Come muore Enzo Biagi

Enzo Biagi

di Giuseppe Zucco

Esente da memorie e da speranze, illimitato, astratto,
quasi futuro, il morto non è un morto, è la morte.
Jorge Luis Borges

Guardo la morte di Enzo Biagi. Lo guardo morire da domenica mattina. Muore infinite volte, il più autorevole dei giornalisti italiani, e prima di scendere sottoterra, scava dappertutto lo spazio in cui verrà sepolto. Non lo accoglie solo la terra dell’ultimo giorno. Ma continua a scavare il proprio spazio nella carta dei giornali, tra i pixel del televisore, nelle onde della radio, nella diramata espansione di internet. Si muore anche così, oggi. Trovando un ultimo posto – mai definitivo – tra le parole e le immagini.
Ed è un finale senza fine. La deflagrazione dell’addio. L’irradiazione del commiato. La dispersione della commozione e dell’affetto. Nell’ultimo istante, Enzo Biagi, invece di ritirarsi nel legno della bara, di rintanarsi una volta per tutte nel suo sacco malandato di pelle e ossa, si allarga a dismisura: si dispiega, si diffonde, si ingigantisce, ritrova spessore, quasi riprende vita e radici. È un enorme sasso lanciato dentro l’infinita ed estesa superficie della comunicazione di massa. Enzo Biagi muore e brulica dappertutto, contemporaneamente.
Anche così si scompare, oggi. Diventando monumento piuttosto che miniatura. Esplodendo ed allargando il proprio raggio di azione e di visibilità. Saturando tutto lo spazio disponibile – il più ampio, il più comprensivo, il più infinitamente esteso.
Quando buca e allaga gli schermi, straripa dai giornali, dirompe e tracima nei discorsi degli esseri viventi, la morte non è più la cosa piccola e schiva, ritagliata nella commozione e nel silenzio, che eravamo abituati a conoscere. Dentro i mezzi di comunicazione la morte ritorna piramide – si eleva nella sua altezza, distende la sua portata, scava le sue fondamenta, mentre un esercito di commentatori, un masso dopo l’altro, una parola dopo l’altra, finiscono per costruirla, e spingerla in altezza, e vederla stagliarsi davanti.
Anche così si sparisce, oggi. Poco per volta, fin quando non hanno usato tutto di te, fin quando non ti hanno tritato per bene, sminuzzato ogni parte di te, impastato ogni parte di te con lacrime e parole e immagini, facendo di te tanti piccoli mattoncini da allineare, incastrare, accatastare nella grande piramide del ricordo.
Si muore in mezzo ad una gran folla di persone che fanno della morte la loro occupazione: svanisci, e pochi secondi dopo esali il tuo ultimo respiro tra i palinsesti della televisione e le scalette delle notizie quotidiane. Riscrivono la tua storia, mettono ordine alla tua esistenza, danno senso alle tue azioni, assegnano valore ai tuoi gesti, ti impaginano tra le notizie che fluiscono senza sosta, confezionato e ricucito come un prodotto editoriale qualsiasi, che deve catturare il lettore e lo spettatore, agganciare i nostri sentimenti. Ma non c’è cattiveria, in tutto questo. Non viviamo tra gli sciacalli. È solo il modo contemporaneo di alzare queste enormi e prodigiose piramidi, che durano pochissimo, qualche ora, un giorno o due al massimo, e poi scompaiono, evanescenti, della stessa sostanza di cui sono composte le immagini e le parole.
E la morte di Enzo Biagi continua a scorrere sullo schermo del mio televisore. Lo vedo infilato nella bara, pochi istanti prima di spingersi nella terra, dentro il passato, nelle profondità del tempo. Lo portano in spalla. Esce da una chiesa piccola. Fende la folla di persone che inclinano il capo nel loro ultimo omaggio. Ed improvviso, per me, parte il canto del coro di vecchi partigiani. Intonano Bella Ciao. E si sente che è stato provato un paio di volte, perché il canto è ben modulato, a più voci, ogni voce la sua particolare intonazione. E sale nitida come un pianto, quella musica, come un grazie emancipatosi dalla parola e divenuto canto.
E intuisco che c’è un modo di morire che non ci riguarda più, che non tocca le ultime generazioni, ma che comunque esiste, anche se si sta estinguendo, ed è il modo in cui muore Enzo Biagi.
Morire mentre intonano un canto che ricorda che sei stato giovane un tempo, e che allora, nel pieno della tua forza, hai combattuto per qualcosa che non riguardava solo te, che la tua forza è stata messa al servizio di tutti quanti, che non ti sei tirato indietro quando c’era da rimettere in piedi il mondo ridotto a polvere e macerie, che ti sei rimboccato le maniche ed hai fatto della tua forza lo strumento utile per riconsegnare la libertà e la speranza ad ognuno, senza distinzioni.
Morire sapendo di essere nel giusto, di aver fatto la cosa giusta, di essere stato strumento di quella giustizia, così tenera e così risoluta, che un tempo ha salvato tutti, perfino coloro che dovevano venire ancora, perfino loro, cioè noi.

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6 Commenti

  1. da come vanno le cose (e non perché passi il mio inutile piagnisteo) quello strumento a suo tempo ne ha salvati e ne continua a salvare molti, ma non tutti. non tutti. non ancora.
    bellissimo testo.
    un saluto
    paola

  2. E dopo il grande spectacolo della morte, il silenzio si fa. L’oblio. Eccetto nel cuore delle persone che hanno conosciuto di vivo l’uomo. Il suo impegno civile, la sua nobiltà, la sua intelligenza. Finalmente la vita umana è rimasta nel palmo di un mano, poco in verità, e immensa.
    Il tempo di leggere l’articolo, è come accendere una luce: Enzo Biagiè qui.

  3. Per seguire la lettura in “presenza” di Enzo Biagi, leggere l’articolo della Bellezza e l’Infierno di Roberto Saviano.

  4. Bellissimo… sino al disagio, sino alla commozione, sino al rammarico per qualcosa che non siamo più, ma anche per quel qualcosa che non riusciamo ancora nemmeno a immaginare di essere oggi… nell’odierno proliferare di immagini su come dobbiamo (non possiamno che) essere…

  5. Venerdì 6 novembre nel palazzo Enzo Biagi a Lizzano In Belvedere (B0) si è svolta una manifestazione in ricordo di Biagi, che durerà fino al 14.
    All’inaugurazione si parlato di Biagi, giornalisti politici, le sue figlie, tutti presenti, eppure guardando quelle immagini sullo schermo si ha una sensazione di estraneità. Di lui si dice fosse un grande giornalista, un buon padre, ci rammentano le sue figlie.
    Sono passati appena due anni dalla sua morte, eppure questo tentativo di ricordarlo appare come l’ articolo di un giornale del giorno precedente, già passato e consunto.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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