Riccardo non piange più

small-balthus

[ Balthus – pseudonimo di Balthasar Kłossowski de Rola, 1908 – 2001 ]

   di Paolo Rou

  Non c’era da aver paura, hai visto, Riccardo? Mamma Adele è gentile, ci ha fatto entrare anche se pareva sorpresa. Le imposte erano oscurate, certo per via del sole, te l’ho spiegato che rovina i mobili. Mamma Adele ha molta cura della casa.
   Abbiamo sentito spegnersi la radio, entrando, quella radiolina in cui Mikula si perde, ci sta attaccata su e ci si dondola. Sono i momenti in cui è più calma. Hai cominciato a tremare, perché il silenzio della casa significava che Mikula sarebbe venuta, o che era acquattata dietro qualche credenza a osservarci. “Non ti preoccupare, Riccardo” ti ho tranquillizzato, “Ora chiamiamo Mikula e vedrai che non ti fa niente”. Ci avevo messo tanto a convincerti, non si poteva rovinare tutto.  
   “Dov’è Mikula, Mamma Adele?”, lei ha fatto un gesto rassicurante per dire che a Mikula pensava lei, sta a lei tenerla buona. Tu mi stringevi la mano, la tua manina sudata nell’implorare che non avessi complicità con Mikula, e che scendessimo via al più presto.
   E’ schizzata su da un divano pieno di macchie, nella penombra non era distinguibile. “Smetti di fare il cuscino – è intervenuta Mamma Adele a lenire il nostro spavento – Riccardo e la sua mamma sono venuti a trovarti”. Quando le ho dato il regalino ha emesso uno dei suoi stridii insieme a un rivolo di bava, ha scosso quel corpaccione che ti intimorisce tanto e stretto di più le fessure in cui dissimula gli occhi. “Non ti nascondere, Riccardo, Mikula è contenta” ha interpretato per noi Mamma Adele, mentre quella strapazzava il bambolotto da cui si aspettava forse che piangesse.
   E’ stato allora che abbiamo scorto la lucertola. Intrufolata tra i cuscini del divano, proprio dove Mikula teneva prima la faccia. Ha mosso il capo, e mi ha fatto piacere che mostrasse così di essere una lucertola viva. Mikula stava leccando il bambolotto.
   Mamma Adele ci ha spiegato che la ragazza vuole bene agli animali, la lucertola si è infilata in casa dalla finestra e lei gliel’ha lasciata tenere. A me è sembrato strano che una bestiolina così potesse venire su dalla strada al quarto piano.
   Tu hai preso uno di quei tarallini di zucchero che Mamma Adele ci ha offerto, ma soltanto per assecondarla, l’hai appena sbocconcellato, e hai fatto bene. Lo zucchero aveva un alone verde. Muffa, ho arguito, quando ha detto che li preparano loro ho pensato che hai fatto bene ad assaggiarlo appena. Mikula invece ne ha rosicchiati un paio poi ha preso a imboccare il bambolotto. “Hai visto com’è buona?” ho tentato di intenerirti, ma ti sentivo rigido, la fissavi penetrare col tarallino il bambolotto, in bocca, nel naso, in tutti i possibili buchi. Gli infilava il biscotto dappertutto, spingendo, si innervosiva che rimanesse inerte, e seguitava a leccarlo.
   Quando ha guardato te hai preso a singhiozzare. “Che c’è, Mikula?”, è stata pronta Mamma Adele, “Vuoi dire qualcosa a Riccardo?”. Madre e figlia hanno confabulato per un poco, gli stridori si sovrapponevano ai gesti, tu non smettevi di piangere. “Riccardo, a Mikula piaci”, ha provato a calmarti, “Dice che il bambolotto sei tu”. Non so dire se davvero per caso in quell’attimo un braccio del pupazzo si è staccato, lo schianto ha interrotto il dialogo. Mamma Adele ha afferrato la mano gonfia di Mikula e ha fatto per picchiarla, “Non si fa”, quella ululava, risatine intercalavano il suo finto dolore e allora esponeva gli incisivi verdastri, di zucchero o d’altro.
   Dopo un po’ di quel teatrino l’ha mollata, Mikula in un grugnito è zampettata al divano, verso la lucertola che era ancora lì ferma. La mano col bambolotto amputato è stata la sola a rimanere in vista. L’altra, con il tarallo, l’ha immersa insieme col viso tra i cuscini in caccia della lucertola. Mi sono accorta che non piangevi più ma ti eri girato ostinatamente verso altrove, immaginavi che cosa Mikula stava cercando di fare, al riparo delle macchie d’unto.
   Se Mamma Adele non avesse servito lo sciroppo, forse Mikula non avrebbe fatto pipì. Era rossiccio, singolarmente denso, e dolcissimo. Tu non hai voluto provarlo. Lo aveva portato per trarre via la figlia da quel suo trastullo, lei ne è golosa, aveva riferito. E Mikula ci si è avventata. Tracannava un bicchiere dopo l’altro, la madre la assecondava, è stato al terzo che ho visto un rivolo rosso scorrerle lungo il polpaccio, scendere dalla coscia fino a terra.
   Mi ha preso la nausea, e ho sperato che tu, Riccardo, fossi ancora voltato all’indietro. Quello che ingurgitava dalla bocca pareva che le fuoriuscisse di sotto, fra le gambe, non si capiva se il gorgoglio proveniva dalle labbra o dall’interno del ventre di Mikula. Lei non se n’è neanche accorta, è stata Mamma Adele a farci caso, e a sgridarla. “Brutta sporcona, non imparerai mai a andare in bagno…”, nuovamente fingeva di schiaffeggiarle il sedere, e quella ululava di gioia.
   Mamma Adele si è scusata con noi, “L’incontinenza… Oggi ha pure le sue cose”, ormai percepivo la tua assoluta paralisi ma ho fatto ancora uno sforzo. “Vedi, Riccardo, com’è buffa”, io stessa sentivo il mio riso fuori luogo, “Si è fatta pipì sotto, poverina. Vedi però, che non fa nessun male. Non devi più avere paura di lei”. Era per quello che eravamo saliti, perché ti bloccavi sentendola passare nell’androne, e ogni volta per uscire dovevo fare una perlustrazione preventiva.
   Di sicuro per rincuorarti Mamma Adele ha voluto mostrarti la sua stanza. Nel buio il tanfo selvatico di Mikula aveva la meglio sui deodoranti. Sarebbe bastata un po’ d’aria, magari uno spiraglio di luce, ma si capiva che la finestra restava sempre chiusa. Abbiamo visto le bambole, qualche giocattolo malandato, tu hai notato immediatamente la catena, sei un bambino attento. Fissata con un anello alla sponda del letto, spariva tra la coperta e il muro, bastavano le prime maglie ad asserire il peso costrittivo dell’acciaio. In un bicchiere c’era il succhiotto di Mikula, che ancora adopera per contenere la bava. M’aspettavo che l’afferrasse per darlo al bambolotto, invece ha preso a strofinarsi sulla coperta emettendo muggiti sottili, taglienti di piacere.
   Mamma Adele l’ha staccata da lì, ma io ho colto l’occhiata intima che si sono scambiate. Tu no, Riccardo, perché avevi adocchiato qualcos’altro.
   Così il tuo sguardo ha guidato il mio fino alla teca, quella cupoletta di vetro con la base di noce, graffiata dagli anni e forse dalle unghie di Mikula. Con un lumino accanto, spento per il momento, a inscenare un occasionale altarino in devozione alla cosa custodita dal vetro. Era bianca, oblunga, un osso si sarebbe detto, un ossicino tornito sottratto a chissà cosa, anche per la macchietta che si distingueva in alto, all’apice. A causa dell’oscurità pareva rossa, un grumo, a che altro avremmo potuto pensare?
   “Adesso andiamo via” ho stabilito, anche se Mamma Adele insisteva, ancora ti accarezzava i capelli perché assaggiassi lo sciroppo. La saliva di Mikula  gocciolava sul letto, sulla coperta delle sue delizie, “Dobbiamo proprio andare”, ho imposto.
   “Così, Riccardo, vedi che non c’è niente da temere” mi sono preparata a dire per le scale, era lo scopo della nostra visita, una volta usciti fuori dovevo dirlo per forza.
   Tu hai abbassato la testa, i tuoi passi mi tiravano via, lontano, verso la luce della nostra casa al primo piano. Stavi rivolto in direzione dell’uscio mentre siamo transitati nel salotto, con un’ostinazione che ti ha impedito di scorgere altro. Non devi avere fatto caso a nulla, io stessa non sono certa di non aver visto male. Però sul pavimento accanto al divano macchiato giurerei che non era una chiazza di sporco, mi è sembrato piuttosto un corpicino, mi è sembrato di vedere la coda, le zampette. Solo il capo mi è parso che mancasse, anche se ero distante e posso avere sbagliato, è difficile distinguere da lontano, camminando. Quella decapitazione slabbrata che ho intuito probabilmente è dovuta alla tensione.
   Quando Mikula ha voluto salutarci con un bacio ho chiuso gli occhi, ho provato a staccarmi dalla bocca, dall’umidità calda che mi stava lambendo, e sono riuscita a sorridere. Tu già mi trascinavi lontano, all’aperto, il tuo pugnetto stretto intorno a qualcosa, ciò che hai raccolto quando eravamo quasi già fuori. Ti ho notato chinarti a raccattare qualcosa, poco distante dalla caviglia di Mikula, può darsi che se ne siano accorte pure loro. Il tuo pugno serrato è proteso a guidarci per le scale.
   E’ questo il momento di dirlo, “Vedi allora, Riccardo, che non c’è da temere”, e di quello che stringi non ti domando nulla perché sembra che ti rassicuri, non tremi più, sei tornato tranquillo, però di questo ho paura. Non mi fare vedere cosa hai preso, Riccardo, ho paura di quando aprirai la manina. Và a giocare e smettila di pensare a Mikula, da Mamma Adele non saliremo mai più. Lo sai anche tu che è così, sai che non ce ne sarà più bisogno. Per questo mi stai fissando, e accenni l’ombra nera di un sorriso.

 
 

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8 Commenti

  1. I tuoi sono i più bei racconti che ho letto da molto tempo a questa parte. Anche questo l’ho riletto volentieri. Un caro saluto.

  2. Bella storia e mi sembra che è entrato nella paura che gli bambini hanno, sensibili come sono all’ambiente di una casa.
    C’è qualcosa di terribile che spia, aspetta.

    Che cosa è tarallini? Non ho trovato nel dizionario.

  3. L’inquietudine sta nei particolari, niente di trash ma un horror sottile di buon gusto. Lettura piacevole e nessuna masturbazione letteraria, va bene.

  4. Anch’io avevo già letto i racconti di Paolo Rou, oltre quelli pubblicati in Nazione Indiana, anche gli altri raccolti sotto il titolo “L’angolo triste”.
    Ma non mi è riuscito mai di scriverne in modo appropriato.

    E si tratta soltanto di una coincidenza, se in questo momento che in N.I. appare “Riccardo non piange più”, io stia rileggendo un vecchio, grande, libro che, dagli anni ’40, migra da editore a editore: Bompiani, Mondadori, Adelphi: “Gli asiatici” di Frederic Prokosch.

    E’ lì che ho trovato una completa rassegna dei racconti di Paolo Rou, la perfetta descrizione dei suoi personaggi.

    Si tratta di una visione che il personaggio principale di “Asiatici” ha dopo
    essere fortunatamente sopravvissuto a un incidente aereo.

    ” Quasi tutti, comunque, mio causavano meraviglia; era gente di cui non m’ero immaginato l’esistenza. Gente che doveva aver speso la vita in qualche nascondiglio; e adesso ecco che dovevano uscire all’aperto. Non avevano più modo di nascondersi. Donne col cranio rasato, oranti a mani giunte; uomini obesi, privi d’occhi – i capitalisti dello spirito -; gente morta di fame, con facce simili ai lividi lampioni dei vicoli malfamati; individui con facce ripulsive da matti; altri, ma pochi, con facce rese meravigliosamente espressive dalla libidine, rivelatrici d’ogni immaginabile varietà di degenerazione e di imputridimento; poi i disoccupati, morti di disperazione, con occhi che non sapevano da che parte guardare per implorare pietà, e bocche aperte in un penoso grido muto di accusa contro se medesimi; molti stecchiti dalla solitudine, le braccia tese in atto supplichevole, come i rami spogli di alberi uccisi dal fulmine; gli storpi; i suicidi; i morti sul campo di battaglia, con labbra serrate in atto di subita comprensione, occhi sanguinolenti; quattro o cinque con occhi pieni d’una squisita tenerezza – erano i protetti, gli stupidi, i fortunati che la vita aveva lasciato intatti -; e finalmente i bambini, con corpi belli come felci giovani ma occhi duri a maliziosi.

    La processione s’infoltiva sempre più. Ora si faceva fitta come un gregge di pecore, nere. Poi, come un getto di fuliggine che si diradi, cominciava a volatilizzare. La notte calava. Tra poco sarebbe tutto finito. Più nessuno. Niente. Non una traccia.”

  5. *tarallini piccoli dolci, fatti a ciambellina ricoperti di glassa, più noti nella versione salata, bolliti e poi biscottati al forno, anche con semi di finocchio o peperoncino

    ,\\’

  6. L’unica differenza tra l’attuale Paolo Rou e il Paolo Sperandio del quale alcuni scritti pure compaiono su Nazione Indiana, è che il primo deve al sogno un cognome bislacco, il secondo ad una forzatura anagrafica. Entrambi hanno con la realtà un’attinenza blanda ma necessaria. Come ogni sogno ed ogni forzatura. A tutti i lettori grazie per l’attenzione.

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orsola puecherhttps://www.nazioneindiana.com/author/orsola-puecher/
,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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