Il senso di Bessie per il blues

di Vincenzo Martorella

Gli americani usano una singolare perifrasi per indicare personaggi dalle esistenze leggendarie, che eccedono se stesse: «larger than life», più larghi della stessa vita. E la vita, a Bessie Smith andava davvero strettissima. Se esiste materia per la leggenda del blues, quella è l’esistenza veloce, bruciante, consapevole, determinata e inarrestabile di una delle più eclatanti regine della musica nera. Leggendaria fu anche la sua morte, coperta dal mistero e dal sospetto. Troppo stretta, la vita, se si è larger than life.

1. The world in a jug

Quando si presentò negli studi di registrazione della Columbia, dalle parti di Columbus Circle, a New York, per incidere i suoi primi dischi, Bessie Smith aveva un’età indefinibile; non perché non si riuscisse a indovinarne gli anni dai lineamenti, dall’abbigliamento, dalla solidità dei gesti e la maturità dei comportamenti (Frank Walker dichiarò che sembrava una diciassettenne, alta e grassa, molto southern e assolutamente tutto fuorché una cantante), ma perché si ignorava la sua data di nascita. Ancora oggi, visto che l’anagrafe di Chattanooga, Tennesse, non dimostrò grande perizia nel registrare le nascite dei cittadini di colore alla fine del diciannovesimo secolo, non si sa con precisione, e forse non si saprà mai; la data più probabile è il 15 aprile 1894, il che rende Bessie Smith quasi trentenne in quel febbraio 1923. Non più giovanissima, dunque, ma di certo non una sconosciuta, o una volenterosa dilettante. Bessie era già Bessie Smith pur lontana dai microsolchi, forte di una popolarità incendiaria nata e rinforzata sulle tavole degli spettacoli itineranti: era una star, amata, sognata e desiderata da molti uomini, e quasi altrettante donne.

Orfana, aveva iniziato da bambina, sui marciapiedi davanti casa per aiutare il resto della famiglia; col fratello chitarrista Andrew improvvisava numeri per la strada, raccogliendo spiccioli. Grazie a un altro fratello, Clarence, presentatore in una compagnia di minstrel show, riuscì ad ottenere un’audizione: fu assunta immediatamente, ma come ballerina di tip tap, e questo le sarebbe tornato utile in futuro. La compagnia era quella di “Ma” Rainey, e per l’inesperta aspirante show-girl non avrebbe potuto esserci miglior scuola. Della sua amica-protettrice-amante (a quanto si dice) Bessie prese il possibile; tesaurizzò ogni singolo gesto vocale, movimento di scena, sfumatura, sfrontatezza, atteggiamento, comportamento, senso dell’umorismo e un certo gusto per la vita spericolata: soprattutto, provò a duplicare la forte umanità di Gertrude, quel suo essere capace di sentire i problemi della gente e cantarli nei suoi blues. Non faticò molto, in verità; Bessie aveva già tutto questo – eccessi compresi –, le mancava un palcoscenico per esercitarsi ogni sera, e un’ala protettrice. In più, aveva una prepotente consapevolezza del proprio talento, e una determinazione che nessun’altra poteva vantare o esibire. Aveva, infine, la voce più bella che si potesse ascoltare in giro, e tonnellate di anima. Era già Bessie Smith, e tutti lo sapevano. Lo sapevano gli spettatori che riempivano i teatri e ne assorbivano fino all’ultima stilla di bellezza, dolore e sensualità. Nel 1922 la Smith aveva costruito un numero la cui scenografia era un’enorme tromba di grammofono; lei cantava i suoi blues e spiegava al pubblico adorante come aveva inciso i suoi dischi, anche se, all’epoca, non ne aveva registrato neanche uno. Sapeva soltanto che voleva farlo. Più di ogni altra cosa. E il pubblico, annegato nel buio della sala, credeva a ogni cosa.

Ci arrivò comunque tardi. Il fenomeno aveva già preso fuoco grazie alla miccia accesa da Mamie Smith, e per qualche tempo Bessie dovette rincorrere. Non fu facile, perché subì qualche partenza falsa. La più nota, e in qualche modo grottesca, assunse le sembianze di un provino fallito con la Black Swan, nel 1921; l’etichetta di Harry Pace ritenne la cantante troppo grezza per il pubblico cui si rivolgeva (o per quello che avrebbe voluto costruire), e la scartò, consegnando alla storia una strepitosa prova di cecità artistica. La Columbia, invece, annusò la grande scoperta, e la mise sotto contratto; non è ancora del tutto chiaro se fu per iniziativa di Frank Walker o di Clarence Williams, ma ormai poco importa: Bessie aveva un contratto discografico. L’avrebbe onorato nel migliore dei modi.

Quando si presentò negli studi di registrazione della Columbia, dalle parti di Columbus Circle, a New York, per incidere i suoi primi dischi, Bessie però non aveva idea di cosa fosse, di cosa volesse dire: l’unica esperienza era la finzione sul palco. Finzione, appunto. La realtà era assai più dura di come avrebbe potuto immaginarla. Lo studio era simile alla scenografia del suo spettacolo: un’enorme tromba spuntava da una tenda, spessa e pesante, dietro la quale si nascondeva il tecnico del suono. Lei avrebbe dovuto cantare rivolta alla tromba, senza poter neanche guardare il suo accompagnatore, Clarence Williams. Per niente facile. E infatti non le riuscì. Provò tutto il giorno, con risultati scadenti. Le mancava il pubblico, l’elettricità della sala, le luci, il movimento: era ingabbiata in una situazione irreale, completamente diversa dall’esperienza naturale dell’esibirsi, del comunicare. Senza le sue armi, senza il corpo che occupava la scena come se questa fosse tagliata a misura della sua fisicità, appariva smarrita e imbarazzata; cantare dentro a una tromba, poi, era la negazione stessa del cantare. Al terzo tentativo del secondo giorno, finalmente, accadde qualcosa. Bessie era riuscita a racchiudere il suo mondo in un blues, come recitava il testo, ed era pronta a tappare la bottiglia («I got the world in a jug, the stoppers in my hand»).

Down Hearted Blues era stato scritto da Alberta Hunter e Lovie Austin. Non l’aveva scelto Bessie, naturalmente (sebbene il testo di quel brano beffardamente racconterà cosa sarà la sua vita sentimentale negli anni successivi, tra delusioni e tradimenti), ma Frank Walker; il produttore non era riuscito a strappare la Hunter alla Paramount, né King Oliver alla Gennett, e quella doveva essere la sua piccola vendetta. Bessie provò quel brano insieme ad altri tre (uno, Gulf Coast Blues, di Williams, sarebbe comparso nell’altra faccia del 78 giri), e quando la take fu buona, dopo due giorni e diversi tentativi, fu subito chiaro che era avvenuto un piccolo miracolo. Perché nonostante la tensione, l’inesperienza, lo spaesamento, la delusione, la rabbia, Bessie cantò come se non avesse fatto altro che incidere dischi. Neanche la minima incertezza a increspare la superficie di una performance strabiliante, talmente perfetta da diventare paradigmatica. Bessie cantava il blues e il blues non fu più lo stesso dopo quel 16 di febbraio del 1923. Down Hearted Blues, che nei piani di Walker avrebbe dovuto essere il lato b di Gulf Coast Blues, vendette in pochi giorni settecentocinquantamila copie, stracciando avversarie e concorrenti.

Cosa decretò l’immediato successo della cantante, e il successivo dominio incontrastato nel decennio, è apparentemente facile a dirsi. La ragione più evidente è che non si era mai ascoltato nulla di simile, prima d’allora. La ricca voce di contralto, speziata – come un vino di pregio – da una miriade di sfumature si stagliava netta nonostante la scadente qualità della registrazione, ed era in grado di restituire una vastissima paletta di sensazioni. Parlava al cuore e alla carne, sussurrava parole d’amore e alludeva al sesso, indicava speranze e trasudava orgoglio; in più, era capace di rendere il dolore un’esperienza condivisibile, senza alcuna ritrosia. Dall’alto di un magistero vocale irraggiungibile, Bessie sapeva parlare a tutti, e per ognuno era come se la cantante avesse cantato solo per lui.

2. Istruzioni per riempire l’aria

Difficile immaginare due cantanti più distanti – stilisticamente, almeno – di Billie Holiday e Janis Joplin. Eppure, per tutt’e due Bessie Smith costituì un modello, una fonte di ispirazione. Janis Joplin addirittura disse: «Mi ha mostrato l’aria e come fare per riempirla».

Certo, Bessie Smith riempiva l’aria, e ogni altra cosa intorno; per la sua umanità così complessa (aveva un carattere dolce e generoso, ma sapeva trasformarsi in una persona violenta e maleducata in un batter di ciglia), per la sua esuberante fisicità. Soprattutto, perché aveva un senso speciale per il blues, e seppe trasferirlo tutto intero nelle cose che interpretava. Bessie non era stata divinamente toccata dal blues – li cantava come cantava qualsiasi altro genere, e sempre con risultati spettacolari – ma capì che attraverso i blues, attraverso quella inestricabile mistura di tensione umana e sovrumana, profana e sacra, aveva lo strumento per riuscire a trasmettere il suo pensiero. Ecco perché Bessie parla di tutto nei suoi blues: un posto preponderante l’ebbe l’argomento amoroso (sarà così anche nel songbook di Billie Holiday), ma non esclusivo; raccontava se stessa e la condizione del suo popolo, i suoi problemi con l’alcol e lo sfruttamento, l’ingiustizia e la povertà, il sesso e la disperazione. Ebbe il coraggio di dare voce ai neri del nord e del sud. Diede loro la sua voce affinché potessero usarla come fosse la propria.

Bessie, cioè, era l’incarnazione più esatta del concetto, tutto afroamericano, di soul, qualcosa che va al di là dell’anima, e investe un codice assai più complesso di valori e comportamenti. Come nota in maniera molto efficace la storica Buzzy Jackson:

“La metafisica della musica popular americana inizia e finisce con il concetto di soul. È l’aspetto ultramondano della musica, quella parte che è separata dagli aspetti meccanici di melodia, tempo, ritmo e timbro. Il soul è ciò che si sente, non ciò che si ascolta. Una canzone perfetta può essere soul, ma per avere il soul dev’essere cantata da una cantante speciale. In una cantante il soul è una qualità sia innata che acquisita; la comprensione profonda della vita implicita nelle sue canzoni parla sia a una sensibilità personale al mondo sia, spesso, a una storia personale segnata da lezioni dolorose.”

Ecco, la voce di Bessie era la voce soul per eccellenza. Dal vivo, secondo le testimonianze dei fortunati che ebbero la possibilità di assistere ai suoi concerti, o attraverso il medium freddo del disco, la sua voce riempiva l’aria di senso, di elettricità. Ed era un’elettricità costituita da particelle significanti, ognuna delle quali trasportava un microscopico dolore o una minuscola speranza: insieme, mai una cosa alla volta. Il senso di Bessie per il blues era questa forza sovrumana nel coniugare la vita, nel declinare le esperienze di ciascuno come fossero di tutti, nell’essere chi racconta e chi è raccontato. Allo stesso tempo. Senza alcuno sforzo.

Allo stesso modo, fu anche una cantante assolutamente straordinaria. Nonostante la sua arte poggiasse su basi empiriche, nessuna come lei seppe dare un senso così compiuto al canto blues. Nessuna, come lei, seppe stipare tanta sorpresa nell’esecuzione di un blues. Bessie si era subito resa conto che le gabbie della struttura del verso potevano e dovevano essere scardinate, altrimenti due versi uguali più un altro in rima avrebbero potuto uccidere l’espressività, azzerare l’attesa. Per questo, i suoi blues vivono su un accumulo di strategie diversificanti: sillabe allungate, versi la cui lunghezza sfora e si allarga alla misura successiva, l’enfasi posta con abilità su certe parole e non altre. Soprattutto nell’esposizione del verso ripetuto Bessie dava fondo a tutto il suo repertorio di variazioni improvvisate, dimostrando la vastità delle sue risorse – che comprendevano una miriade di effetti vocali – e la genialità della sua creatività. E poi, l’assoluto controllo ritmico; non le piaceva suonare con i batteristi («ci penso da me a tenere il tempo», diceva, e la stessa cosa avrebbe detto, anni dopo, Chet Baker), e la finezza del suo controllo dimostra come il tip tap avesse fatto di lei una macchina ritmica.

Bessie fu Bessie per tutti gli anni Venti, fin quando non si trovò invischiata, come quasi tutti i suoi colleghi, nella palude della Depressione. Continuò a suonare in lungo e in largo, e stava proprio andando ad esibirsi nel sud, padre di tutti i ritorni, quando smise per sempre di cantare.

Un incidente d’auto la uccise nei pressi di Clarksdale, la culla del blues. Sulle dinamiche si produsse molta letteratura, e per anni si è creduto che Bessie sia morta per omissione di soccorso, cioè per il più vile degli atti di discriminazione razziale. Le cose andarono diversamente. Bessie fu soltanto vittima di una tragica catena di fatalità, e non del bieco odio razziale. Aveva quarantun anni, e ancora voglia di cantare. La sua lapide, nel cimitero di Mount Lawn, poco fuori Philadelphia, rimase anonima per più di tre decenni, fin quando Juanita Green, che aveva lavorato per lei come cameriera, e Janis Joplin non misero a disposizione il denaro necessario per una nuova lapide.

Cosa resta di Bessie Smith, oggi? Ralph Ellison scrisse:

“Ci sono diversi livelli di tempo e funzione, per cui il blues che in un posto può essere usato come semplice intrattenimento, in un altro può rivestire una funzione rituale. Bessie Smith avrebbe potuto essere una “regina del blues” per la società in generale, ma per la comunità nera, in cui il blues era parte di un modo di vita complessivo, ed espressione fondamentale dell’atteggiamento nei confronti della vita, Bessie è stata una sacerdotessa, una celebrante che affermò i valori del gruppo e l’abilità dell’uomo a misurarsi con il caos.”

Ma, come spesso accade, è nelle parole dei poeti che si racchiude il senso ultimo di un’esperienza. E questa lirica di Sybil Klein è il finale perfetto.

could kill you
with a smile
mean mama
in red satin shoes
wearing pearls
of misery blues-
swaying under soft
lights and hard times.
could love you
with a song
make you feel
what dying is,
what life ain’t
never gonna be-
black diamond star
she makes shadows
of things gone.

bessie

*

[Tratto da Vincenzo Martorella, Il Blues, Einaudi, 2009.]

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3 Commenti

  1. Grazia, luminosità di una vita fatta di canto, grande senso della vita.
    Una donna artista con personalità ricca, il cuore graffiato,
    da bambina sotto cielo povero.

    Grazie per il soffio e la musica, grazie a voi due Vincenzo Martorella e Andrea.

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