Herta Müller

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di Domenico Pinto

Nata nel 1953 a Nitchidorf, comune di millecinquecento anime della Romania appartenente alla minoranza degli Svevi del Banato (un ramo della più vasta famiglia degli Svevi del Danubio) Herta Müller porta scritto nel palmo della mano un destino di duplice oppressione. Prima c’era stata la violenza sovietica verso un paese fascista, che con Antonescu era stato alleato di Hitler: dal gennaio del 1945 tutti i tedeschi romeni tra i diciassette e i quarantacinque anni vennero deportati nei campi di lavoro per la riparazione dei danni di guerra; poi l’oppressione delle minoranze coabitanti, inasprita dal regime di Ceausescu, che facendosi beffe della Costituzione portò il numero dei tedeschi presenti in Romania, tra il 1956 e il 1989, a rarefarsi fino a un decimo rispetto agli anni dell’immediato dopoguerra.
Con Franz Hodjak, Werner Söllner e Richard Wagner, Herta Müller è parte di una costellazione di autori che dagli anni Ottanta ha aperto nella letteratura di lingua tedesca nuove prospettive e conquistato nuovi spazi espressivi, facendo scoprire al lettore – insieme a quella della Germania dell’Ovest e dell’Est, austriaca e svizzera – l’esistenza di una « quinta letteratura tedesca», innervata da una lirica notevole, posta sul confine di una doppia opposizione: tra il potere della tirannia e quello altrettanto dispotico della conservazione, nel mondo pietrificato di ieri.
In gioventù, Herta Müller recise undoppio vincolo: sul piano politico si rifiutò di collaborare con la Securitate, il servizio segreto della Romania comunista, perdendo così il lavoro di traduttrice alla fabbrica in cui lavorava; e sul piano della parola inaugurò la sua produzione scrivendo le prose di Bassure, che disegnano, nella forma dell’anti-idillio, la vita contadina dell’enclave tedesca. L’opera, che venne censurata in Romania ma uscì nel suo aspetto originario in Germania (edita da Rotbuch nel 1984) consiste di quindici miniature rappresentanti un mondo malvagio, attraversato dall’odio e dalla violenza, arroccato nel cattolicesimo e nella superstizione, corrotto, isolato, cieco a ogni progresso.
Scattò a questo punto la mordacchia del regime: a Herta Müller venne vietato pubblicare e lavorare tout court, con la conseguenza di costringerla a lasciare il paese insieme al marito di allora, il poeta Richard Wagner, alla volta della Repubblica Federale Tedesca, dove la sua intensa attività di scrittura avrebbe trovato modo di svilupparsi.
La prosa concentrata, precisa, a tratti intermittente di Müller, che non di rado presenta venature liriche, bascula continuamente tra l’andare e il rimanere, è alla ricerca di una patria, essendo la propria avvelenata da Ceausescu «il padre di tutti i morti», ritorna sul passato che stenta a passare, tira le somme della militanza del padre nelle SS. L’insieme dei temi trattati non è del tutto nuovo, ma forse proprio perché proviene dalla voce di una area geografica marginale al nostro mondo, ci arriva con una forza speciale, e poi persiste a lungo nella nostra mente.
In Italia il destino editoriale di Herta Müller, a fronte di una produzione ormai cospicua, conta pochi titoli: oltre a Bassure (Editori Riuniti 1987), conoscevamo soltanto il romanzo breve In viaggio su una gamba sola (Marsilio 1992), finché il coraggioso piccolo editore Keller ha stampato, in tempi recenti, quello che forse è il suo capolavoro, titolandolo Il paese delle prugne verdi. Tra queste pagine colorate a tinte forti, la narratrice percorre la propria infanzia, i suoi studi, l’approdo al lavoro, e descrive le articolazioni del potere e il controllo, onnipresente, esercitato sui cittadini. Ma il primo piano è destinato alla quotidianità di quattro giovani dissidenti, fra gli anni Settanta e gli Ottanta, che fuggono dal dispositivo totalitario del loro paese approdando nella Germania dell’Ovest, così che il libro finisce per divenire uno struggente apologo di ogni Heimat.
Negli anni, ormai stabilita in Germania, la scrittrice ha guadagnato riconoscimenti e sommato altri titoli: al Paese delle prugne verdi ha fatto seguire un terzo romanzo (Heute wär ich mir lieber nicht begegnet, 1997), in cui riprende il racconto della dittatura rumena, rappresentandola quasi come una storia trascendentale dell’uomo. E contemporaneamente ha scritto diversi volumi di poesia – fra cui Die blassen Herren mit den Mokkatassen (2005), in cui amplia il suo universo di collage foto-testuali, mosaici, puzzle ottici, accampando giochi di parola con piglio scurrile e surrealista. All’ultimo e più ambizioso progetto – l’appena pubblicato Atemschaukel («Altalena del respiro»), edito da Carl Hanser Verlag – Herta Müller affida la rottura di quel tabù, anch’esso pietrificato, che riguarda la deportazione in Russia dei tedeschi rumeni, puniti come nemici, per ritorsione esemplare contro una nazione che, sotto il regime fascista, era stata fra le più zelanti nel collaborare con i nazisti.
Nel 2001 Herta Müller incontrò Oskar Pastior – il grande lirico bilingue di origine transilvana, morto nel 2006 – e da allora si dedicò a amplificarne la voce. Raccolse tutti i suoi ricordi a penna, trasferendo la lingua contratta e stenografica di quel virtuoso della parola in una struttura pienamente romanzesca. La base documentaria di Pastior, le sue memorie – era stato a lungo prigioniero in Ucraina – fanno di questo libro quasi un’opera scritta a quattro mani con un morto. E la rendono una tra le testimonianze più alte della ricerca di una patria, da parte di chi, come Herta Müller, ha dedicato la propria scrittura all’inseguimento di un asilo, di un luogo di accoglienza, dopo avere vissuto esperienze capaci di annientare.

L’articolo è apparso il 09.10.2009 sul «manifesto».

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10 Commenti

  1. L’anno scorso andai a Rovereto in occasione di Manifesta, ma la mia prima preoccupazione giunta là fu quella di correre in una libreria per comperare “Il paese delle prugne verdi”. Poco tempo prima avevo conosciuto Herta Mueller grazie a Nazione Indiana e ho potuto così essere una delle poche persone, se non l’unica, del mio microcosmo a gioire del riconoscimento assegnatole.
    Grazie!

  2. Validissima scrittrice, a quanto leggo, la Mueller, ma, mi chiedo, ha la statura letteraria di altri scrittori in lizza ma non premiati, tipo Ph. Roth, De Lillo…?
    O considerazioni politiche hanno prevalso?

  3. Segnal easllego di seguito questo interessante post di Giorgio Di Costanzo apparso sul suo blog “www.anna maia oretese- in sonno e in veglia. splinder. com

    giovedì, 08 ottobre 2009

    Ossessionata
    dal fantasma
    di Ceausescu

    Herta Müller
    Premio Nobel
    per la Letteratura 2009

    Herta Müller, ancora pochi giorni fa, sul settimanale Die Zeit, lamentava persecuzioni e misteriose telefonate, a suo dire, da parte della famigerata Securitate.
    Speriamo che il Premio Nobel le porti qualche sicurezza e una maggiore tranquillità.
    Noi festeggiamo questo avvenimento e brindiamo allo scampato pericolo: anche quest’anno quell’americano masturbatore (ossessionato dal sesso) di cui non ricordiamo il nome, rimane a bocca asciutta.
    Sarà per la prossima… vita!

    P.S. Per tutti quegli intellettualini nostrani che snobbano le pagine di Alias -Il Manifesto e dei suoi collaboratori: troverete su Alias – Il Manifesto qualche recensione dedicata alla (per i nostri gusti, fin troppo) anticomunista Herta Müller…

    Herta Muller
    e il macello di Ceausescu
    di Stefano Zangrando
    (“Alias – Il Manifesto”, 2 agosto 2008)

    Herta Müller, nata nel 1953 in un villaggio tedesco del Banato romeno, emigrata in Germania nel 1987 e oggi inserita a pieno titolo nel canone contemporaneo della letteratura tedesca, ha saputo restituire in un’opera poetica e saggistica molteplice, ma pressoché costante nella qualità degli esiti, la memoria della quotidianità e della persecuzione della minoranza di lingua tedesca in Romania nei decenni della dittatura di Ceauşescu.

    In Italia, tuttavia, il suo destino editoriale è stato alquanto ingrato: dopo le storie brevi di Bassure (Editori Riuniti 1987) e il romanzo breve In viaggio su una gamba sola (Marsilio 1992), l’attenzione dell’editoria nostrana per l’autrice parve declinare, benché nel 1994 fosse uscito Herztier, alla lettera “bestia del cuore”, il romanzo che più riccamente di ogni altro «riesce a trovare e far scaturire la poesia persino dal degrado materiale e spirituale di un’intera nazione».

    Sono parole, queste ultime, tratte dal risvolto di copertina dell’edizione italiana, per la quale si è dovuto attendere poco meno di un quindicennio, ma che finalmente offre ai lettori italofoni un’opera bella e importante, che tra l’altro è valsa all’autrice il prestigioso premio Kleist. L’onore al merito va all’editore Keller di Rovereto, il quale, forse per favorirne una più ampia appetibilità, l’ha pubblicata, sulle orme dell’edizione inglese, con il titolo Il paese delle prugne verdi (trad. di Alessandra Henke, pp. 254, € 14,00).

    Di questa storia, una volta presa confidenza con una lingua intensamente poetica, capace di squarci visionari e sconfinante a tratti in un perturbante surrealismo, colpisce innanzitutto l’aderenza empatica alla realtà descritta, che è la quotidianità oppressa di quattro giovani intellettuali dissidenti, la narratrice e tre amici, dagli anni di studio universitario all’inserimento professionale in una società dannata, pregna di paura e solitudine, estraneità e diffidenza, dove l’uomo istruito è disprezzato e nei mattatoi si beve davvero il sangue caldo delle bestie macellande.

    Quella a cui il regime, «fautore di cimiteri» e responsabile spietato della miseria collettiva, condanna i quattro è poco meno di una morte in vita, dove le perquisizioni e gli interrogatori sono solo le prime tappe di una persecuzione che, se non porta alla follia, chiama il suicidio o, nel migliore dei casi, incoraggia l’espatrio.

    La resistenza, in un simile contesto, è opzione assai ardua, e a volte fallisce. A compiere la bellezza esaustiva di questo poema in prosa altamente politico, teso in ogni momento a denunciare la mutilazione sistematica operata dal regime sulle esistenze individuali, sono poi l’alternarsi della vicenda principale con i flashback sull’infanzia della narratrice, che svelano l’abbrutimento doloso della vita privata e familiare fin nei suoi risvolti più intimi, e la presenza di due personaggi femminili, Lola e Teresa, che nella loro vitalità eslege e nel loro tragico destino incarnano al massimo grado la triste fatalità di trovarsi a «camminare, mangiare, dormire e amare qualcuno nella paura».

    Il Nobel
    a Herta Müller contro le perversioni
    di ogni potere assoluto
    di Luigi Reitani
    (“l’Unità”, 9 ottobre 2009)
    Scrittrice di alto rigore morale e insieme di grande forza metaforica, Herta Müller, nata nel 1953 in un piccolo villaggio del Banato svevo, in Romania – una zona in cui ancora sopravvive una importante minoranza di lingua tedesca, residuo storico di antiche colonizzazioni tedesche poi assimilate dall’impero absburgico – ha elevato nella sua vasta opera letteraria la tormentata storia della propria regione a emblema della condizione spirituale dell’intera Europa, uscita dalla catastrofe dei totalitarismi del Novecento e ancora alla ricerca di un sicuro sistema di valori.
    Fin dal suo esordio, Bassure, pubblicato per la prima volta a Bucarest nel 1982 in una forma mutilata dalla censura e poi uscito in edizione integrale in Germania due anni dopo (la traduzione italiana di Fabrizio Rondolino uscirà per gli Editori Riuniti nel 1987), la Müller rivelava i due tratti distintivi della sua scrittura: la tendenza alla miniatura, alla prosa breve con accenti lirici, e la rappresentazione autobiografica di un microcosmo particolarissimo, dalla valenza universale.

    Si trattava della provincia del Banato, tragicamente collusa con il regime hitleriano negli anni della Seconda guerra mondiale (lo stesso padre della scrittrice era una SS) e poi passata quasi senza soluzione di continuità sotto il feroce regime comunista di Nicolae Ceausescu.

    Nella prosa della Müller i villaggi di questo microcosmo diventano un anti-idillio, un inferno morale e materiale, così da far parlare alla critica di una vicinanza a un filone della narrativa austriaca inaugurato negli anni Sessanta da Thomas Bernhard. Il clima di terrore della dittatura è qui narrato come costante paura della delazione, diffidenza verso chi si dichiara amico, demonizzazione di ogni alterità, a cominciare da quella ebraica. Il tenore di una simile denuncia e il rifiuto di collaborare alla famigerata Securitate (la polizia segreta del Regime) obbligano la scrittrice a espatriare in Germania nel 1987. Da allora la Müller non ha mai smesso di considerarsi in qualche modo in esilio,ma non è neppure riuscita a ritornare nel suo paese dopo la caduta del Regime. Perseguitata in modo sistematico anche all’estero (la Securitate la giudicava «nemico di stato» e cercava di discriminarla in Occidente diffamandola come collaboratrice) ha continuato a narrare con ossessiva sistematicità il male e la catastrofe di una società pervasa dalla metastasi del totalitarismo. Il suo romanzo più noto – tradotto anche in italiano con il titolo Il paese dalle prugne verdi (ma il titolo tedesco è letteralmente La bestia del cuore) –, uscito nel 1994, racconta in chiave autobiografica l’apprendistato artistico di un gruppo di studenti dell’Università di Timisoara, perseguitati dal Regime, laddove la figura di Georg adombra il tragico destino dello scrittore rumeno Rolf Bossert, suicidatosi poco dopo aver trovato rifugio in Germania.

    Anche nell’ultimo romanzo Atemschaukel (l’Altalena del respiro), pubblicato nello scorso agosto dalla casa editrice Hanser e accolto quasi trionfalmente dalla critica (se si eccettua una stroncatura sulla Zeit) la storia del Banato ritorna prepotentemente in primo piano, con una vicenda che tratta della deportazione dei Tedeschi nei lager sovietici.

    Scritto dopo lunghi colloqui con l’amico e poeta Oskar Pastior – grande voce lirica scomparsa qualche anno fa – questo romanzo era stato selezionato tra i finalisti del premio dei Librai tedeschi per la prossima Fiera di Francoforte.
    Herta Müller è una donna schiva e severa, che si apre solo lentamente all’interlocutore, ma che è pronta a dedicargli ascolto, fiducia e attenzione. Ho avuto il piacere di conoscerla a Basilea in un incontro alla Casa della letteratura una decina di anni fa e ricordo di aver allacciato una conversazione con lei senza sapere in un primo momento con chi stavo parlando, sebbene la conoscessi dai suoi libri. Era portata a giudicare negativamente l’«industria dell’Olocausto» e in particolare una serie di film sulla Shoah, a suo avviso una offesa verso gli Ebrei e le vittime del nazismo. Parlava con composta dignità, ma anche con una certa amarezza, dei meccanismi del mercato editoriale e del fatto che i suoi libri fossero poco tradotti all’estero. Mi piace pensare al suo sorriso quando avrà appreso del premio Nobel.

  4. Be’, ammetto la soddisfazione. Fino a settembre di quest’anno solo io e Stefano avevamo parlato di Herta Muller, in Italia.
    Il problema non è se DeLillo o Roth lo meritino o meno il Nobel, ma è che in Italia Herta Muller è tradotta da un piccolo coraggioso editore di Rovereto, e non da una grande casa editrice. Perché traduciamo poco le altre letterature se non quella francese o anglosassone, probabilmente. Herta Muller è molto famosa in Germania, analogamente a molti autori nostrani che fuori dai confini nazionali sono dei perfetti sconosciuti. Questo inficia lo sguardo critico di chiunque. Uscire dai confini nazionali è doveroso. Ma è anche doveroso essere curiosi di tutta la letteratura, non solo – senza nulla togliere alla sua qualità – di quella angloamericana (e così la musica, l’arte, il cinema, etc.).

  5. Grazie Sparz, non sono ancora molto esperto di linguaggio del web. E comunque segnalo quel blog a tutti quelli che amano avere un occhio critico su letteratura , società e poesia e sapere qualcosa in più su grandi grandissime autrici ancora poco conosciute dalle nuove generazioni quali Anna Maria Ortese e Fabrizia Ramondino. E segnalo, infine, il certosino lavoro di messa in rete che va facendo Giorgio Di Costanzo, con grandissima abnegazione,di tante recensioni critiche su moltissimi autori che un po’ le mode, un po’ le politiche editoriali, un po’ la (naturale) smemoratezza delle nuove generazioni tendono a mettere ai margini. Ed è un delitto.

  6. giusto Biondillo
    ancora me li ricordo i commenti ai nobel di Milosz e della Szymborska
    grazie a te e a zangrando ho letto quello che keller ha pubblicato
    una scrittura grandiosa
    c.

  7. Blondil, che dire ancora… all’osso, il pezzo asciutto e quasi scolastico di un anno fa (impreziosito del commento di aida matisse, mi gioco i suoi nomi al nobel-lotto fino al 2015) e’ la missione di un sito come questo… quindi, di nuovo, well done. Tutto il resto e’ rumore.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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