L’infanzia assoluta – Su “Cristi polverizzati” di Luigi Di Ruscio

di Andrea Cavalletti

Il ghirigoro elegante del naso, il piccolo tratto orizzontale e la sinusoide della bocca, l’occhio lungo sotto la lunga arcata: è il volto dell’Amalasunta, vergato a matita da Osvaldo Licini sulla carta un po’stropicciata di una busta postale, col suo timbro d’ufficio e la data: 16 febbraio ’53. Ed è anche l’immagine che Luigi Di Ruscio ha scelto per la copertina del suo nuovo libro, il romanzo bello e stranissimo Cristi polverizzati (introduzione di A. Cortellessa, contributi di A. Ferracuti e E. Zinato, Le Lettere, pp. XIV + 317, € 25,00). La data, poi, non è forse casuale: proprio nel 1953, infatti, Di Ruscio esordiva poco più che ventenne con la raccolta poetica Non possiamo abituarci a morire, che Franco Fortini presentava così: “Gli aspetti risentiti del parlato e del gergo si sovrappongono … alle strutture della lingua colta e letteraria, per più forti risultati … atroci affermazioni ci minacciano col loro ritmo. E amare sentenze…” Cos’è cambiato da allora? Certo nel tempo lo spirito aspro e genuinamente neorealista dei primi lavori doveva decantare, o meglio trasfondersi in una sempre più libera teoria di motti ironici, spinta a volte e specialmente nelle prove narrative fino a punte di comicità visionaria: sino alla ridente, caustica vitalità che già in Palmiro (1986) come nei più recenti Le mitologie di Mary (2004) e L’allucinazione (2007) sembra scaturita dalla narrazione stessa più che derivare dalle vicende narrate, sembra investirle e contaminare ogni ricordo a partire dalla pratica febbrile e gioiosa della scrittura. Di Ruscio ha certo coi ricordi una familiarità estrema. Nato a Fermo nel 1930, è emigrato in Norvegia già nel 1957. Fu da allora che la stessa lingua natale divenne un ricordo per lui. Senza mai invecchiare, tuttavia. Scalzata dal bokmål e ammutolita nell’uso quotidiano, questa lingua ha saputo sopravvivere nella scrittura; le è stato imposto il silenzio, e si è fatta notturna. Ha attraversato mille difficoltà, e serbato un vantaggio sicuro. Una volta, infatti, l’oralità quotidiana non bastava, e la scrittura era per il giovane poeta insieme esigenza vitale e più o meno faticosa, comunque solitaria conquista, di parole scovate in biblioteca o altre volte sottratte “a tradimento” al giro di voci della casa e della strada. Poi, con l’emigrazione, la lingua materna si fece in segreto scrittura materna: non si sentiva che il rumore dei tasti, non c’era parola che non fosse stampigliata sulla pagina, e finalmente ogni pagina scorreva libera anche più delle voci di un tempo, e piena e felice. Poiché da allora, strano paradosso, il poeta non è più solo: si chiude nella stanza, e la sua è la lingua corale degli amori, dei vecchi libri e delle fughe nei vicoli, lingua non più separata e ormai tanto leggera che non smetterà di gioirne. Così Di Ruscio ride e scrive ridendo, e scrivendo si legge e ride ancora. Cosa ricorda? Si direbbe che in ogni cosa egli rammenti l’innesco di un contagio continuo al quale neanche il lettore saprà poi sottrarsi.

Almeno una volta egli ha descritto la svolta felice: “Lo stato normale è quello angoscioso e tutto a un tratto la gioia tutta intera mi salta addosso e faccio un mucchio di stupidate… Non le faticate carte, ma le allegre carte… iscritte per la sola gioia di comunicarvi tutto senza le reticenze del perbenismo e dell’oggettività, una scrittura viva, palpitante al contrario delle scritture spente e senza orgasmi” Cristi polverizzati è insieme la storia picaresca e il ritmo vivo di questa trasformazione. Si sviluppa nel tempo insieme presente e remoto del realismo fantastico. In quel tempo “La mia infanzia divenne sempre più totalmente infanzia. Le strade potevamo percorrerle tutte, non vi erano più proibizioni, più la guerra andava male e più io e Mazza ci sentivamo completamente liberi. Costruivamo i carrozzi, li mettevamo in ordine di partenza sulla strada principale del paese, un bell’asfalto liscio, la strada era diventata la nostra. Quando arrivava alla curva, il carrozzo poteva anche capovolgersi, le cosce erano come raspate dall’asfalto… Sapevamo tutte le erbe e i fiori che potevamo mangiare, il paese in quegli anni era tutto un fiorire e crescere di erbe…” Questa è l’infanzia assoluta, perfetta e rivissuta, che segue e non precede un tempo in cui le cose parevano invece un po’ più complicate: “Infatti ero stato scoperto, ormai tutti sapevano che iscrivevo le poesie, il mistero era diventato pubblico, sta sempre nella biblioteca comunale a leggere libri che nessuno legge, spedisce plichi da tutte le parti. Non facevano che domandarmi: Poeta ora ti provo, dimmi è nata prima la gallina o l’uovo? … Come ti permetti d’iscrivere le poesie nostre?… mi rallegravo e mi dicevo che non potevo assolutamente essere scemo, fregavo tutti a scopone, a tressette e anche a dama… e ripetevo continuamente i versi famosi di Solmi: fuggi / la vita è un sogno e i sogni sono sogni / nebbia le spesse muraglie, le sbarre…” La fuga ribelle dei bambini, dei gatti o degli anarchici, che sono qui simili e compagni, è poi lanciata in un precipizio grammaticale che lascerà senza fiato il redattore. E Di Ruscio lo sbeffeggia: “Se a qualcuno dispiace la mancanza di punteggiatura sui miei versi ebbene ce la mette tutta lui, con le poesie non ho mai guadagnato una lira e pretendere da me anche la punteggiatura è il colmo”. La notizia, insomma, è questa: una virgola non è qualcosa qu’on aime pour elle même: se la grammatica ne convalida l’uso, questo suo valore d’uso non è che il “sostrato materiale del valore di scambio”. C’è un’economia politica della lingua, e c’è una forza critica della lingua, “unica arma rimasta alle classi subalterne”. Ora, l’italiano “si presta a tutte le menzogne … è una cosa che può essere migliorata solo peggiorandola”; occorre quindi forgiare armi nuove, e tenerle, pronte, con sé: “Ho le tasche piene di poesie e se trovo uno adatto gliele leggo di colpo…” Cristi polverizzati attua l’agguato definitivo, organizzato non in capitoli ma in tanti piccoli blocchi, unità a volte scosse internamente da sbalzi anche vertiginosi eppure conchiuse, come da sentenze o proverbi appena inventati; è un libro fatto di aggiunte, dove anche la minuzia si perde in lontane visioni finché trama e scrittura, materia narrata e voce narrante risultano del tutto confuse: “Il romanzo inizia con un sottoscritto intrappolato in Piazza del Popolo di un paese di trentamila anime nel decennio subito dopo l’ultima guerra mondiale. A fatica il sottoscritto riesce a disintrappolarsi e prende il Lecce-Milano dove incontra Moscatritata, un rivenditore ambulante a domicilio di crocifissi più o meno polverizzati che brama il ritorno del regno borbonico. Il sottoscritto invece pretenderebbe una nuova repubblica romana che sfratti ancora una volta tutto il papato. Insomma i due personaggi di codesto romanzo fanno sogni non omologati e durante l’inseguimento dei personaggi da parte dell’autore si intromettono tutta una serie di considerazioni letterarie e oniriche e perfino teologiche, affabulazioni di tutti i tipi che disorienteranno tutti i fili delle future letture. La macchina da scrivere viene trasportata continuamente dalla camera da letto alla cucina per evitare che il sole strapiombi sulla tastiera…”Dunque chi fugge e chi segue? Di Ruscio riesce nell’una e nell’altra cosa, sorprende senza artifici, sogna o meglio osserva baratri reali – gli orrori del mondo; si leva a volte con una facilità davvero liciniana, e infine in poche, lucidissime battute, congeda la sua storia.

(pubblicato su Alias, 10 ottobre 2009)

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2 Commenti

  1. Grazie.
    La voce di Di Ruscio, alta, la ricordo ogni volta che entra nella nebbia
    un barcone dalla Norvegia. Le trombe segnalano, dove dal mare si entra nel canale e tutto si stringe. Certe sere le trombe che attraccano ai moli si sentono anche dentro le case. La Norvegia, mi dico, e penso a Di Ruscio.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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