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L’ubicazione del bene

l_ubicazione_del_bene di Gianni Biondillo

Giorgio Falco, L’ubicazione del bene, 141 pag., Einaudi, 2009

L’ubicazione del bene è un piccolo libro di racconti che va letto in apnea, cercando di uscirne senza sentirsi troppo frantumati dentro. Cortesforza è lo scenario dove si svolgono le storie narrate: immaginario e perciò più vero del vero. Un sobborgo come tanti che costellano le uscite della tangenziale milanese: un luogo che pare l’emulazione fallita dei sobborghi americani, un po’ Truman show, un po’ Desperate housewives.

Ma non c’è nulla da ridere, in queste pagine. Giorgio Falco racconte le sue storie con una durezza, con una assoluta mancanza di trasporto, di pietas, che toglie, anzi taglia, il fiato. Un Carver in salsa lombarda, che si fa osservatore lucido dell’orrore, di quella continua speranza di una vita perfetta, immobile, e perciò irragiungibile. Una sorta di matematica delle illusioni, una specie di limite che tende all’infinitamente piccolo: più mi avvicino al sogno di realizzazione oleografica di una vita piccolo borghese e più la vita va riducendosi a una insignificanza senza uscita. Così è per tutti i suoi protagonisti, cristallizzati dentro tipologie comportamentali standard: un “tipo maschile” destinato a una carriera irrisolta, il “tipo femminile” a una maternità fallimentare.

Protagonista vero è Cortesforza: col suo voler essere la città ideale di ogni operatore immobiliare, si dimostra una non-città, il vero non-luogo del contemporaneo, dove nessuno passeggia sui marciapiedi, dove senza autovettura non sei degno di cittadinanza, dove la cura del prato sembra di vitale necessità, dove il vicino di casa è uno sconosciuto, un nemico, come lo sono i tuoi colleghi di lavoro, le mamme casalinghe, la tua stessa famiglia. Un mondo glaciale e ferino, disperato, dove si dimostra la sconfitta esistenziale di un’intera generazione, quella di chi oggi ha circa quarant’anni e, escluso dalla Storia, ha cercato un senso nell’illusione di un mito familiare e insediativo che era già falso quando nacque, negli anni Cinquanta, quelli dove sembra si stia tutti regredendo.

[pubblicato su Cooperazione, n. 29 del 14 luglio 2009]

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24 Commenti

  1. ottimo ! La pistola e’ in omaggio con il libro ? incuriosisce, ma forte e’ il timore di trovare tanti specchi. voglio leggerlo!

  2. Un post troppo breve per essere anche interessante. Una non-recensione. Truman show? Desperate housewives? Che c’entrano? Mah. Un Carver in salsa lombarda, bisogna ammetterlo, è originale.

  3. Il libro di Falco mi è piaciuto. Nel leggerlo, io che vivo in zona corso Lodi, a Milano “città”, mi dicevo: ‘io non sono come questi, io non sono come questi, io sono cittadino. Io, quando mi chiedono se vivo a Milano-Milano, non devo subire la microumiliazione di rispondere “no, Milano provincia”. Io non sono lobotomizzato e triste come gli abitanti di Cortesforza”. Mi ha consolato, in un certo senso. Tuttavia, come mi capita spesso, questa consolazione mi ha insospettito.
    Senza nessuno spirito polemico verso la recensione e il libro stesso, mi permetto quindi un piccola provocazione: è così palese la differenza tra la metropoli Milano le varie Truccazzano con Puttanengo o Usmate sul Membro?
    Mi spiego: Biondillo descrive queste non-città come luoghi dove “dove nessuno passeggia sui marciapiedi, dove senza autovettura non sei degno di cittadinanza, dove la cura del prato sembra di vitale necessità, dove il vicino di casa è uno sconosciuto, un nemico, come lo sono i tuoi colleghi di lavoro, le mamme casalinghe, la tua stessa famiglia.” E potrei aggiungere: nel compiaciutissimo ‘Caro diario’ di Nanni Moretti vediamo il cittadinissimo vespato attraversare Casal Palocco e sentiamo la sua voce-off denunciare schifato la presenza di uomini che stanno in casa in tuta, vhs noleggiati e pizze surgelate…Poco importa che la realtà urbanistica del hinterland romano sia profondamente differente da quella milanese o torinese. Sia Falco che Moretti peccano, a mia avviso, di un certo elitismo urbanistico, convinti che l’urbanistica possa influenzare le menti laddove, invece, di tute (e pizze surgelate, asettici prati condominiali da tenere verdi per il buon decoro, vicini sconosciuti, auto parcheggiate) è piena anche e soprattutto la città.
    Non so dire se è stata la provincia a invadere con il proprio specifico desolante la città, oppure viceversa. Non mi interessa saperlo, in un certo senso. Quello che so, vedo, è che il centro di Milano alle 21 è deserto, nessuno per le strade. Idem dove abito io, fatto salvo per qualche banda di latinos che affolla le ramblas sotto casa per bersi una birra e sentire musica dagli stereo nelle macchine parcheggiate.
    Quindi: dov’è la differenza?
    Frequento spesso case e ambienti di amici nell’hinterland. Beh, lasciatemelo dire: sono desolanti, certo. Eppure avverto una desolazione identica alla mia e a quella di altri miei amici “cittadini”. Con un’aggravante: a Cortesforza, quando è primavera, te ne accorgi, senti l’odore del glicine fiorito che spunta dalla casa del vicino “sconosciuto”. E’ già qualcosa. Io ho pochi alberi intorno al mio palazzo. Non saprei dire se è autunno o primavera, poche foglie morte per terra, pochi colori della natura, pochi profumi nell’aria. E a casa spesso sto in tuta. E ieri sera, con triste gusto, ho pure mangiato una pizza surgelata.

  4. Basini,
    io parlo di questo libro. Ma se ti capiterà mai di leggere qualcosa di mio (anche qui su NI) scoprirai come io creda che Cortesforza sia a tutti gli effetti Milano. Che Milano sia una città enorme, che arriva fino a Como, fino a Bergamo. Come piazza del Duomo di sera mi faccia molta più paura di Gratosoglio. Di come Quarto Oggiaro sia un posto migliore dove vivere, di certi angoscianti quartieri borghesi. etc. etc.

  5. Gabriele,
    la modalità delle recensioni su riviste implica un numero fisso e limitato di battute. Avessi avuto la possibilità di fare un lungo saggio avrei scritto altro, e più approfonditamente. Con 2000 battute ti devi ingegnare.

  6. Gianni, appunto per quello te l’ho scritto. Qui su NI non hai limiti nè alle battute nè all’ingegno, o sbaglio. Questo libro di Falco merita approfondimenti più seri. E tu lo sai meglio di me.

  7. Biondillo lei fa sempre proposte interassanti, ultimamente poi sta veramente dando il meglio.

    Concordo appppieno sulla definizione di Milano che include in se anche la provincia piu’ estrema, la vecchia Milano, di per se, è una città concentrica, una sorta di grande piazza, ormai.

  8. 18 settembre ’09
    Il paragone con Carver è fuorviante, a mio avviso.
    Non la definirei nemmeno una raccolta ma, più concretamente, un romanzo ad episodi.
    La scrittura di Falco, in questo libro, è volutamente asettica. Chirurgica. Un rasoio affilato.
    Le vere ossessioni presenti all’interno di ciascuno degli episodi che va a formare questo romanzo di racconti sono due: la casa e gli animali (insetti?).
    Il cane, i pesci di “Oscar”, i ratti del secondo racconto. L’appartamento, l’agenzia immobiliare, il mutuo.
    Quello messo in scena da Falco è un psicodramma collettivo che si consuma, silenzioso, tra le mura domestiche o nel traffico della Tangenziale.
    Sintetizza in maniera lucida alcuni dei vizi capitali della contemporaneità: l’assenza di legami; il disperato individualismo; la mercificazione degli affetti.
    Il pregio più grande, a mio avviso, è l’elegante equilibrio compositivo.
    L’episodio più riuscito, oltre al bellissimo “Oscar” (che ci rimanda al Falco di “Pausa Caffè”), quello dell’imprenditore alle prese con l’impresa di disinfestazione da lui stesso ideata.
    Rimane, alla fine della lettura, una duplice sensazione: da una parte un impressione di “non finito”, di un romanzo che poteva essere, in qualche misura, completato, ampliato; dall’altra il dubbio che l’autore abbia volutamente creato un dispositivo narrativo in grado di dare una rasoiata al lettore, senza sentire la necessità di affondare il colpo.
    Stilisticamente pregevole.
    Romanzo di cervello e non “di pancia”. Strizza un occhio alla critica e sputa in faccia al pubblico.
    Bello. Da leggere.

  9. Credo che leggerò questo libro. Una cosa voglia dirla: Milano è molto meglio della provincia. Essere “metropolitani” è sempre meglio. Io vivo e lavoro a Treviglio. Non è più hinterland milanese ma quasi (è provincia di Bergamo). Non c’è un certo tipo di degrado, perchè si tratta di una cittadina che mantiene una sua identità. Ma questo è, anche il suo limite. Io per respirare devo venire a Milano. Solo a Milano rientro in un orizzonte di possibilità, di vivibilità culturale e sociale. La provincia, soprattutto al nord, resta un esilio.

  10. .. sespirare a Milano ?? tos..tos..toss .. beato tè che ci riesci?

    .. dove stà tutta questa vivibilità culturale?…

    .. pensare che io mi vado ad infilere tra i monti del varesotto per trovare qualcosa di minimamente decente.

    tornerò a Milano, vediamo che cosa presenta di nuovo, ma da dove comincio a tartufare?

  11. ne deduco per opposizione che, secondo Biondillo il vero luogo-luogo del contemporaneo è pieno di gente che passeggia sui marciapiedi, dove tutti vanno in bici e sprezzano chi va in macchina, dove nessuno si cura dei prati e quindi le erbe crescono a volontà, dove il vicino di casa è uno molto affettuoso che ti saluta da lontano e ti chiede come stai e ti invita continuamente a cena, insomma un vero amico, come lo sono i tuoi colleghi di lavoro, anch’essi pieni di affetto, dove tutte le mamme sono in carriera, ma attente e piene di tenerezze per tutta la famiglia che a sua volta è un vero nido di comprensione e solidarietà…

  12. comunque oggi ho comprato il libro, Gianni.
    credo che occorra distinguere l’hardware urbano (città fisica) dal software urbano (città sociale e relazionale) e poi cominciare a dire se l’uno condiziona l’altro, o viceversa, e perché.
    altrimenti tutto diventa un po’ troppo semplice.

  13. Tash, cazzo, sono cose che dico e scrivo di continuo. Se poi tu non le leggi, non puoi, poi, mettermi in bocca cose che non penso.

  14. Mi sembra che parlare male di Milano sia, negli ultimi anni, una sorta di “dovere” di chi sta più o meno a sinistra. E’ un luogo comune, un automatismo come tanti altri. Non sono un architetto o un urbanista, ma non sono d’accordo con chi crede in una “Grande Milano” che comprende anche Como o Bergamo. Io non posso esprimermi riguardo Como, ma conosco Bergamo e provincia e so che non hanno niente a che vedere con Milano. Sì, forse sul piano dell’hardware, ma il software è differente. Ho l’impressione che alcuni di voi la “provincia” non la conoscano affatto, altrimenti sapreste che, appena ci si allontana da Milano, il tanfo di leghismo diviene insostenibile e si percepisce la mancanza – tipica di un certo nord – di una vera cultura laica. In questo senso io posso “respirare” solo a Milano, dove la realtà si dispiega nella sua complessità, nel bene e nel male.

  15. paolod dice cose interessanti: milano è culla della modernità europea e della laicità italica, ma altrove, a pochi chilometri, l’influenza della città si attenua con una rapidità sorprendente.
    la mia è solo un’impressione, ma a quanto pare le cose stanno proprio così.
    insomma se possiamo ormai considerare la lombardia come sede di un’unica enorme urbs di dimensioni regionali, all’interno di questa sussitono, convivono et prosperano civitates molto diverse tra loro e diverse da quello che a tutta prima sembrerebbe esserne il centro, milano, che invece a quanto pare non lo è più.

  16. Sono solo annoiato da tutte queste chiacchiere scritte da gente che a Milano non ha mai vissuto e da turista o lettore si lascia frodare dalla sua immagine surrettizia.

  17. @AMA
    non ostante sia inutile inter-loquire con te e con la tua noia, vorrei solo precisare quanto segue: non occorre aver vissuto a Milano, basta aver vissuto in questo paese per tutta la seconda metà del Novecento, leggendo i giornali e qualche libro, esercitandovi un mestiere, coltivando a fondo una disciplina, per sapere cosa ha significato Milano per la cultura italiana degli ultimi sessant’anni.
    per dire.

  18. E’ un libro in cui forma e contenuto aderiscono molto bene. E’ un canto di quotidiana, metafisica angoscia. Funziona, in effetti, come il bel libro della Strout, OLIVE KITTERIDGE, ovvero si può leggere anche come una raccolta di racconti (uno per ogni capitolo); tuttavia è indubitabile il respiro univoco della narrazione presa nel suo complesso, una sorta di polifonia dell’impotenza esistenziale.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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