Videocracy – Intervista a Erik Gandini

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di Isabella Mattazzi

Che cosa è una “videocrazia”? Che cosa vuol dire subire, giorno dopo giorno, le conseguenze di un “esperimento televisivo” che dura da trent’anni? L’ultimo documentario di Erik Gandini non è soltanto una ricognizione sull’Italia berlusconiana e sulla società delle veline e dei reality show. Videocracy è soprattutto un lungometraggio sull’uso politico dei mezzi di comunicazione nella cultura di massa. È un prezioso documento sul potere senza pari che le immagini stanno assumendo nella nostra contemporaneità. Sulla loro forza persuasiva. Sulla loro capacità di sovrapporsi al mondo della realtà e di reinventarne la forma, di modificarne la struttura. Abbiamo chiesto a Erik Gandini di parlarne con noi all’interno di un più ampio dibattito sulla sua esperienza di film maker indipendente.

Qualche anno fa hai definito la “Storia” come un concetto in movimento, una sorta di agglomerato caotico di avvenimenti, luoghi, figure in forma continuamente mutevole.

La cosa è nata facendo il film su Guevara nel 2001 (Sacrificio. Who betrayed Che Guevara?, uscito in Italia per Rizzoli). Il Che per la generazione che mi ha preceduto è stato una sorta di icona, un argomento sacro, quasi intoccabile. Girando il film, cercando di affrontare un personaggio così ingombrante a distanza di più di trenta anni dalla sua morte mi sono accorto invece di quanto la realtà, il puro concatenarsi dei fatti fosse invece a volte completamente distante dalla versione ideologica prodotta da Cuba. Come se la realtà intravista, ascoltata, filmata durante le riprese si ostinasse continuamente a fuggire, a fuoriuscire dai codici narrativi di un modello drammaturgico, quello dei media, troppo rigido per contenere invece la molteplicità delle voci e degli avvenimenti. Le parole con cui Felix Rodriguez, agente della Cia, parla del “fallimento” di Guevara in Bolivia, sarebbero state impensabili ad esempio fino a qualche tempo fa per una qualsiasi narrazione “di sinistra” della storia del Che.

Da una parte quindi la “realtà”, il labirinto delle voci e dei fatti. Dall’altra le griglie narrative, i filtri attraverso cui far passare un’unica versione “storicizzabile” del mondo. E il documentarista allora, potremmo dire, in mezzo a questi due universi?

Sì, il ruolo di film maker è in realtà un privilegio. Il documentarista non ha alle spalle redazioni, grosse case di produzione. Se tu sei un indipendente puoi avere accesso, venire in contatto con delle verità interessanti molto più di quanto potresti farlo se tu fossi un giornalista della CNN dove tutte le scelte sono condizionate da una struttura. Oggi poi, la tecnologia, il digitale, hanno reso i mezzi tecnici per realizzare un documentario molto più agili, alla portata di tutti venendo a soddisfare quello che io credo un grande bisogno di verità della gente, di “libera curiosità” intorno ai fatti. La nostra società soprattutto, la società televisiva ha relegato la realtà in un luogo inaccessibile al pubblico. La realtà è lontano da noi, più immagini ci sono della realtà e più la realtà si allontana dalle persone.

Del resto anche il caso Guantanamo, di cui hai parlato nel tuo documentario Gitmo-The new rules of war del 2006 (distribuito in Italia da Fandango), ricalca esattamente questo scollamento fortissimo tra realtà e modelli narrativi. Guantanamo, oltre che essere un carcere militare mi è sembrato essere anche un fenomeno mediatico di portata planetaria.

Certo, Guantanamo è stato per l’America oltre che un esperimento di metodi di interrogatorio non convenzionali, anche un grande esperimento di comunicazione con i Mass Media. Camp Delta, che nel 2006 era uno dei luoghi più blindati e inaccessibili del mondo, all’apparenza veniva presentato come un universo trasparente, aperto allo sguardo di tutti. Per i giornalisti che arrivavano lì da tutto il mondo si organizzavano gite dove ti facevano fare per tre giorni il giro assolutamente inutile dei campi da golf e delle palestre riservate agli ufficiali, e dove un tenente, dalla faccia angelica e dagli occhi azzurri ti raccontava continuamente che andava tutto bene e che tutti erano molto contenti di stare lì. E il bello è che era tutto così perfettamente organizzato da farti davvero pensare che Guanatanamo fosse il tenente Moss.

Un esperimento anche linguistico direi, con un uso tutto nuovo delle parole.

I detenuti sono trattati, ti dicevano, nello “spirito” della Convenzione di Ginevra, il loro rifiuto di mangiare non era altro che una “dieta volontaria”, il suicidio di tre prigionieri all’interno del carcere è stato definito”un atto di guerra contro l’America”. Lo studio degli usi politici del vocabolario di Guantanamo ha rappresentato certamente uno degli aspetti più interessanti di questo film.

Con Videocracy, mi sembra che l’aspetto “politico” della comunicazione nella società di massa contemporanea sia un elemento, ancora una volta, di assoluta centralità.

Così come Guantanamo è stato, a ben vedere, un progetto di grande “successo comunicativo”, anche la realtà politica italiana di oggi è tutta un’enorme operazione mediatica di public relation. A Guantanamo più di ogni altra cosa era importante che tu, giornalista, sapessi che andava tutto bene, che tu, visitatore, ti sentissi sempre a posto, e anche nell’Italia di Berlusconi non contano più di tanto i fatti, quanto invece le emozioni, le impressioni emotive, le suggestioni.

Del resto credo che questo sia ormai diventato un fenomeno di portata globale. Le cose stanno cominciando a funzionare in questo modo praticamente dappertutto. Semplicemente l’Italia è più interessante di altri paesi perché questo fenomeno, da voi, ha toccato vertici che non sono ancora stati raggiunti da nessun’altra parte.

E la Svezia, allora ?

No, in Svezia la televisione non è ancora stata usata come arma per il potere politico. Non soltanto sui canali pubblici svedesi non esiste la pubblicità, ma soprattutto in Svezia c’è una sorta di tacito accordo tra giornalisti e pubblico riguardo al tema della verità. Se in Italia gli attacchi giornalistici al governo, alla destra, vengono sempre recepiti dal pubblico come “opinioni”, in Svezia quello che viene scritto sui giornali o quello che viene detto in televisione, se presenta prove inoppugnabili, ha invece garanzia di verità, con un peso e un impatto sull’opinione pubblica totalmente diversi.

Come è stato realizzato il progetto di Videocracy ?

Il mio documentario non è stato girato nei termini classici di un attacco frontale, alla Michael Moore per intenderci, ma rappresenta invece una sorta di grande viaggio straniato all’interno del mondo dei backstage, delle veline, dei casting per l’Isola dei famosi o per il Grande fratello. Come una specie di “Alice nel paese delle meraviglie” con una telecamera in mano, ho intervistato tutta una serie di personaggi, da Lele Mora a Fabrizio Corona, tutta una serie di elementi più o meno inconsapevoli della “macchina di propaganda televisiva” che, devo dire, nel loro assoluto egocentrismo sono stati tutti estremamente disponibili a esporsi.

Per Videocracy, quindi, ti sei dovuto occupare più di video, di spezzoni, di foto, che della realtà stessa. L’oggetto privilegiato della tua indagine, il materiale principale su cui hai lavorato, è lo stesso materiale che, in fin dei conti, produci anche tu: le immagini. Che cosa ha significato per te riflettere sul “potere politico” della telecamera? Sul tuo stesso “potere politico”?

La cosa che mi è sembrata molto interessante, durante le riprese, è stato il rapporto con questo mondo interamente basato sul successo, in cui girano capitali enormi, e in cui io sono riuscito a muovermi liberamente anche grazie alla mia assoluta insignificanza (agli occhi delle persone che ho intervistato, io non ero nessuno. Questo universo mediatico non sa neppure che cosa sia un documentario, o comunque non se ne interessa). Io non faccio parte di alcun movimento politico e rivendico moltissimo il fatto di essere indipendente. Il mio personalissimo “potere delle immagini” è quello del singolo operatore, del pesce piccolo, lontano dai grossi apparati, dai grossi meccanismi di produzione, che grazie alla propria indipendenza riesce a creare qualcosa di interessante. Anche Saviano, all’inizio, ha fatto così. Anche la D’Addario, se vogliamo, con il suo piccolo registratore si è riappropriata del “potere politico” del singolo.

Mi stai dicendo allora che la comunicazione, le immagini sono diventate ormai una forma privilegiata di modificazione e di trasformazione della realtà, più che un suo specchio oggettivo?

Direi di sì. Berlusconi di fatto ha modificato l’Italia a colpi di tette e di culi. Io credo che oggi, più che tra destra e sinistra, si stia creando una nuova forma di divisione: quella tra spettatori attivi e spettatori passivi. C’è una guerra in atto, con tutta una serie di nuove regole, tra alto e basso. Questa guerra si sta giocando sul terreno della comunicazione e, oggi come oggi, abbiamo tutti gli stessi mezzi per partecipare. Nel momento in cui io, singolo individuo, divento un “osservatore attivo”, nel momento in cui io ho una telecamera in mano, assumo un enorme senso di forza. Lo ha spiegato benissimo, in un’intervista, Fabrizio Corona. Nei casting, l’unica cosa che hai da vendere è il tuo corpo. Se il tuo corpo non va bene, non piace, allora la fotocamera del tuo cellulare, la tua macchina digitale diventano la tua arma. Nel momento in cui tu fotografi i vip (che in Italia, oggi, rappresentano “l’idea del potere” molto piu dei politici), nel momento in cui li riprendi con una telecamera, ti appropri di una parte della loro forza. Puoi vendere quelle foto, a loro o ai giornali, puoi avere soldi in cambio, puoi ricevere favori. Hai finalmente una voce per contrattare.

Nella tua storia personale di documentarista italo-svedese, hai deciso di lavorare e vivere a Stoccolma. Pensi che in Italia ci possa essere il terreno per fare dei buoni documentari?

Si parla tanto in Italia di polarizzazione tra destra e sinistra, come se non ci fosse l’idea di una verità unica dei fatti. Nei vostri scandali è come se tutto diventasse un problema di opinioni e non di verità. “Sixty minutes” è un programma americano che ha fatto scuola in tutto il mondo come esempio di giornalismo indipendente dalla politica e interessato ai soli fatti. Nella società televisiva italiana, un programma del genere verrebbe invece immediatamente accusato di essere “di parte”. In Italia c’è stata poi tutta la tradizione del neorealismo, del cinema che esce per la strada a raccontare le cose con e per la gente, anche se adesso tutto questo si è perduto: ormai qui ci sono più opinionisti che film maker, anche se ci sarebbero moltissimi spunti per dei buoni film. In Italia in effetti c’è un po’ troppo questa cosa del “grande uomo”, di quello che sa parlare bene, che ogni volta commenta e racconta il fatto. Il documentarista invece è un altro tipo di intellettuale, è una persona che non conosce esattamente quello che troverà. Il suo è un mondo dove le cose non vengono per forza raccontate e poi subito commentate, ma soltanto osservate, guardate da una persona discreta, attenta e nello stesso tempo silenziosa, che va e viene con una telecamera in mano.

(pubblicato su Alias, 5/9/2009)

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3 Commenti

  1. Cosi come ci vuole un italiano all’estero per descrivere tale situazione nel nostro paese, allo stesso modo sembra necessario uno straniero che venga a salvare l’Italia, come un moderno Garibaldi quando andò i n America Latina..

  2. “anche la realtà politica italiana di oggi è tutta un’enorme operazione mediatica di public relation……Del resto credo che questo sia ormai diventato un fenomeno di portata globale. Le cose stanno cominciando a funzionare in questo modo praticamente dappertutto.”

    sono d’accordo

    “Semplicemente l’Italia è più interessante di altri paesi perché questo fenomeno, da voi, ha toccato vertici che non sono ancora stati raggiunti da nessun’altra parte.”

    non concordo.
    USA docet.

  3. Ma, vorrei fare una breve riflessione marziana, sperando di non essere frainteso.

    1) sto leggendo l’ultimo Altieri, noir durissimo supermetal, ed ecco una definizione del paese di Videocracy: “il malpaese del tele-calcio-coglioni”; ovviamente non siamo tutti così, ma si può dire che una maggioranza statistica lo è;

    2)sbirciavo uno di quei quotidianetti freepress, che davano la notizia dell’apertura di un negozio di parrucchieri, il primo della catena di quel soggetto di nome Corona, che veniva presentato come “la star di Videocracy”.

    Orbene: è giusto denunciare tutto questo, sviscerarlo, analizzarlo, smontarlo, ma alla fine temo che si finisca per aumentare continuamente la statura mediatica di questi personaggi, che sono dei supereroi pop, compreso il soggetto-horror che mostra orgoglioso il computer palmare con la svastica sul video (non lo nomino perché è disdicevole anche il sol,o pronunciare questi nomi e cognomi); compreso il Sultano coreano-italiano che, qualunque obbrobrio commetta, qualunque bugia splatter pronunci, qualunque attacco riceva dai giornali del resto del mondo, continua a salire nel gradimento dei tele-calcio-dipendenti.

    Dunque, a mio parere è giusto ma non serve a un tubo; anzi, è giusto ma ci facciamo del male. E’ marziana, vero?

    Io credo che dovremmo occuparci d’altro, pensare al bene, a noi stessi, alla nostra minimalità, al nostro essere minoranza che tale resterà ancora a lungo, alla nostra resistenza, e non parlare mai con quei mostri, a evitarli, ignorarli, a non andare in televisione a respirare la loro stessa aria (per chi va in televisione ovviamente), per cercare di curare noi stessi, senza infettarci con le loro metastasi.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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