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Toccare il fondo

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Ritorno nella Calabria profondissima, ossia la Locride

di Giuseppe Zucco

Da questo piccolo paese oltrepassato e venduto,
dominato da caste economiche e oligarchie incontrollabili
e criminali, condannato a questo ruolo servile e senza
speranza nell’imbuto della storia immobilizzata.
(Antonio Moresco)

Come sognare la Calabria sull’aereo di ritorno delle 21.25.
Ho sognato la Calabria tutto l’anno. L’ho sognata come si sognano le cose pure e perfette, senza lividi, senza sangue, un quadretto immaginario appeso al chiodo del distacco, della lontananza, di me stesso migrato dieci anni fa, non sapendo che ne sarebbe stato di me e del mio sangue.
L’ho sognata a Milano, in continuazione, tutte le volte che ho potuto, il giorno in cui pioveva a dirotto, e quando il cielo era velato e metallico – una carta stagnola che ci avvolge tutti, e ci rende ancora più allineati, concentrati e produttivi, ognuno perso nelle spire prevedibili della vita, nel girone delle circostanze e dei pensieri, senza la possibilità di staccare lo sguardo verso l’orizzonte, ormai fuori portata, invisibile tra il cemento, l’asfalto ed i lampioni.
Ho sognato il mio mare e la mia terra, ho percepito i flussi del mio sangue spostarsi tra le arterie e le vene in sintonia con i flussi delle acque e delle terre, con le maree che montano e muovono interi continenti d’acqua scintillante, con i movimenti impercettibili della terra che si assesta, con l’erba che fende la terra e sale, piegata dal vento e bruciata dal sole, un’erba ancora più dura, secca e viva insieme.
Sogno la mia terra anche sull’aereo. Mi addormento dentro la cadenza delle voci che sento intorno a me: sono a Linate, ma dentro l’aereo sono già in Calabria. I passeggeri parlano la lingua madre, le voci sono scese dal linguaggio neotelevisivo italiano e ripiegano nel dialetto, nelle ti perennemente doppie, nelle erre non più arrotondate, nelle acca aspirate, nei suoni duri e misteriosi dismessi nella pianura padana.
Mi addormento sull’aereo dell’Alitalia. Non calcolo le hostess, non considero l’espressione facciale delle hostess in divisa bianca e verde che ci guardano con un distacco infinito, neanche accetto i salatini, semplicemente dormo appoggiato all’oblò, mentre l’ago bianchissimo dell’aereo infila le tenebre e lo spazio, e ricuce con piccole virate successive la distanza e la memoria, il flusso del mio sangue con il flusso del mio mare e della mia terra.
Ma nei miei sogni aerospaziali, non percepisco la parola pace, né prevedo dolcezza alcuna, ed è una cosa che mi accade sempre, una cosa che non credo avrà mai fine: più mi avvicino all’aeroporto di Reggio Calabria, più i miei sogni diventano tristi e malinconici. L’ago bianchissimo dell’aereo buca e infila la bolla dorata dei miei sogni. I semi della pianta di un dolore particolare cadono su di me, e attecchiscono, e germogliano. Non sento più l’esigenza di tornare in Calabria. Cioè, vorrei tornarci, e allo stesso tempo vorrei che l’aereo bucasse altre masse d’aria, solcasse nuove atmosfere, spingesse la sua rotta su altri meridiani e paralleli, e poi precipitasse e atterrasse in un posto dove il mio sangue non è mai stato, un posto dove ricominciare tutto da capo, una volta per tutte, annullando la memoria, pulendo il mio sangue e le mie ossa dai ricordi – i segni, le immagini e i lividi che la mia origine mi ha impresso dentro.
Su ognuna delle mie ossa ci deve essere una tacca. Quando atterro, e l’aereo si svuota, e l’aria calda di salsedine viene a prendermi fin dentro l’aereo, non ho ancora finito di contare le tacche. Mi alzo, smetto di leccare i lividi. Inclino il capo davanti, le hostess mi restituiscono il saluto, e scendo giù per le scale dell’aereo.
Quando poso i piedi a terra, tocco il fondo: sono sulla punta estrema dell’Italia di cui nessuno si occupa, la Calabria che nessuno conosce, qui dove tutto accade e niente cambia davvero.
Ritiro le valigie e abbraccio mio padre. I miei lineamenti, il mio sangue e le mie ossa, sono simili ai suoi. Parliamo di me finalmente in ferie, di lui ancora al lavoro, della nostra famiglia e di qualsiasi altra cosa mentre la macchina risale la Statale 106. Sulla destra, dietro il finestrino, monta la massa scura del Mar Jonio. Meno di due ore, e siamo a Locri, dove tutto è iniziato.

Cosa c’entra la Calabria con la Germania.
La prima cosa che faccio è rientrare dentro la mia famiglia. Sono stato via tutto l’anno per lavoro, e adesso devo recuperare il tempo perduto, risalire le vie del sangue, ripercorre le generazioni, riannodare la mia storia alla storia complessiva della mia famiglia, allagando con il mio sangue l’alveo del sangue di famiglia, adesso che è raccolto su questa terra, prima che scorra e si ramifichi ancora e ovunque, incrociando altre linee di sangue ed altri destini.
La macchina non infila solo la Statale 106. Ma anche il cielo azzurrissimo, i puntini di sospensione di piccolissime nuvole, l’erba bruciata e le canne ai lati della strada, la terra riarsa e gli aranceti. Sto andando a casa dei miei zii. La macchina punta una zona a metà tra Bianco ed Africo. Ci sono io, in macchina, i miei genitori ed i miei fratelli. Mio padre guida, ma non gli riesce proprio di infilare beato il nastro di asfalto, così preme sulla frizione, ingrana le marce, e senza neanche mettere la freccia stacca le altre auto a sinistra, in velocità, una velocità che intimorisce mia madre, che sbianca le nocche della mano di mia madre attaccata allo sportello, al punto che tocca a me stare a guardare le facce di chi superiamo, altre famiglie in corsa leggera sulle auto che ci guardano con rassegnazione e indifferenza, girando lo sguardo direttamente sul mio finestrino, non riuscendo a capire cosa anima la nostra velocità, quale motivo ci consente di bruciare tanta benzina su un nastro d’asfalto posato sul fondo dell’Italia, mentre l’oro liquido del mare riluce ed abbaglia, e noi infiliamo in velocità la luce, tutta questa luce, l’oro della luce e dell’aria.
In meno di mezz’ora, infiliamo il cielo, l’asfalto, la terra riarsa, tutti i paesi che punteggiano la costa jonica. Superiamo anche Bianco, e poi lasciamo la statale, tagliamo a sinistra su una strada stretta, e anche mio padre rallenta, costeggiando le buche, alzando la polvere, chiudendo i finestrini, evitando che le canne e i rovi ci possano graffiare.
Infiliamo gli ulivi, le melanzane nei campi, i filari dei pomodori, il sonno delle patate e delle cipolle che sbocciano sottoterra, l’ostinazione e la vitalità degli uomini che spaccano la terra, che seminano su questa terra bruciata.
Le ruote rallentano, sfrigolano le ruote tra la polvere e i sassolini. Scendiamo. Entro dentro la casa degli zii, e non si sente un rumore. Solo le infradito e le ciabatte allineate al muro, i teli da mare stesi su un filo, le sedie sparse sul terrazzo, i giochi dei bambini esplosi ovunque. Ogni millimetro della casa abbandonata degli zii è colonizzato da camion, macchinine, spade, archi, frecce, palloni, maschere verdi e azzurre, dal gioco segreto e vivacissimo dei cuginetti, i figli di mia cugina Giulia, due piccoli cuccioli umani dai capelli castani, gli occhi azzurri, una perfetta dizione milanese con tutte le e aperte. Le tracce del loro passaggio risucchiano via ogni considerazione, ma anche le api, i gerani, le palme del giardino degli zii. Il loro piccolo sangue sta rimettendo in moto le oscillazioni del sangue generale di questa famiglia e di questa terra, della famiglia e della terra che adesso è esplorata come un gioco, come l’orizzonte in cui collocare tutti i giochi possibili.
Megghiju aviri sangu chi aviri robba, mi ha riferito una volta la zia Lina, la sorella ottantenne della nonna, una delle ultime superstiti della famiglia novecentesca della nonna composta da undici persone, e mentre lasciamo la casa abbandonata e prendiamo la stradina che porta alla spiaggia, intuisco appena la forza, la minaccia, la gioia, la coesione, l’asfissia, il rumore gioioso del sangue e della terra che contengono queste parole: meglio avere sangue e persone accanto che possedimenti e animali e alberi da frutto.
Cammino sulla stradina di sassi e polvere. Cammino tra le voci della mia famiglia in costume, e la stradina perde la durezza dei sassi, diventa solo polvere, e poi sabbia, e spiaggia. Affondo appena i piedi, quando il mare comincia a brillare, una strisciolina di luce azzurra infilata tra cielo e spiaggia, una strisciolina che ad ogni passo si allarga, monta, schiuma e riluce.
In cima alla spiaggia, prima di rigare in discesa la forma di questa spiaggia, forma su cui l’acqua e il vento ci hanno lavorato su per tutto l’inverno, il mare ci allaga la vista. E noi affondiamo nella sabbia abbagliati, affondiamo con la mano appoggiata alla fronte per riparare gli occhi, ricaviamo dentro l’ombra della mano la vista: gli zii e il nonno seduti, i cugini e gli amici sdraiati che prendono il sole, i cuginetti che corrono con i braccioli, piccoli umani in controluce che sfiniscono in corsa leggera il paesaggio stabile e millenario di questa terra.
Qui dove abbraccio il nonno centenario, qui dove il nonno di centouno anni in camicia bianca, bretelle nere, pantaloni corti e occhiali da sole mi chiede come sto, qui dove l’ultimo arrivato della famiglia sfinisce l’estate in corsa leggera dopo essere nato lo stesso giorno in cui è nato il nonno ma novantanove anni più tardi, qui dove le parole non bastano per ricucire il sangue, qui dove ci si bacia e ci si abbraccia per secondi lunghissimi, qui dove si contano le pieghe e i segni che la vita ha tracciato sulla mia pelle e sulla pelle generale della famiglia, qui dove si sorride per i miei capelli bianchi che cominciano a predominare sulla sinistra come la tradizione e le doppie eliche del dna familiare vogliono, proprio qui dove il sangue di una parte della mia famiglia si ricompone affluendo intercontinentalmente da Sydney, Milano, Reggio Emilia, Locri, esattamente nel punto in cui il mio sangue e la mia terra coincidono riunendo tutte le generazioni, qui mi raccontano che una volta sono sbarcate sulla spiaggia deserta duecento persone, quattrocento occhi sgranati, facce e occhi di-sperati che non so immaginare, facce segnate dal viaggio, la fame, il caldo, il mal di mare, uomini di nazionalità indefinita che alla prima persona avvistata hanno chiesto in un inglese rudimentale se questa spiaggia fosse Dusseldorf, se la terra che calpesto adesso e che coagula ancora il sangue e le generazioni sia la stessa terra sognata in viaggio, lo stesso posto immaginato con forza per non soc-combere a queste condizioni, alla furia degli uomini e del mare, alla scarsità di acqua dolce, di cose buone da mangiare, di una parola: pace.
Mi spoglio. Rimango in costume. Sono bianchissimo, e i denti generali della mia famiglia brillano tra la pelle abbronzata quando spiego che il bianco eccessivo della mia pelle in realtà è nebbia, che toccherà lavare via tutta la nebbia prima che mi abbronzi anch’io, sebbene la nebbia a Milano sia un evento rarissimo.
Prendo la rincorsa. Aggiusto i passi toccando in rapida successione il fondo di questa terra. Stacco in corsa le punte dei piedi da terra per non sentirne il contatto, per esserci senza esserci davvero, per ricevere solo la spinta. Corro sulle punte evitando di toccare il fondo anch’io, di non sapere più distinguere niente, il bene personale dal bene comune, l’interesse privato dagli interessi collettivi, la storia del mio sangue dall’epica del sangue generale della mia famiglia – la diramazione del sangue generale di famiglia che incrocia nei punti più disparati il più grande e vorticoso sangue degli esseri viventi.
Entro nell’acqua con le mani, le braccia, la testa, il torace, le gambe e i piedi, tutta la massa bianca dei muscoli provati dall’afa padana. Apro l’acqua in due e vado giù in profondità. Un paio di bollicine dalle labbra, e ritorno in superficie. Metto le braccia una davanti all’altra. Il mare mi ricuce intorno un orlo di schiuma bianca. Taglio l’acqua con le braccia e i piedi, nuotando con la testa sotto, fino a quando mi reggono i polmoni. Mi fermo un attimo prima di sfinire. Il cuore è questo un ani-male impazzito nella gabbietta delle costole.
Riposo appena, senza più muovermi, poi viro lo sguardo dall’orizzonte alla costa. Senza rendermene conto guadagno il punto di vista dei duecento migranti che sono sbarcati su questa spiaggia. Da qui posso amare senza riserve la Calabria. È tutto così ordinato, con la collina bianca dietro il promontorio disegnata così bene, e gli eucalipti appena dietro la spiaggia che ondeggiano la massa verde delle foglie lunghe in modo così giusto, e l’erba dorata che riverbera nell’aria tutta questa luce, che potrebbe benissimo essere la terra promessa, una delle forme del paradiso. Gli occhietti delle creature viventi che popolano la massa scura delle acque sarebbero d’accordo, ed io percepisco il loro assenso mentre mi ruotano intorno, sfidando la mia presenza e la forza delle correnti, dei flussi del mare in sintonia con i flussi del mio sangue, che infila velocissimo le arterie e le vene e mi riporta in spiaggia, una bracciata dopo l’altra.
Quando i cuginetti vengono a chiedermi chi sono, io rispondo l’Involtino Primavera, poi mi sciolgo dal telo da mare, e li rincorro per tutta la spiaggia, facendo ogni volta finta di riuscire a prenderli, lasciandoli andare mentre squittiscono queste risate bambine che riempiono lo spazio, il tempo e la memoria futura.
La corsa mi fa bene. Non ho più le labbra livide e le dita della mano perdono le grinze. Mi siedo vicino al nonno centenario. Nonno mi passa una mano sulla faccia. Mi chiede comu mai no mi fici a barva, e io lo assicuro che la barba la taglierò presto, un paio di giorni di mare e tornerò lucido e nero. Poi resto in ascolto. I gran di parlano. Gli zii e i parenti si sono ritrovati qui a mare e raccontano storie che mi sembra di avere sentito da sempre, storie che affondano nella notte dei tempi, più antiche e presenti dei marmi, dei mosaici, delle ville romane, delle statue prive di braccia, delle colonne sormontate dai capitelli jonici, delle pinakes – le tavolette votive dedicate a Persefone – che di tanto in tanto affiorano dalla terra e dagli scavi. Sono storie ampiamente riportate sui giornali locali, o rotolate da una bocca all’altra per passaparola, che tutti conoscono. Lo sfondo mitico su cui i calabresi collocano l’orizzonte della loro vita. Gare di appalto truccate. Fondi europei finiti nel nulla. Sparatorie e sequestri. Commercianti costretti ad ammutolire o a sconfinare in altitalia, al nord. Il controllo della ndrangheta sulla quasi totalità della vita pubblica. Traffici di scorie radioattive sul mare solcato dai migranti che per un paradosso della sorte immaginano la Calabria tra la furia degli uomini e del mare come la terra che più di ogni altra avvicina la promessa del paradiso.
Ma impercettibilmente la mia presenza vira la discussione da un’altra parte. Con la pelle salata, avvolti nei teli da mare, ci siamo noi vividi e miti in mezzo alla mitologia e alla cosmogonia inaugurata e poi diffusa da altri fottutissimi calabresi.
Noi abbiamo fallito, dice uno dei grandi guardandomi negli occhi. La nostra generazione non vi ha lasciato niente. Abbiamo accettato il quieto vivere, e questo è il risultato. Ndi facimma i fatti nostri, e quando c’è stata la necessità stringimma a manu du cumpari. Tutti voi siete stati costretti a partire. Avete dovuto lasciare questa terra bruciata. E ora abitate e lavorate lì dove essere calabresi a volte è un insulto.
Poi infila rapido queste parole nel mio orecchio e nell’orecchio generale della famiglia. Dovrebbero toglierci il voto. Per cinque generazioni almeno dovrebbero impedirci di votare. I posti di governo qui dovrebbero essere commissariati. Ed i commissari non dovrebbero essere calabresi, neanche italiani dovrebbero essere. Servirebbe gente senza nessuna appartenenza, gente della Germania o della Svizzera, sennò le cose non cambierebbero mai.
Il problema di queste parole è che mi arrivano addosso senza alcuna premonizione. Mi era già capitato di sentirle, ovviamente. Ma adesso sono formulate in mezzo al sangue generale di famiglia che coagula qui per tutta l’estate. Così ammutolisco. Mi guardo intorno. Le squame del mare smaterializzano la luce in piccolissimi bagliori. E tocco il fondo di me stesso e della mia terra pensando che queste parole non sono altro che parte della mitologia e della cosmogonia che disprezzo, su cui vomito tutto il risentimento possibile. È solo un modo molto logico per dire che da queste sabbie mobili non ne verremo mai fuori. Un’argomentazione molto raffinata che elimina dal discorso qualsiasi opinione contraria garantendo il nostro appoggio incondizionato al sistema. Una forma di resa elegantissima che non controfirmerò mai – almeno fino a quando i flussi del mio sangue saranno in sintonia con i flussi segreti di questo mare e di questa terra.
Nonno si alza. Prende il bastone. Chiedo a nonno dove sta andando. Vaju pe supa, dice. Faci nu cardu chi non si resisti. E anche gli altri si alzano.
I cuginetti buttano i braccioli in aria e infilano i sandali. Mia madre piega i teli da mare. I miei fra-telli staccano dalla pelle gli ultimi granelli di sabbia. I miei cugini inforcano gli occhiali da sole. Gli zii raccolgono i braccioli, il secchiello, le palette, le formine, i palloni, il divertimento inarrestabile che i cuginetti hanno disseminato intorno a noi.
Poi il sangue generale di famiglia riga la spiaggia all’incontrario, recuperando gli spazi freschi della casa abbandonata, dove pranzeremo insieme, ci siederemo insieme intorno al tavolo, passandoci il pane fresco, il vino di casa, i sottaceti, le olive, il capicollo, le alici marinate, ingannando il tempo e la fame mentre la zia traffica con le padelle in cucina, butta gli spaghetti nell’acqua, lascia scivolare i sauri infarinati nell’olio bollente – ed il profumo che arriva dalla cucina infila la massa trasparente delle correnti, sale caldo nell’aria, circola intorno a noi, si dispiega lontano, più lontano, tra la terra e il mare, e tutte le storie riportate e scambiate in spiaggia non esistono, in questo momento non esistono, non toccano più nessuno, niente può farci del male mentre la zia arriva con la pentola straripante di spaghetti conditi, niente e nessuno può tirarci fuori dall’oblio in cui stiamo per precipitare, l’oblio segreto che il sangue generale di famiglia ed il sangue più grande e vorticoso degli esseri viventi che abitano questa terra richiede e desidera, pranzi infiniti, cene interminabili, l’oblio apparecchiato per stomaci ospitali che ruminano e dimenticano il presente, la propria storia, se stessi.

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9 Commenti

  1. “Noi abbiamo fallito, dice uno dei grandi guardandomi negli occhi. La nostra generazione non vi ha lasciato niente. Abbiamo accettato il quieto vivere, e questo è il risultato. […] Tutti voi siete stati costretti a partire. Avete dovuto lasciare questa terra bruciata. E ora abitate e lavorate lì dove essere calabresi a volte è un insulto”. – Per ora abbiamo tutti perso: chi si è ribellato ed è stato sconfitto, chi ha accettato il quieto vivere e chi come me se n’è andato.

  2. Bellissimo. Leggendo a casa, ho avuto gli occhi in piena luce. Trovo che il narratore evoca con una grande sensibilità il vincolo di sangue con la sua terra, il sangue è un fiume di ricordi, di vita.

    Ho amato il brano che descrive il momento di sogno verso il paese del ritorno. Ho quasi provato la stessa emozione nel treno che mi portava verso Napoli, sogno, ma senza tristezza, invece il piacere, la felcità di sentire il calore, di vedere le canne, il mio battito del cuore scorgendo il Vesuvio, e il battito del cuore pensando agli amici che incontrero: il paesaggio è avvolto di volti amati.

    Sempre tristezza con il cuore diviso in due sul cammino del ritorno.

    Il narratore fa parlare la luce del paese. La luce è dentro la scrittura, dentro la memoria del nonno, dentro il dialetto, il mare, la spiaggia che prima non riconosce la pelle bianca (di neve/ come la mia).
    E’ vero il corpo del norte entra di vivo nella luce, esce della neve. Il sole fa risplendere la pelle bianca, come un sole di madreperla. Amo la mia pelle nel sud, amo il mio corpo, e ho sentito lo stesso amore attarverso la voce del narratore. Essere al sole è l’erotismo della pelle che non vedeva il sole.

    E la terra del narratore non è solo bellezza. Anche è porto senza direzione degli uomini senza bagaglio, perduti su la terra arsa. Il sale mangia l’anima, fa diventire più vulnerabile di un neonato.

    Il testo è il canto ritrovato delle ombre che hanno perduto la loro terra.

  3. Molto bello. Ho saputo però che anche il sole si è stancato di illuminarla la nostra Calabria. E anche lo Zefiro ha cambiato direzione. Dovremmo convincerli a resistere ancora un po’. Certo, per loro è dura, a settembre non se ne vanno come noi. Restano lì tutto l’anno. E si spengono. Come dice Otello profazio “qui (lì) si campa d’aria”. Io ne sono sazio, ma non riesco a farne a meno.

  4. molto bello e suggestivo leggere e sentire ed odorare la regione ed il paesaggio dagli scritti di un figlio natio……

    …..ma non equilibria la mia tristezza di forestiero di fronte al devastante e tragico spettacolo della calabria degli uomini e delle loro cose, una serie infinite di mostri artificiali piccoli ed enormi scaraventati su una natura certamnete una volta bella ed imperiosa ma adesso, ancorchè bella, ridotta ad inerme schiavitù

  5. da calabrese..a me non piace..non il testo..la morale..e i finti patriottismi di chi lascia la calabria

  6. Bello, una lettura piacevole e stimolante. Di particolare effetto il legame forte e profondo con la terra ed il contrasto tra amarezza e piacere. Notevole la frase della zia Lina.

  7. ciao anonimo calabrese,

    non mi sembra ci sia alcuna morale in questo racconto. non c’è morale soprattutto perchè non c’è un momento di sintesi in cui faccio confluire tutta la narrazione. ci sono punti fermi, senza dubbio, una posizione narrativa forte, ma trattandosi di una messa in forma della mia esperienza e della mia memoria, è tutto molto più aperto, disteso, dispiegato – proprio perchè la mia esperienza e la mia memoria fortunatamente non si sono ancora esaurite.

    quanto al patriottismo, onestamente, non ne vedo l’ombra. il rapporto con la terra di origine ha qualcosa di molto più atavico e primordiale rispetto all’idea di patria, cioè è un rapporto con il proprio ambiente – sia questo l’acqua, l’aria, la materia vivente delle cose – che non è mediato da alcuna istituzione, ma probailmente solo da memorie collettive perennemente reinventate e aggiornate.

    questo è quanto. a presto

    giuseppe

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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