Appunti sulla scrittura del reale

di Marco Rovelli

Ho cercato di ordinare qualche idea sulla natura della  scrittura “ibrida” che dà forma al mio Servi come a molti altri libri apparsi negli ultimi anni. “Reportage narrativo” è un sintagma ormai assodato, e in effetti ha  senso. A me piace però di più l’espressione “narrazione sociale”, dove la narrazione non è attributo ma sostanza, e trovo che sia più atta a dire la specificità di queste scritture. Anzitutto, una domanda genealogica: da dove questo proliferare di scritture ibride?
1. La nostra è l’epoca della “perdita dell’esperienza” – che poi altro non è se non una “trasformazione dell’esperienza”: sempre più mediata e filtrata nella misura della sua moltiplicazione ed eccedenza (eccedenza che tende alla superfluità), sempre più distante la relazione con l’oggetto nella misura della sua frammentazione e complessità, e nella misura dell’isolamento del soggetto. Insomma, c’è fame di esperienza.Il testimone, allora, è colui che supplisce a questa perdita di esperienza, restituendola nella sua immediatezza più “viva” (vissuta), è colui che trasmette esperienza – e allo stesso tempo colui che rivendica in positivo quella frammentazione del sapere, reclamando appunto la sua “parzialità”. Una parzialità che è data dal suo sguardo “in soggettiva” (come nel cinema), ma non soggettivistico: come accade nel prospettivismo nietzscheano, quello sguardo ambisce a una prospettiva precisa, che metta in luce i contorni delle cose per ciò che sono entro una relazione che produce senso.
Il testimone-scrittore, però – in quanto persona che “riporta” due mondi, in quanto “interfaccia” -, non può che essere un testimone monco, dimezzato. Perché sente ed empatizza con una realtà che gli è negata. Il vero testimone è colui che non può parlare: per citare ancora una volta la frase di Aldo Gargani che ho messo in esergo al libro, “La vittima del sacrificio è colui che soffre ciò che gli altri dicono”.
Gomorra è l’exemplum più noto, e il suo successo ha fatto sì che le case editrici fossero più attente a ciò che si muove in quel tipo di scrittura “ibrida”, che si rafforzasse insomma la domanda – la quale, a sua volta, ha stimolato l’offerta. (Un po’, mutatis mutandis, quel che avviene per la New Italian Epic: insieme alla questione dell’essenza della cosa, c’è il fatto che definendo una serie di eventi come una “qual-cosa” quegli eventi si rafforzano reciprocamente: acquisiscono maggiore riconoscimento/riconoscibilità. E le scritture ibride di cui parlo non a caso si intersecano con la vicenda della New Italian Epic).
Non è uno sfizio che Roberto Saviano abbia sempre reclamato lo statuto di “romanzo” al suo libro. Perché lo strumento lingua usato nella “narrazione sociale” è, appunto, eminentemente narrativo, “letterario”- nel senso che letterario è il lavoro sulla lingua, sulla restituzione del singolare, e della messa in gioco di un diverso livello cognitivo e emotivo. Nella narrazione si gioca sul filo/ordito delle storie e sulla potenza della lingua di (ri)creare mondi. Solo che qui si agisce su un doppio livello. La storia prima la si scrive nel reale (si scrive un viaggio, si attraversano terre, si incrociano sguardi, si vedono realtà, si scambiano parole – si attraversa e si è attraversati) e poi, dopo, la si riscrive (e qui si inscrive, eventualmente, la relazione tra reale e finzionale, dove il finzionale può essere una scrittura verosimile del reale). Gli anglosassoni usano l’espressione “mettersi nelle scarpe degli altri”: ecco, è questa la virtù empatica delle storie, questa capacità di produrre altri mondi da (immaginare di) vivere.

2. Tutto questo – e si viene all’altro corno della questione – è oggi profondamente politico. Restituire singolarità – quella del narratore e quella dei “narrati” – è necessario oggi che la mediatizzazione del mondo (da cui la mediatezza dell’esperienza) riduce tutto o a universale o a casi esemplari che deformano e oscurano la consistenza delle singolarità e delle relative verità. Nel mio caso, raccontare le singolarità delle vite “clandestine” (rese tali da un dispositivo giuridico che esclude e minorizza, creando entità invisibili/macchine produttive) significa cominciare ad articolare un discorso che nomini le cose, una per una – ma un discorso di tal genere non può essere che un discorso collettivo, fondate su pratiche condivise. E’ ciò che pensavo scrivendo Lager italiani: se il CPT (in quanto terminale e cuore del dispositivo che produce clandestinità) annulla persone, annullando l’essenza di uomini (dove il senso dell’essere umano si dà nella possibilità di narrare – a sé, al mondo – la propria storia); se il CPT è un gorgo tritatutto, dove ogni dimensione temporale scompare, dove vige un terribile, eterno presente; se non c’è più passato, il passato appare come un enorme cumulo di macerie, un itinerario faticoso che non ha portato a niente; se non c’è più avvenire, e ogni progetto di vita è reso impossibile, ché chi si porta addosso lo stigma della clandestinità vive come un animale braccato, sempre all’erta, con un orizzonte temporale brevissimo, quasi istantaneo, con la paura addosso, la paura di poter essere preso e rimpatriato – deportato; se ciò che resta è solo un presente assolutamente vuoto, in un limbo dove non si hanno più diritti: allora, narrare la propria storia ripartendo da quel gorgo – ridarle un senso e restituirla alla temporalità – significa ridare dignità umana a sé in quanto persona. Narrare, allora, appare come una possibilità privilegiata di salvare quel passato di macerie (l’Angelus novus di Klee-Benjamin non può che far questo, in fine: narrare, e narrando salvare). E questa narrazione di storie può restituire dignità anche al lettore che non sa, nella misura in cui apre gli occhi e li sprofonda in quel vuoto dispiegato.
Ma anche in questo caso, sconto visibilmente quell’esser monco di cui dicevo sopra. Se salvare infatti significa restituire un nome e dunque un’anima (ancora Benjamin, certo), questo non lo posso fare, ché parlando di clandestini devo inventarmi nomi falsi (non posso scrivere quelli veri, a loro tutela). Ma la voce può essere presa solo da sé stessa, nessun altro può articolarla in vece sua. Il mio discorso dunque sta ancora nei “materiali preparatori” di un’emersione, ovvero di una restituzione a vita/nome/personalità. La scrittura, insomma, può produrre effetti “reali”, solo se diventa coro.

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16 Commenti

  1. mi piace molto la tua scrittura, Marco, come sai, e questa analisi poi la trovo anche nuova e molto azzeccata. Vorrei ribattere con una domanda certo impegnativa, e laterale rispetto a questo tuo pezzo: siamo in grado di formulare noi, che giustamente consideriamo esecrabile il modo italiano di “accogliere” gli extracomunitari, un vero modo di accogliere, senza virgolette, chi arriva alle nostre frontiere chiedendo di esistere da essere umano? Perché forse la formulazione di un modo concreto e praticabile di far questo renderebbe la lotta più chiara e concreta, che dici?

  2. Questo articolo mi piace perché cerca, pone domande e cerca risposte su una questione antica. Esiste un lungo articolo di Moravia su Proust (di cui uno degli aspetti qualificanti è una evidente, imbarazzante mancanza di amore per l’autore di cui parla) dove la scrittura del francese viene definita “narrativa saggistica”. Moravia cerca di dimostrare che il racconto si ferma ed entra in scena il saggio, oppure l’uno transita nell’altra ecc. Non condivido una sola parola del testo di Moravia, però è un argomento interessante quello delle scritture “ibride”. Se ne parla soprattutto in questi tempi, ma come tutto ciò che riguarda la scrittura ha una lunga storia. Per esempio a certi romantici veniva attribuito il contenuto “etico” che viaggiava sullo stile ecc.

    A mio parere non esistono regole o limiti, se un racconto esprime istanze collettive, o corali, come le definisci, va bene, purché l’equilibrio non venga compromesso. Per dire, sto leggendo “Educazione siberiana”, un romanzo forte, divertente, che presenta tratti di scrittura ibrida, nel senso che l’autore racconta gli usi e i costumi della comunità siberiana emigrata in seguito alle deportazioni staliniane, i tatuaggi, il codice d’onore ecc. Ebbene, talvolta questi passi sono un po’ lunghi, spezzano il ritmo della narrazione e viene l’impulso di saltarli. Quindi, il tutto funziona, secondo me, se non si segue un progetto troppo studiato a tavolino, tipo che l’autore pensa, mentre scrive, “ora devo esporre i contenuti corali” e così via. Ho idea che si raggiunga l’obiettivo non progettando descrizioni o denunce sociali, ma attraverso un processo di personificazione: l’autore impersona i territori, i personaggi, vive la crisi, l’ingiustizia e in questo modo la sua scrittura diventa collettiva.

    Peraltro trovo interessante ciò che dici sulla perdita/trasformazione dell’esperienza. E’ una bella riflessione.

  3. Trovo molto bello e molto convincente questo pezzo.
    Devo però confessare che mi lasciano sempre un po’ perplesso le analisi che astraggono completamente da quella che mi sembra essere la “specificità italiana”. Nel senso che mi sembra che accanto alle tendenze generali, ci siano anche, e spesso abbiano un ruolo preponderante, o comunque decisivo, le specificità nostre. In questo caso penso alla subordinazione al potere politico dell’informazione giornalistica e televisiva (= il che crea un vuoto oggettivo dove la narrativa può insinuarsi), al sostanziale disimpegno di molta nostra narrativa, o comunque di quella che va per la maggiore, all’impotenza della giustizia, e quindi all’impunità dei fenomeni che descrivi, alla “amoralità” e all’assenza di cultura politica del berlusconismo (ne parla bene Asor Rosa tra gli altri nell’intervista pubblicata da Laterza), all’immaturità civica (e democratica) di molti cittadini italiani. Tutti fattori che appunto non sono dei corollari delle tendenze effettive generali dei media e delle società di cui parli così bene, ma al contrario costituiscono appunto delle atipicità, le quali intrattengono con le tendenze generali dei rapporti che sono spesso molto complessi. Trovo che questa confusione tra tendenze generali e particolarità nostre – o comunque una non chiarezza in proposito – indebolisca l’incisività di molte analisi, rendendole generiche e astratte. Il rischio è quello di ascrivere alle tendenze generali specifiche dinamiche che hanno che sono profondamente radicate nella nostra società e cultura, e che potrebbero essere curate solo partendo da lì. Perdendole quindi di vista, perdendo di vista i possibili rimedi.

    Visto appunto il piglio molto convincente del pezzo, la mia – più che la constatazione di un limite – è in questo caso più una curiosità , un eventuale invito a chiarire. Magari anche con calma in altro pezzo, intendiamoci.

    Detto altrimenti: perché proprio in Italia i narratori sentono il bisogno di queste forme ibride di scrittura? Non c’è un rapporto col silenzio/inettitudine dei media, con un’omertà diffusa del ceto intellettuale, con le degenerazione della nostra democrazia, con la gratuità di molta nostra narrativa? Non c’è un qualche rapporto col sentimento di impotenza, italianissimo, che vivono gli autori come i comuni cittadini? Perché altrove questa stessa tendenza alla commistione, alla narrazione sociale, è rilevabile piuttosto – mi sembra – nel cinema? (penso, per fermarsi alla Francia, ma si potrebbero considerare anche gli Stati Uniti, l’Inghilterra …, ai documentari di Depardon sul mondo rurale, alla Agnes Varda di “Des glaneurs et glaneuses” …). Non sarà che in quel caso, in quei paesi, il vuoto è più circoscritto, è limitato al cinema?
    Ferme restando le dinamiche che descrivi, ripeto.

  4. Il romanzo diventa un mare che invade ogni forma di scrittura. Non mi importa la referenza al genere. Romanzo o autobiografia? Romanzo o reportage? Ogni scrittore ha il suo batello per creare la sua forma. Sogno un romanzo poetico, e sogno un ritorno allo spazio nel romanzo, una scrittura ricca come una foreste tropicale. Sono stuffata della scrittura minimalista, che sotto la pretesa dell’eleganza è sempre vuota. Sono per un ritorno alla possibiltà di sognare.
    Gomorra è un libro magnifico che supera il reportage, per esplorare la verità, una verità che sembra irreale nella sua verità.
    Si puo anche immaginare un libro onirico su Napoli.

    Condivido pienamente l’opinione di Giacomo Sartori.

  5. Il pezzo di Rovelli è molto interessante e acuto. La nominazione può sortire poteri “magici” quando chi scrive esercita sulle parole la giusta pressione, etica ed estetica. Così come è vero che “la vittima del sacrificio è colui che soffre ciò che gli altri dicono”; nominare l’innominabile può condurre a ammutolimento e/o annichilimento (vedi la tragica parabola di Paul Celan innanzi al più cupo inferno che l’umanità ricordi). Credo non si tratti, qui, d’un problema di forma in quanto genere ibrido o meno; ma d’un problema di forma intesa come sostanza, di parola che sia sempre e di nuovo necessaria, pesata, organicamente sofferta. Ciò detto, il romanzo mi sembra il contenitore per eccellenza fra tutte le forme d’arte, e quando è sufficientemente forte esso mescola e fonde qualunque distonia, oppure se ne serve a proprio vantaggio anziché patirne. Pensiamo a INFINITE JEST: quante “forme” ci sono là dentro? La melodia complessiva però è unitaria: è la voce inconfondibile, ironica e accorata di Wallace. Ho poi un’impressione: il romanzo “protegge” di più chi scrive (e forse anche chi legge) rispetto alla poesia; la poesia è una scalata verticale, l’orizzontalità e l’ampiezza del romanzo riescono in qualche modo a diluire anche il tema più drammatico.

  6. Trovo l’immagine di Enrico Macioci bellisssima: “Il romanzo protegge di più chi scrive rispetto alla poesia; la poesia è una scalata verticale, l’orizzontalità e l’ampiezza del romanzo riescono in qualche modo a diluire anche il tema più drammatico.”

    E’ possibile immaginare l’incontro della verticalità con l’orizzontalità,
    il solare con la linea maritima della scrittura?

  7. @ Antonio
    La questione è complessa, ma il punto è: dare diritti. Non accogliere, ma “riconoscere”. E capire che la questione è “di sistema”, e l’umanitarismo non c’entra nulla.

    @ Mauro
    Hai ragione, non esistono regole o limiti. Si scrive, e tutto ciò che se ne dice viene ex post, come la nottola di Minerva. Appunto ho scritto queste note cercando di pensare più a fondo quel che mi è accaduto di scrivere. Quando interviene troppo il progettare si rischia di inceppare la narrazione – che, concordo anche in questo, deve partire dall’impersonificazione empatica. Su uno squadernamento, vorrei dire, per cui lo sguardo di chi scrive deve uscire da sé e cogliere gli altri sguardi (divenir-qualcosa, deleuzianamente…).

    @ Giacomo
    Penso che la tua sia una considerazione importante, del resto i miei sono appunti, dunque per definizione aperti e in divenire, senza alcuna pretesa di tematizzazione esaustiva. E di certo se c’è una specificità italiana direi a occhio che sta là dove tu la situi. Però dubito – con la carenza di strumenti dovuta all’ignoranza di quanto da questo punto di vista si muove globalmente negli altri paesi – che questo tipo di scrittura sia solo italiana: non so in Francia, ma penso alla Germania (il caso di ) e ai paesi anglosassoni (dove del resto nasce l'”etichetta” ). Ma appunto, su questo attendo integrazioni.

    @ Enrico
    La questione fondamentale è la “parola che sia sempre e di nuovo necessaria, pesata, organicamente sofferta” – aderisco senza riserve.

  8. Ops, saltai due parole nella risposta a Giacomo (non ricordavo la grafia esatta e stavo andando a controllare…). Rimetto tutto intero:
    @ Giacomo
    Penso che la tua sia una considerazione importante, del resto i miei sono appunti, dunque per definizione aperti e in divenire, senza alcuna pretesa di tematizzazione esaustiva. E di certo se c’è una specificità italiana direi a occhio che sta là dove tu la situi. Però dubito – con la carenza di strumenti dovuta all’ignoranza di quanto da questo punto di vista si muove globalmente negli altri paesi – che questo tipo di scrittura sia solo italiana: non so in Francia, ma penso alla Germania (il caso di Wallraff) e ai paesi anglosassoni (dove del resto nasce l’”etichetta” di non fictional novel). Ma appunto, su questo attendo integrazioni.

  9. Il libro è fondamentale; se venisse letto e incarnato, questo nord cieco e odioso in cui vivo forse non sarebbe quello che è.

    Non è la prima volta che per sapere il vero bisogna chiedere al finto. Tucidide cercò di ricostruire le dimensioni delle navi greche rileggendo l’Iliade. Marx chiedeva a Balzac. Anche Stendhal e Manzoni sfidano gli storici. Anche le narrazioni non testimoniali hanno un rapporto, benchè problematico, con la realtà.
    Ma qui al centro c’è la carne viva dell’io che vede, sente e racconta. E si trova di fronte a ciò che accade, ai dolori che narra.
    A questo punto una domanda: perchè espungere la bibliografia? Ricordo un intensissimo “Sappiamo le mie parole di sangue” (Babsi Jones), testo affine per certi versi al tuo ed a quello di Gomorra, con una nutrita schiera di testi alla fine.

  10. Caro Marco,
    sono convinto che non ti sarebbe stato difficile dare a queste riflessioni una forma più teorica ed elaborata, ma preferisci affidarti a degli “appunti”, più vicini al tuo stare con il “culo in strada”. Ed è così che dismetti molti dei meta-discorsi che paralizzano (parte) dell’attuale critica letteraria. C’è chi crede che la contrapposizione alla messa in scena letteraria sia una forma di letteratura diretta, insomma la sostituzione della finzione con qualcosa di preso sul vivo: alle fastose messe in scena del berlusconismo (ma altri direbbero postmodernismo), si dovrebbe rispondere con l’evidenza della pura realtà.

    E’ un’opposizione “truccata”: il contrario di una messa in scena non è il diretto selvaggio ma un’altra messa in scena. Lo dimostra bene il tuo libro: l’evidenza e la realtà non sono affatto la stessa cosa. Se non riconosciamo il mondo, è forse perché non l’abbiamo mai conosciuto e rischiamo, presi nella sua evidenza, di non conoscerlo mai.
    E così con la tua scrittura attraversi quella configurazione che chiamiamo realtà, e lo fai chiedendoti non cosa essa sia, ma come produrla “politicamente”. Doppio attraversamento, dunque. Da una parte ci fai vedere una “pre-messa in scena sociale” che sanziona già un modo d’impiego dello spazio e del tempo, dei percorsi obbligati, dei limiti e dei divieti; dall’altra crei tutta una serie di cavità pronominali in cui il lettore possa installare il proprio sguardo ed iniziare a fare il proprio lavoro cognitivo: è quel “tu” rivolto a Mehedi che pone un io e, con esso, uno spazio da colmare.

    Da questo angolo prospettico la resa testimoniale del tuo romanzo mi interessa per questioni prevalentemente formali (o, se preferisci, per una questione di etica della forma). Con questo intendo dire che la tua scrittura non sembra mai un semplice riversaggio del vissuto, ma costruisce uno “spessore” testimoniale del presente ricorrendo a tutta una serie di strategie retoriche.

  11. @ Luca
    L’apparato bibliografico potrebbe essere utile, è vero. E in effetti con Lavorare Uccide l’avevo utilizzato, in particolare per dare i riferimenti alla messe di dati. Ma in questo caso ho preferito farne a meno, forse per dare un senso compiuto al viaggio/narrazione in sé, e per marcare la distanza dalla forma-saggio.

    @ Dimitri
    E’ un fatto che non ho gli strumenti critici per fare meta-discorsi e teoria della letteratura :-) – dunque cerco di riflettere sul senso di quel che faccio e di quel che leggo – e credo, come dici bene, che si tratti sempre di produrre discorsi che “facciano evidenza”. Ricordo che una volta (l’unica) che ho tenuto un seminario di scrittura ho esaminato la “messa in scena” delle prime pagine di Gomorra. Esemplare, appunto, anche nell’uso delle strategie retoriche.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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