Il volo [Eracle #5]

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Eracle era un pensatore

di Ginevra Bompiani

Quando si alzavano in volo oscuravano il cielo. Dall’alto della collina, seduto con l’arco e le nacchere di bronzo appoggiate accanto, Eracle aspettava quel momento. Sotto di lui c’erano le paludi grigie, quasi immobili, se non per le bolle d’acqua che ciotoli che ruzzolavano o rane che si tuffavano aprivano le canne. Ma in mezzo, acquattati tra le foglie dei giunchi, c’erano loro, gli aguzzi, i becchi affusolati, taglienti come temperini, e una sull’altra strusciavano come aghi da calza le penne acuminate.

Eracle era un pensatore. Non per nulla gli posero sempre a fianco Atena, la riflessiva. Perciò, mentre aspettava, si chiedeva che cosa stava per uccidere, o per disperdere, questa volta. Non partiva alla cieca. Spesso il senso della battaglia gli si rivelava però al moneto del confronto con l’avversario. Ma questa volta non ci sarebbe stato confronto. Solo una grande ombra. Poi un agitarsi pazzo, strepitoso: poi il disperdersi schiamazzante, oppure la picchiata. Si doveva battere contro una caligine simile a quella che appanna i rami traversati dalla luce sul tetto della foresta. Aspettava il crepuscolo.

Aveva deciso di combatterli con la somiglianza: svegliarsi col clamore e fermare le loro penne con le sue frecce. così avrebbe sparigliato le ombre diceva tra sé. Quando la luce fu argentea e le ombre una scia dietro ogni foglia, Eracle si alzò in piedi, prese le grandi nacchere di bronzo e le sbatté con forza una sull’altra. Allora le canne si aprirono come un ventaglio da cui sprizzarono gli uccelli carnivori. Appena raggiunta quota composero una formazione. E a giri concentrici, come avvoltoi, sorvolarono il lago e la collina. Eracle, dritto sulle gambe, l’arco in mano, spiava.

Quando gli furono sopra, scoccò la prima freccia. Come un pezzo di brace tiepida il primo uccello precipitò dal cielo e si disfece al suolo in una polvere grigia. La formazione sbandò, stridette, poi si ricompose. Eracle tirò la seconda freccia. Di nuovo una caduta, lo scompiglio e l’ordine. Man mano che gli uccelli cadevano lo schieramento si stringeva e colmava i suoi buchi. Senza requie Eracle tirava le sue frecce una dopo l’altra, mentre gli uccelli avviticchiavano il cerchio intorno al bersaglio. Ai suoi fianchi piovevano ali brunogrigie e frecce. E la notte avanzante le confondeva col terreno.

Se tutti insieme gli uccelli si fossero lanciati contro i suoi occhi e li avessero traversati in volo, la battaglia sarebbe subito finita. Ma la loro strategia aveva leggi più rigorose, tese forse a sboccare in un’ultima mossa, fatale, di cui però non si vide nulla perché al calare della notte, un grido improvviso del capofila allineò dietro di sé la schiera e diede il segnale della partenza.

Sorvolarono la palude, il lago e proseguirono in formazione triangolare. Dalla collina Eracle li vide dirigersi decisamente verso Nord. Allora si chinò sui resti impalpabili della sua carneficina e prese in mano un animale, badando a non ferirsi con le penne; tra l’indice e il pollice pendeva il capo, sul polso giaceva abbandonata la coda. Ne osservò il corpo ben fatto e minuto, che quell’estenuante ricomporsi della formazione strategica e quel gioco di ali simmetricamente allineate gli avevano fin’allora nascosto. Poi lo buttò nel carniere insieme ad alcuni altri, prove concrete della sua vittoria: ma di quale vittoria?

Quell’ordine incomprensibile che gli avevano schierato davanti, certo non lo aveva battuto. Solo spostato più lontano, dove gli occhi timidi degli Stinfalidi avrebbero potuto dimenticarlo. Lui invece continuava a domandarsi qual era il senso di quella figura, tanto eccellente che gli uccelli durante tutto il combattimento avevano badato più a ripeterla che a difendersi uno per uno?

[Questo è il quinto di tredici racconti sulle dodici fatiche di Eracle e resto. E per dare altri numeri Il volo è incluso in una raccolta intitolata Le specie del sonno uscita nel millenovecentosettantacinque per i tipi di Franco Maria Ricci e riedita da Quodlibet nel millenovecentonovantotto. Nella prefazione Italo Calvino ha scritto Per i miti una prima volta non c’è mai stata; o ogni geroglifico si sovrappone la storia delle sue decifrazioni; è così che nel nostro confronto col mito, sia la sua immagine che la nostra immagine si moltiplicano come in una stanza foderata di specchi. E specchio sia, anche NI. La prima fatica di Eracle è qui, la seconda qui, la terza qui, la quarta qui.

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7 Commenti

  1. anche su questo tornerò e ritornerò e quanto profondamente richiama cose che ora non vedo ma solo sento.
    Sempre bella la domenica così, che risvegli

  2. Be’, sono senza parole. La figura di Eracle si arricchisce di volta in volta. Sta diventando un prisma dalle infinite sfaccettature. Anche in altri racconti avevo pensato alla sua eccezionalità che mi sembra ben visibile soprattutto attraverso il gesto. Nel momento in cui Eracle si china sui “resti impalpabili della sua carneficina” e lo fa con una delicatezza tale da non impedirgli di rilevarne “il corpo ben fatto e minuto”, io coi pensiero sono tornata alle Lezioni americane di Calvino, e in particolare a quella sulla leggerezza. Mi è tornato in mente il gesto di Perseo che depone la testa di Medusa su un letto di foglie, quasi per timore che si sciupi, che quella mostruosità senza tempo possa deteriorarsi. Perseo ed Eracle sono vincitori di mostri e mi sembrano anche accomunati da quel senso di riflessione, di humanitas, di rinfrescante gentilezza (credo che Calvino la definisse così) capace di renderli vicini all’umano. Una volta una persona mi ha detto di non amare la mitologia perché crudele, disumana… Credo di poter dire che – se proprio si preferisce non amarla – servano ben altre ragioni. Io la adoro proprio perché sento che è materia viva e incandescente. Questi racconti mi aiutano a ricordarla, a difenderne la bellezza e quell’umanità che spesso (troppo spesso) non ci riguarda.

  3. mi capita di scrivere e di pensare spesso con le parole degli altri. e in questo mio essere iterata mi ritrovo avvitata sovente su simone weil che scrive Il fondamento della mitologia è che l’universo è metafora delle verità divine. la verità divina contenuta in questi frammenti di fatiche e rivisitazioni di bompiani è che ercole ha esitato, peccato d’orgoglio e vinto come un uomo.

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