‘a nave allucca n’ata vota

    sento ‘e voce d’a ggente
    fujeno pigliate d’e turche

    lloro mò songo animale
    sentono a puzza d’a morte

    i'(io),
    comme a vuje,
    nuje…’nzomma,

    stammo ‘a chestata parte:

    ogge e dimane tenimmo che ffà.

    almeno ‘e llacreme
    chiagnimmele(piangiamole)
    ncoppa ‘e semmente
    d’e ppiante e d’e sciure:

    coloramme stu munno ‘e sfaccimma,
    già troppo chine ‘e munnezza.

    Transit – Scarpantibus

  12. Transit, sei perfetto, mi fa piacere il passaggio del tuo sapere a tuo figlio diciasettenne, anch’io cerco di trasmettere la tradizione delle nostre mamme e dei nostri padri ai miei figli.
    Comunque circa, Siani ed altri personaggi della nostra città, sono intransigente, purtroppo chesta è ‘na città addo nun se po’ manco pazzià, spicialmente sui comportamenti e sul senso civico.
    Paricchie ‘e lloro so’ bbuoni guagliune ma attuorno teneno nu sacco ‘e ggente ‘e mmerda ca è cuntenta quando ‘a gente ‘e napule è ricurdata sultanto pe chelli strunzità.
    Grazie per la dedica Transit, mi è piace. Quanno fernisce ‘o libro d’Alessio famme sapè che te n’è paruto.
    Un caro saluto e arricurdete sempe ‘o fatto ‘e ll’evera.
    a presto Gionfy.

  13. Un esordio è un esordio, nel bene e nel male; merita sia augùri e incoraggiamenti ad maiora, sia la più spietata critica, purché dettata dall’amore fraterno che sempre dovrebbe legare gli intraprensori della difficile camminata dell’arte, che espone sia a gran sole sia a atra pioggia. Una bocca che si apre a criticare dovrebbe prendere moto dal puro impulso, idealmente, ad aiutare gli altri ad assestare la loro costruzione. Non che uno si aspetti di indurre chissà quale muta, di cui magari compiacersi paterno-pesantemente, nei più giovani colleghi; anzi, in primo luogo chi dovrebbe sempre trionfare è l’autopoiesi. Ma è questo che chi critica dovrebbe desiderare, almeno centralmente (relegando al contorno l’umanissima rettile pulsione aggressivo-sbranativa): contribuire, il meno ipocritamente possibile, all’altrui miglioria. Chi invece critichi solo per rompere il giocattolo è facilmente, vana ogni intellettuosa maschera o alibi ferino, un malipsilonato peccatore d’invidia. L’invidia ha molti target: si possono invidiare sia gl’ingegni incendiari, sia chi schizza la sua prima scintilla – invidiare il quale è l’invidia peggiore; e più diffusa, dato che il mondo abbonda di nonfacenti che odiano chiunque fa.

    Quanto a me, attendo di leggere il libro intero (noto che supera il quarto di migliaio di pagine: e già questo è lodevole, a mio gusto) per esprimere un compiuto giudizio sull’opus primum in campo romanzesco del, per altre arti, già beneamato delle Muse Alessio. Per ora posso solo dire che la materia si preannuncia sapida – anche se lo stile a me personalmente non piace, a prima vista: ciò perché mi sembra troppo facile scrivere in quella sua maniera (ma può darsi che mi sbagli, e che dietro ci sia faticatissimo scavo riscrittorio, a lima che si strugge in maniacale tormento; c’è?). E: a fare e ritoccare fotografie son bravi tutti, chi più chi meno; ma l’efflorescenza di un ipnocosmo su una lastra mitografica è altra cosa, e qui ne siamo ancora un po’ lontani. Chiaro che questa è solo l’impressione a prima lettura, lettura d’un pezzo staccato; impressione viziata, forse, dalla mia istintiva repulsione per la pressione del parlato sulla scrittura e per la troppa mimesi di contro alla troppo poca elaborazione speculativa. La visione d’insieme consentirà più avanti, a libro metabolizzato, una valutazione più sensata.

  14. Saper raccontare una storia, sporcando la lingua con la magia della trama non è cosa da qualsiasi romanziere, caro Palasciano.
    Tutto questo faticatissimo scavo riscrittorio di cui parli rappresenta spesso il grande nemico di un romanzo.
    Qui non si tratta di un viaggio verso la parola, ma giusto il contrario.
    Credo che Arena abbia un bel talento in questo senso.

  15. “l’efflorescenza di un ipnocosmo su una lastra mitografica” me lo rubo, sempre stupiscemi la palasciana mente..!! e auguri al nuvo libro di Arena..V.

  16. A leggere questo brano di Arena penso alle fantasticherie felliniane create attorno alla provincia italiana.
    Qui una città sopravvive attraverso il sogno, l’umoralità un tanto perversa di un giovane talento.
    Complimenti.

  17. Egregio Professor Palasciano,
    la sua è una risonanza magneticoletteraria di pregevole suono e si percepiscono le sue “scuole alte”, ma qui si tratta di proletari napoletani e gitani, in pratica di zingari, e Arena li presenta con i loro linguaggi attuali.
    Forse è proprio il linguaggio e lo stile che, evidentemente Arena conosce bene, il pregio di questa storia.
    Non se la prenda, cosa ci vuole fare: simme zingare carne ‘e surore, uno more è lassato addò more, a matina ‘e bon’ora se parte….
    cari saluti,
    gionfy lama.

  18. Gionfy,
    songo d’accordo cu tte.

    Palasciano,
    ma tu cu nu cummento e cu cierti parole e frasi del genere faie carè ‘o core dinto ‘e cazette. Ma ‘e qualu libbro e lenguaggio staie parlanno. te cunsiglio ‘e te leggere ‘o libbro di Alessio L’infanzia delle cose, perlomeno ‘ati ddoje vote, ma giusto pe’ capì addò maronna te truove. anzi, viene ccà: cammina pe’ dint’e viche d’a città, ma però liggenneto
    ‘o libbro mentre. accussì faie tre bbuone servizi: uno a tte, n’ata a Alessio e n’ato cchiù generale a sta citta e ‘a storia soia.

    Transit Scarpantibus

    PS: Oh Gionfy,
    ‘o libbro ‘e Alessio me l’aggio accattato e forse me lo pappoleo tutto stasera ncoppìo posto ‘e fatica. po’ semmai te faccio sapè ca ne penso.
    cioè quale songo e ccose bbone e chelle malamente, ammesso ca ce stanno. comunque, stongo facenno ‘o passaparola.

    ciao.

  19. Rifacendomi al commento di Baldrich, e ritenendolo fino a prova contraria attendibile, dico che postare questo brano non ha molto senso. Infatti, ragionando sul brano postato si ricava esattamente l’impressione che Baldrich teme si ricavi. Quanto alla polemica Palasciano/Dana, mi schiero con Palasciano. Afferma Dana, testuale: “Qui non si tratta di un viaggio verso la parola, ma giusto il contrario.” E non capisco cosa vuol dire. Verso dove va Arena, se s’allontana dalla parola? A me pare l’opposto esatto, ovvero (da queste poche pagine) un romanzo che si basa sulla parola, e basta – il che non mi esalta, ma questo è un problema mio. Mi si dirà che ogni romanzo si fonda sulla parola, però io intendo questo: ci sono scrittori in cui lo stile è essenziale, e sostanzialmente tutto (Gadda, Joyce, D’Arrigo, Wallace); altri invece in cui il fuoco drammatico del narrato travolge eccessive preoccupazioni estetiche, quelle sacrosante cui si riferisce Palasciano (Dostoevskij, o molto più modestamente Moravia). Arena, in linea di massima, cosa fa? A giudicare dal post, direi Gadda.

  20. «Palasciano,
    ma tu cu nu cummento e cu cierti parole e frasi del genere faie carè ‘o core dinto ‘e cazette».

    Beh, io invece se fossi Arena e un Palasciano mi dedicasse un commento del genere, mi sentirei onorato.

  21. A me sembra appiccicoso come incipit, aggraziato, ammaliante. Non c’è che maledire i distribuitori in ferie, ecco!

  22. No, Luisa, non si tratta dell’incipit, ma di alcune pagine del primo capitolo. Qui siamo ancora nell “Universo in equilibrio” per intenderci.

  23. Stanotte ho sognato a un certo punto che uscivo da un luogo affollato, che all’ingresso si rivelava essere una libreria; c’era infatti la cassa, lì, e qualche scaffale; notavo una copertina di plastica arancione che sul dorso aveva il nome Alessio Arena, con dentro alcuni vecchi e consunti libretti, non suoi ma messi lì dai commessi per riempirla; allora mi ricordavo che dovevo ordinare «L’infanzia delle cose», solo che alla cassa avevano fretta di chiudere e di far uscire la gente, anche sgarbatamente; e uscito fuori, calcolavo di andare in qualche altra libreria per trovare il libro.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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