L’armento scarlatto [Eracle #10]

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Il riso che coglie chi di colpo
si trova di fronte a una intuizione formidabile e ovvia

di Ginevra Bompiani

Il tempo è bianco quando affiora dalla vagina materna alla luce abbagliante del giorno; giallo quando tocca il vertice, come l’oro e tutte le altre bionde ricchezze sperperabili; ma è rosso quando scende nelle acque dietro al sole morente; rosso come le vacche del sole; rosso come l’Ovest; rosso come il sangue che sfugge alla ferita mortale; rosso come l’autunno e le foglie prima della caduta; rosso come l’Eritia, dove pascolano i buoi che Eracle deve rubare a Gerione, l’uomo che Urla, e portare a Euristeo per suo decimo incarico.

Eracle parte in guerra a un colore, ma sono i numeri ad alzarsi in difesa: dodici figli di Neleo s’impennano al suo passaggio e si fanno distruggere fino all’ultimo, che tutti li perpetua e li riassume nel governo di Pilo; tre dèi gli si fanno incontro, e ciascuno si allontana ferito; ma di fronte, ancora lontano, non sogghignano già le tre teste di Gerione?

A Eracle che avanza verso Ovest – direzione fissa delle sue fatiche e di ogni viaggio umano – pare di risentire la voce beffarda di Euristeo: “vai, trova la casa del Tempo, e riportaci indietro il Vecchio Anno con tutti i suoi giorni”. Ed Eracle vagabonda sonnambulo in un sogno febbrile, con gli occhi annebbiati dalle cifre e dai colori, e i passi rapidi e spezzati di un pipistrello, senza mai avvicinarsi alla meta più di quanto non riuscisse a Odisseo nelle sue peregrinazioni: anche il suo viaggio è mentale, è il traguardo gli dovrà sbucare di fronte all’impensata, oppure sarà lui a perdersi nelle volute del Tempo. Da sonnambulo vede spuntare sul suo passaggio nemici improvvisi, come le facce fiocamente illuminate che arredano i tunnel dell’orrore, e davanti ai suoi gesti confusi li vede cadere come bambocci di tirassegno: nemmeno questo lo avvicina di un passo. Poi, ecco una creatura reale: è il gigante Anteo e lui lo tiene sollevato sulle braccia per impedire che toccando terra succhi il vigore della madre. Ma da quel semirisveglio precipita di nuovo nel suo sonno terribile, in cui sembra piombare come una bestia abbattuta ogni volta che vuol scrollarsi di dosso lo sguardo irrequieto degli dèi. E intanto dalla terra che nutriva le forze di Anteo sgusciano come sorci un’infinità di pigmei, che lo accerchiano con macchine da guerra e astuzie minuscole.

Eracle si sveglia e gira gli occhi. Nella memoria che si snebbia domina ancora il grande corpo steso dell’avversario. Ora quel corpo sembra muoversi sparpagliato in mille piccole mani, mille sgambetti affrettati, mentre un brulichio gli solletica le membra; forse pensa di essersi addormentato su un formicaio; e come Gulliver sbatte le braccia e vede precipitare cinquecento brache dal suo pelo. Poi si alza sui gomiti, guarda di nuovo e ride. Una risata infantile, in frenabile. Il riso che coglie chi di colpo si trova di fronte a una intuizione formidabile e ovvia; che testimonia della sua ottusità dello scherzo che la nebbia che gli dèi spandono sugli uomini gli ha giocato. C’era un gigante, è stato abbattuto, e ora fiorisce una miriade di piccoli orchi che mentre lo investe con la sua vivacità nana, da lui si aspetta la vita o la morte. Di che si tratta? Dell’uno che diventa i molti? Del grande che si frantuma nel piccolo? Ma no. Quell’Anteo era un albero, e gli è seccato sulle braccia.

Questi gnomi sono i suoi semi, e lui li raccoglie nella pelle del leone per portarli a Euristeo e seminare questa nuova pianta nei giardini di Micene. E anche la sua impresa si rischiara. È un’avventura vegetale.

Il vecchio anno torna da solo; torna col suo ciclo di tre e di dodici, infinito ripetersi di qualcosa che muore, come Eracle morirà e poi sarà infinito; lui stesso col suo sonno ne ha compiuto la durata, come la terra sotto il gelo invernale. Ancora una volta gli dèi lo hanno ricondotto all’umano; a lui, campione del soprannaturale, hanno fatto fare il giro del cortile con gli occhi bendati, per ricondurlo davanti alla porta di casa.

Quando finisce di ridere, Eracle si alza, percorre rapidamente tutto lo spazio e il tempo che lo separano dall’Occidente, vi pone due colonne, una a destra e una a sinistra del braccio di mare, e scrive a caratteri ben chiari Qua non c’è nessun passaggio. Poi si siede nella coppa del sole e porta al termine il suo viaggio come un nuovo giorno.

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