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Periscoop

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di Giovanni Campi

plotone d’esecuzione

“Mon dieu! Ô mon dieu!” – disse il Signore.
La vita del signore era stata costellata da una serie di avvenimenti a dir poco sconcertanti, l’ultimo dei quali era appunto di trovarsi, tradito da uno, e ancor di più da tutti coloro non l’avevan creduto, dinnanzi dinnanzi ad una platea fatta di persone pronte a tutto sì ma non al perdono. Come se il perdono non fosse fatto per costoro, come se il perdono non esistesse punto.
Due uomini gli erano accanto: c’è chi dice che soltanto uno venne salvato, un altro invece dice che ambedue furono condannati, altri ancora tacciono sulla questione. Come dire che dei fatti ci son versioni discordanti, cui credere o meno; cui dar credito, e credibilità, o, per lo meno, verosimiglianza. E se invece fossero vere tutte le versioni? o false amendue? Forse la verità era nel silenzio di quelli che tacevano? E perché la tacevano? Era dunque una verità indicibile? O semplicemente non riuscivano a far corrispondere le cose all’intelletto di esse?
“Un, due, tre: fuoco!”
C’era dunque un numero per ognuno di loro, e il fuoco per tutti.
“Mon dieu, Ô mon inaccessible dieu!”

abbandoni

“Y a-t-il quelqu’un?” – chiese il Signore.
“Il n’y a plus personne” – rispose una voce.
Nel dileguarsi d’ogni voce, nel silenzio più puro dell’esser solo, gli parlava dunque una voce, che non era di qualcuno, che forse era la sua stessa voce: una voce senza corpo, forse una eco di sé a sé. Gli dava una risposta, muta: una risposta che mutava l’ordine dei fatti, e insieme dei fattori. Quel qualcuno di cui chiedeva chi era? Non essendoci nessuno, c’era appunto questo nessuno che gli parlava, ma gli parlava per dirgli nuovamente che non c’era nessuno, nemmanco uno. Lui stesso era questo qualcuno? Lui stesso era questo nessuno? Questa insistenza nel domandare di qualcuno, che era lui, e non lo era, non poteva essere destinata ad altri se non a lui stesso, ma non in quanto uomo, né in quanto ragione d’essere uomo, ma piuttosto in quanto esser solo, e solo e soltanto senza ragione d’esser solo. Era sgomento, ma pronto ad esser tale: senza paura di esserlo. Si trovava in una radura, là dove era stato posto, là dove era stato posto ci fosse posto per lui,
ora mai deposto. E la cosa era senza un perché.
“Mon dieu, Ô mon dieu, pourquoi m’as-tu abandonné?”
E lì, e lì non c’era niente, o in fine c’era un dono donato.
“Oh, se soltanto si avesse tempo!”
“Oh, se soltanto ci fosse tempo!”

fuzzy

“Ce que je sais, je le sais.”
“Ce que je ne sais pas, je ne le sais pas” – disse il Signore. Il signore era entrato in una città. A dire il vero, sempre che sia possibile dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, o dirne almeno una senza violar leggi o principi, siano quelli della ragione o d’una ragionevole follia, siano quegli altri della logica o d’una logica contraddizione, siano infine quegli altri ancora della identità o d’una identica differenza, – non era propriamente una città, quella in cui il signore era entrato, ma ne erano due: dunque il signore era entrato in due città. E questa è la verità. Al che chiunque avrebbe mosso, quale legittima obiezione, il dire inverso l’inesistenza d’una tale improbabilità: come avrebbe potuto il signore entrare al contempo in due città? come avrebbe potuto, un signore qualunque, fare una cosa del genere? O entrava in una città, si diceva, o nell’altra. Ma il fatto è che invece il signore era entrato in due città. E così stanno le cose. E così i fatti.
“Ô babylone!”
” Ô babel!”

minuta langue!

“Feu! Feu sur moi!” – disse il Signore.
Il signore, che non aveva più desiderio di vita, e di Tutto quel che ne concerne, aveva espresso, la banalità della formula non aveva certo nulla di magico, quest’ultimo desiderio: di non desiderare. Certo che il fuoco lo potesse infine esaudire, non immaginava affatto che, una volta che codesto fuoco avesse compiuto il suo tragitto, di guizzi e crepiti, di fiamme e favelle, di lingua e lingue, – l ame – avrebbe viceversa fatto scintillare eternamente. Era forse un sant’uomo, o più semplicemente un poveruomo.
“Ô mon pauvre! Ô pauvre christ!”
“Un pauvre diable?”

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21 Commenti

  1. Questi quattro movimenti del caro “ininfinito” Giovanni Campi, sono una perla di rara bellezza. Sovente lo scrivo, col rischio di ripetermi…
    Trovo in lui, la magia alchemica di una scrittura da leggere e rileggere per coglierla nella sua essenza. Giò: anima docile, creaturale, sublime.
    Credo che la prosa sia lo stile – Mon Dieu, io che parlo di stile, quando sono contraria ad ogni forma di etichetta! Pardon, mon ami – più conforme a Giovanni. Semplicemente: gli è congeniale per l’espressione sua – ed unica.

    In questa tetralogia che fa uso di un linguaggio semplificato, rispetto altri scritti, si ramificano temi a me cari: il tradimento, il sentimento del perdono, i dubbi da assolvere o da lasciare insoluti [un aspetto che adoro delle sue tematiche “cristologiche”], la ricerca ossessiva di una identità forse perduta – tuttavia rincorsa, cercata, voluta… Come Perceval col suo Graal. Accompagnato da una solitudine vermiglia, col suo malvago a cavallo, senza amore ma pieno d’amore nella desolazione di una terra riarsa e priva di vita.
    E intanto: Dio, perché mi abbandoni?

    “E lì, e lì non c’era niente, o in fine c’era un dono donato.”

    Malgrado qualsiasi persona, Signore e “signore” compresi, non siano propriamente dotati del dono dell’ubiquità, accade. Sì, accade ciò che non dovrebbe accadere, ma che nell’immaginario e nella speranza interiore accadrà: “il dire inverso l’inesistenza d’una tale improbabilità”… Entrare in due città-simbolo, varcarle aldilà di una logicità che NON vorremmo… [Ionesco e Beckett insegnano].

    Meraviglia delle meraviglie quando il “signore” varca il linguaggio: Babele.

    Meraviglia delle meraviglie quando il “signore” oltrepassa la soglia del Tabernacolo vertiginoso dal nome Babilonia.

    Abisso e vertice, ancora una volta. Cerca la diade, Giò?
    Secondo me – le variabili, le possibilità, l’assurdità che ci contengono e ci hanno contenuto all’epoca in cui eravamo Inizio.
    Ma dove sorge l’Inizio? A chi dobbiamo questo Inizio?
    Può sorgere sonoro attraverso la parola?

    Ed è bellissima l’ultima parte, priva di ogni rammarico e lambiccamento][ commovente e privo di lacune: “la banalità della formula non aveva certo nulla di magico, quest’ultimo desiderio: di non desiderare”.
    E quel fuoco che Tutto estingue, purifica, è un brillucicare eterno, dove se la meta esiste, esiste nel non-essere più. Di più: far parte del Cosmo.
    Senza divinarsi povero Cristo, o povero diavolo.

    Un vero capolavoro.

  2. Mi piacciono questi tuoi frammenti, Giovanni, e mi auguro ne seguiranno (o ce ne siano già) altri, visto che chiedono tutta un’opera: temi con variazioni come nel tuo stile, che qui si fa particolarmente raccolto e incisivo.

  3. Ciao Giovanni, ti hanno già detto che sei proprio uno che scrive roba interessante?
    Insisti e … resisti :)

    un caro saluto.

    mario s.

  4. Si comprende la reale grandezza di un’opera e l’intero suo senso solo dopo averne visto il compimento, come una strada che s’intraprende per caso e poi ti diventa destino…
    Teqnofobico/Giovanni Campi: tutto può essere, non-essere, esser-quasi vero.
    Decostruire … per costruire? “forse”, un forse che si fa metodo: dubito ergo sum … senza hybris, senza pretendere di possedere la chiave di lettura definitiva, interrogando parole, fatti, sentimenti, luoghi comuni del pensare, del sentire, del credere, sbi-lanciandosi per ri-lanciare nuove possibilità di senso e significato.
    Dal golgota alla deposizione, dalle apparizioni alla gloria, tutto ciò che è divino può essere umano, tutto ciò che è vero può essere falso, tutto ciò che è serio un gioco… e viceversa.
    Quest’attitudine artistica all’ “equivocità” è forse una delle caratteristiche che più affascina nella scrittura di Teqnofobico, rendendola particolarmente piacevole e di agile lettura (soprattutto, a mio modestissimo parere) nella forma breve del “frammento” e del “dialoghetto”, impegnativa (e non poco!) quando si esprime in forma poetico-teatrale.

    NB: Mi devi una birra “du demon” … almeno … ;)

  5. io, visto quel che resta del supereliogabalo di a. desisterei dal reimboccare queste strade, visto che hanno tanto il sentore del brocage postmoderno contro cui si scaglia tutta la crema letteraria italiana, o perlomeno, se proprio ci tieni, ambientarla in qualche paradiso tropicale dove desitono i culti del cargo. forse allora non sarebbe stato così…misero?

  6. La poesia di Giovanni Campi si gusta come lingua mistica, impronta di lotta,
    grido di umanità.
    Si alza verso il silenzio divino,
    con solo parola:
    la giustezza della vita
    il corpo sacrificio offerto al fuoco
    la disperazione e la nobiltà
    di essere uomo.

    E’ una lingua meravigliosa.

  7. Eccola la rosa senza rughe! l’ho ritrovata in un accampamento Apache,Sioux o Chissachè.Bacio sulla fronte e passo a GIOVANNI.Infedele? No, cara, fedelissima all’ infedeltà.
    Trovo straordinario ciò che viene raccontato in un modo apparentemente semplice.Poi, strada facendo, dai un calcio ad una pietra e poi incontri un crocicchio di foglie ed un barattolo (ahinoi e strali a chi inquina!).Allora e qualche minuto dopo e dopo ancora, due, oppure tre, ti viene tanto da pensare.Ti dici che la prima lettura potrebbe non essere quella corretta..E allora rileggi. Infine ti accorgi- mi accorgo- che i dubbi di Giovanni, le sue non certezze, il su-reale è il nostro.Il mio, il tuo, il suo, il loro. Che c’entra il postmoderno? Non parla di “A-she devil” Giovanni,ma di noi povericristi!!! Un abbraccio Marlene

  8. :-) Tanto per cominciare, esprimo la mia lieta approvazione, dacché questo testo non solo incontra il mio gusto, ma oggettivamente si leva nella sfera della letteratura alta, quella che non è mera descriptio factorum, e che più che mimetica è cosmogenica (da non confondere con cosmogonica, o anche).

  9. OT
    *
    Un forte abbraccio – vedi Giò, che cosa crei? – ad amici carissimi.
    Abele Longo, Natàlia Castaldi, Véronique Vergé e Marlene!
    Sì, Marlene, la rosa è anche qui – tra accampamenti indiani… :-)))

    Tutto il mio bene a voi e a Giovanni, che sa, conosce la potenza della visione e del dono.
    Vostra Nina

  10. Querida! THE ROSE( To U I dedicated the version sang by BETTE MIDLER,simply divine) IT’S YOU and only U. Sorry for I wrote my words in English but unfortunately I can’t use tne NATIVE LANGUAGE of SIOUX etc..Of course ioke! But not really.BIG JOHN is GREAT and the same I repeat to the Rose who introduced him.Is it your name’blog? Se no per favore puoi specificare il nome esatto o la mail?Mi piacerebbe conoscerti meglio e seguirti senza attraversare troppi sentieri.Sono un pò legata..coi blog e col lavoro.Stasera al Teatro Civico di Cagliari noi (Clair de Lune) abbiamo un grande musicista brasiliano di nome GUINGA con i nostri (Sardissimi) ATZINGANOS cioè GITANI o ZINGARI.Ah potessi riunire NAZIONE INDIANA alla nostra carovana!…Un abbraccio con penne di falco e melograni a TUTTI.Marlene

  11. La scrittura di Giovanni si lib(e)ra riempiendosi di senso in ogni interrogazione.
    Le mille domande del rovello metafisico non si fissano in modo categorico (leggo Giovanni da più di 20 anni e non ricordo, a memoria, un solo dogma) ma si rendono leggere fluttuando in un’aria sovraccarica (si legga: sovradeterminata) di velati omaggi (citare o riferirsi produce un “dono” = gesto di avvicinamento = prossimità intellettuale).
    Ogni centuriaccia ha il suo specifico riferimento soffiato in punta di lingua o “diktato” col “labbro” (in ebraico labbro sta per lingua) babelico della commistione (si legga: intreccio, trama, ordito, drammatizzazione).
    Questo perché ogni singolo “uno” si incunea nell’ “altro”, e l’altro, a sua volta, rischia l’innesto col successivo, e così via. Ma, beninteso, il processo non è matematicamente conseguenziale, le strade sono intercomunicanti e offrono innumerevoli punti di fuga e di rientro.
    C’è dunque un filo (a dire il vero i fili si moltiplicano a vista d’occhio) che lega (e dislega) tra loro i singoli tasselli e che forma come un flusso.
    La scrittura di Giovanni è una scrittura, per così dire, liquida, fluisce e scorre rendendosi quasi impalpabile.
    E’ una scrittura che non cerca necessariamente una “risoluzione” nella foce (il compenso del lavoro di tutta una vita si presuppone sia nel debordare dai limiti, nel riversarsi placidamente in un qualcosa di infinitamente più grande e che possa contenerci per intero, glorificando così il travaglio del percorso compiuto), né tanto meno riposa sugli allori della sua pregnante sorgività, ma continua a disseminarsi perennemente lungo il cammino da compiere.
    Non il prima, non il dopo, ma solo il “durante”.
    Parafrasando un autore caro a Giovanni, potrei dire non “prima di Pim”, non “dopo Pim”, ma solo “con Pim”.
    E “con” qui vuol dire : “con la scrittura”.

  12. intanto volevo ringraziare la pazienza con la quale dp ha atteso le correzioni – necessarie – al mio men che elementare francese che contamina il minimo conto dalla e della mina, correzioni che mi son venute a offrire effeffe, che immagino abbia anche photoscioccato lo sciocco mio dire, e véronique vergé, sempre gentile e disponibile e quante altre mai umile, d’un’umiltà che hanno solo i grandi

    e poi naturalmente tutti coloro sono intervenuti offrendo spunti alle spuntate puntate che sono queste centuriacce, e chiavi di lettura per la loro mancanza di chiave (“C’era stato un tempo in cui qualcuno era sato in possesso della chiave, ma poi, avendone fatto dono ad altri, e con essa tutto, Tutto avendo donato insieme alla chiave, e questa passando di mano in mano, ne erano rimaste solo delle copie, delle riproduzioni: non si aveva più che una vaga idea dell’idea, né più che un vago pensiero del pensiero, né più che una vaga forma della forma, e né più che un vago corpo del corpus”) alla ricerca della quale, o delle quali, mi sono incamminato come un viandante passeggero

  13. La scrittura di Giovanni mi fa sempre pensare ai dipinti di Escher, e alla musica polifonica. Le parole che scrive raddoppiano per gemmazione, le frasi invariabilmente ramificano, i concetti si avvolgono su se stessi e più volte intorno al lettore, il quale non può far altro che seguire il magico pifferaio fin nell’abisso. Ma l’abisso è un piacere babelico in cui risuonano tintinnii e rullii da sconfinate letture, e chi ha orecchio per la musica può moltiplicare il piacere di leggere ascoltando un eco assolutamente originale e infinitamente ricca di idee.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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