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Come vendicarsi di Villa Gadda

copertina_edizione_1970 di Marco Belpoliti

Piffete e puffete e “tu ne giungi felicemente a Breanza”. Sul treno, “ferrocarril” delle Ferrovie Nord, ci s’imbarca a Piazzale Cadorna, in Milano, direzione Asso, fermata Erba. Qui si scende per risalire su un autobus – allora non c’era – destinazione Longone al Segrino. Pochi minuti ancora, e si sbarca davanti alla più famosa casa della letteratura italiana del Novecento: Villa Gadda. Un casone squadrato, appoggiato appena alla collina, con archi sul davanti, due grandi e due piccoli. Niente di particolare, anzi piuttosto ordinario, molto meno elegante dei villini, ville rustiche, chalets svizzeri e delle residenze liberty che nel medesimo periodo avevano invaso la zona, in cui veniva su la Villa in Brianza edificata da Francesco Gadda, con l’intento esplicito che i ragazzi “crescessero sani, vigorosi, allegri, sotto il portico; le logge fatte per aerare la casa, la terrazza per il fresco di sera, dopo il lavoro”.

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La Villa è oggi un condominio come altri, nonostante il parco intorno. E pensare che qui venivano in villeggiatura durante i periodi estivi i fratelli Gadda: Carlo, Clara e Enrico. In una memoria autobiografica dettata nel 1963, anno della Cognizione del dolore, Carlo Emilio, all’epoca settantenne, scriveva: “Suo padre costruì la fottuta casa di campagna di Longone nel 1899-1900 e questa strampalata casa gli rimase appiccicata fino al 1937. Panorama stupendo sui laghi brianzoli, Monte Resegone”. Strampalata perché costruita male, con criteri sballati, come si capisce dal romanzo che la vede protagonista. Il terrazzo è la cosa peggiore; ci si entra direttamente dalla strada, scrive nella Cognizione, attraverso “il piccolo giardino dietro casa, con il quale comunicava direttamente, dopo il solo ostacolo d’un gradino di serizzo”.

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Niente chiavistelli, cocci di bottiglia aguzzi, spranghe contro le tentazioni altrui. Fottuta perché a un certo punto il padre di Carlo Emilio muore – nel 1909 – e sulla casa gli eredi accendono un’ipoteca per restituire alla sorella di primo letto, Adele, la dote, così da costringere Carlo, capo della famiglia, a economie eccessive. Nel 1936 scrive a Gianfranco Contini: “la mia casa di campagna (…) mi procura più grattacapi che una suocera isterica. Sono le fisime casalinghe, brianzole e villereccie di un mondo che è tramontato per sempre lasciandomi solo stucchevoli tasse da pagare. – Mi vendicherò”.
La sua vendetta sarà appunto La cognizione, scritta e pubblicata in prima versione subito dopo, nel ’38, e poi apparsa rivista e ampliata nel 1963 presso Einaudi. L’hidalgo Gonzalo Pirobutirro, sua controfigura, sarà la causa della morte della madre, personaggio centrale del romanzo, uccisa durante l’assedio della proprietà da parte degli uomini dell’Istituto di Vigilanza notturna, antesignani delle ronde padane attuali: unico tra i proprietari Gonzalo non ha voluto ricorrere alla loro protezione. L’assassinio della madre, oscuro episodio, è la vendetta di Carlo Emilio per interposta persona, dato che, come dicono i critici, tra la casa e la madre, nel romanzo non c’è alcuna differenza.
Se La cognizione non è stata scritta nella villa, dato che nel 1937, dopo la morte della madre vera, Gadda la cede all’avvocato Calabi della Banca Commerciale, che provvede subito a dividerla in appartamentini, con tipica azione immobiliare brianzola, è però sicuro che lì, nella casa di vacanze, sono stati redatti: un novella, poi diventata La madonna dei filosofi; La meccanica; Meditazione milanese, in buona parte; Racconto italiano di ignoto del novecento; e poi il lavoro intorno al Fulmine sul 220. Della sua planimetria, della disposizione delle stanze, dei tempi e modi di costruzione, rogito del terreno compreso, sappiamo tutto, o quasi, dato che gli studiosi di Gadda hanno messo mano alle mappe e ai reperti catastali per spiegare come il romanzo sia modellato sulla disposizione di stanze e piani della Villa in calce e mattoni.

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Il tratto dominante della Cognizione è sicuramente il rancore che trapassa in un risentimento assoluto nei confronti della stessa Brianza, per quanto, in effetti, qui Carlo Emilio, ingegnere in congedo nell’anno sabbatico 1928-29, vi abbia scritto in modo furibondo e felice. La casa di Longone è il suo buen ritiro, dove conserva i quaderni con gli abbozzi dei futuri racconti, e vi riceve gli amici scrittori: Bacchelli, Linati, Bonsanti. L’ossessione dei peones, ladri e ubriaconi, che raggirano la madre, nascondono frutti dei campi, viziosi e sporchi, è già presente nelle lettere degli anni Venti, dove sproloquia sul “contadiname a cui manteniamo una casa, mentre io devo lavorare come un cane e vivere al quarto piano in una camera fredda”, come scrive alla sorella Clara. Don Gonzalo è già presente nelle continue contumelie di Carlo, nelle definizioni delle donne bruttissime di Longone, che dicono “Car Signor” e “cara madonna” mentre vendono pere tisicuzze, e l’odio per i vizi umani trapassa ben presto al paesaggio e alla natura, sino ad un certo punto libere di difetti.
La “mia privata privatissima personale proprietà” diventa fonte continua di dispiaceri che si concentrano nelle pagine dedicate alla figura della Madre di Pirobutirro, che il figlio umilia e picchia. Villa Gadda, in terra di Lukones, nome dato ai villani e ai nobili del paese comasco, diventa il “verme solitario di Longone, con Resegone sullo sfondo e odor di Lucia Mondella nelle vicinanze”. Eppure, estinta l’ipoteca, venduta la casa, dopo aver salvato le vecchie carte lì riposte, Carlo Emilio scriverà al cugino Piero Gadda Conti di una “tristezza grande”, per cui “piango la mia vita perduta e tutte le cose profanate”. Di tutte le profanazioni autodistruttive e masochistiche, propellente eccellente della sua narrativa, insieme alle malinconie di cui si alimenta, alla pari dei suoi personaggi, il casone di Longone è il punto saliente, il culmine, il Resegone della sua esistenza. “Dolore e dolore, dolore sopra dolore”, scrive. Lì, non lontano dalla casa, sono sepolti il padre, il fratello, Enrico, il prediletto della famiglia, credeva Carlo, morto nel 1919 in volo nella guerra, e dal 1936, lei, la madre.

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Di tutto questo accumulo di sofferenze, malinconie e livori, oggi resta una casa bruttarella, tirata a lucido con tetto rifatto e gronde in rame, giochi di bambini sparsi all’intorno, campanelli piccoli borghesi, perfetta antesignana della successiva devastazione della Brianza: “Il cemento e la plastica e lo scatolame hanno coperto anche la terra di Lombardia, la verde Lombardia non è più. Viviamo in un tetro inferno, dovunque è arrivato il cosiddetto miracolo”. Era il 1964. Da allora niente si è più fermato.

[le fotografie sono dell’autore. La copertina riprodotta è quella dell’edizione Einaudi del 1970]

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13 Commenti

  1. leggendo questo bel pezzo pensavo a come gadda potrebbe descrivere oggi le tetre brianze venute male sparse per l’italia

  2. Ritratto di una casa di una Lombardia che fu e di un paesaggio umano.
    Articolo che diviene fotografia “delle tetre Brianze sparse per l’Italia”.
    Prendendo a prestito la frase di Arminio.

  3. ho conosciuto Carlo Emilio Gadda a Firenze mentre scriveva il Pasticciaccio. Viveva in casa di Piero Bigongiari sul Lungarno,un attico senza ascensore.Io andavo spesso a trovare Piero portandomi su in spalla la bicicletta che nel 45 le rubavano anche nei portoni.Una mattina mi apri un signore anziano sconosciuto, tutto vestito di scuro col gilet,la cravatta be le scarpe nere.Ancora prima che infilassi a terra la bici nell’ingresso,mi disse:” Lei non ha il fanale e ha la dinamo rotta.”Mi sembrava un preside che mi rimproverava, così sussiegoso sotto quei soffitti bassi.Che fosse uno scrittore,per me era impensabile,che nessuno del giro che bazzicava casa mia,si sarebbe mai accorto del fanale. Poi (andavo da Piero spesso e li abitava anche Giorgio Zampa ) una mattina Gadda mi fece trovare una dinamo e un fanale,e me li montò lui sulla bici ,meglio di un meccanico. Dissi a un mio amico di classe:” Vieni a conoscere uno scrittore camuffato da persona normale” che un tipo tanto atipico mi sembrava una mosca bianca. Il Saccardi ( il mio amico) riportò questa frase in un saggio su Gadda all’Universita. Bene,la casa in Brianza ce lo descrive,non so,mi ricorda molto quel suo distacco da un ambiente a lui congeniale, ma pur sempre tenuto ad una certa distanza, come in genere le persone pratiche fanno con gli intellettuali….o meglio,una certa classe borghese solida e direzionata,che ammira, ma da una distanza di sicurezza…..Grazie Biondillo!!

  4. gentilissima signora Papi
    la Sua testimonianza è davvero straordinaria… I miei omaggi a lei che se ricordo bene ha conosciuto e lavorato con un altro degli autori oltre lo straordinario Carlo Emilio su cui ho scritto e che molto ho studiato, Carmelo Bene…

  5. Commento sotto questo godibilissimo pezzo, la poesia ermetica di Giovanni Biondillo. Perché – guarda caso – è così gaddiana.
    Cos’è la cognizione del dolore se non un latrato? Quel verso terminale, “iena danza in noi”.
    PVita

  6. ho letto e riportato sul mio blog questo straordinario articolo di Marco Belpoliti. Mi sono occupato per studio e ricerca di Carlo Emilio Gadda e ho avuto la fortuna di essere allievo di un importante gaddista Giuseppe Bonifacino dell’Università di Bari. Io stesso mi sono occupato della polemica di Carlo Emilio Gadda contro Ugo Foscolo con un articolo “Guerrieri nani, Amazzoni disarcionate, Vati – scimpanzé: Gadda vs Foscolo”

  7. “la poesia ermetica di Giovanni Biondillo”

    La poesia?

    Ermetica??

    Di Giovanni Biondillo???

    Giovanni Biondillo????

    La poesia ermetica di Giovanni Biondillo?????

    p.s.

    “Iena danza in noi” è il titolo del prossimo film di David Lynch.

  8. gentissimo Belpoliti
    ha per caso idea di che fine abbia fatto il centro studi su gadda di Longone al Segrino. Vorrei mettermi in contatto con loro… inoltre mi sa dire in quale cimitero sono sepolti i familiari del Carlo Emilio? abitando da poco nella provincia di Varese vorrei approfittare andare a mettere un fiore sulla tomba dei Gadda dove immagino nessuno riponga alcunchè da molto tempo… ma spero di sbagliarmi.
    cordialmente
    Carlo Coppola

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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