Errore di sistema

di Alessandro Busi

La settimana scorsa parlavo con F., un detenuto della redazione di Ristretti Orizzonti con un importante curriculum carcerario alle spalle. Gli chiedevo un parere sulla storia di Stefano Cucchi e lui, lapidariamente, mi ha guardato e mi ha detto:
Cosa c’è da dire Ale? In carcere queste cose sono normali. Infatti, io non capisco tutta questa attenzione da fuori, ‘sto giro.

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Il risultato dell’autopsia di Stefano Cucchi è stato questo: sangue nel suo stomaco e nella vescica, un vasto edema cerebrale, ecchimosi sul volto, traumi plurimi e due vertebre rotte (la terza lombare e la sacrale).
Ora, ciò che succede in questi giorni, è che giustamente la famiglia vuole sapere la verità di quanto accaduto a Stefano. Chi gli ha fatto queste lesioni, perché, perché nessuno li ha informati, perché gli hanno proibito di vederlo in quei giorni…La famiglia chiede tutto questo, perché è disumano quanto è stato fatto a lui e a loro, quindi vogliono sapere chi sono i responsabili. Ovviamente, anche la società civile si mobilita di fronte a questo fatto. I giornalisti si indignano, i politici si impegnano a fare interrogazioni parlamentari e la gente si costerna: si costerna, s’indigna, s’impegna, poi… A questo punto, quindi, la macchina è partita e procede per un percorso che, personalmente, trovo prevedibile e divisibile in due blocchi, in due fasi.
Per ora siamo nella prima fase, quella della difesa, quella della negazione ad oltranza, anche di fronte all’evidenza. Per ora, siamo nella fase in cui lo Stato – uso il termine Stato per prenderla larga e non dare responsabilità personali a nessuno – si comporta come un marito violento: che sbadata che è la mia signora, è caduta dalle scale di nuovo. Infatti, nemmeno a farlo apposta, la prima risposta su come Stefano si sia procurato quelle lesioni è stata: “è caduto”. Che io dico, se devi inventare un alibi su una violenza, almeno usa la fantasia, non usare sempre quello solito, che poi, ovviamente, vieni stanato subito, ma come mi spiegavano alcuni detenuti la settimana scorsa, la caduta è un’antica usanza anche in ambito penitenziario. E poi forse è meglio così, almeno non si fa fatica a capire che è una copertura e si può passare alla seconda fase.
La seconda fase è una fase strana. È una fase che tenta di accontentare un po’ tutti, nel panorama politico. In genere funziona così. Una volta che si è capito che la moglie non è caduta, ma che è il marito che l’ha picchiata, allora succede che il sistema mariti allontana il colpevole e ne prende le distanze. In genere, quindi, alla faccia dei numeri statistici che magari affermano che questo tipo di eventi sono molto comuni, si procede ad una salvaguardia del sistema dicendo che, che ne so? La famiglia è sacra, è buona, è bella, è bene, ma le mele marce, i mostri, i devianti…si annidano anche nelle migliori situazioni. Questo processo, chiaramente, porta alla condanna della persona specifica che, da questo momento, non fa più parte del gruppo buoni, ma entra di diritto a fare parte della categoria malvagi.
Ora, se questo processo succede ogni volta che un qualunque gruppo sociale si vede sotto un possibile attacco, nel momento in cui il gruppo in questione ha un’identità forte, la quale identità, in più, si basa sul fatto che la sua stessa presenza nella società è l’emblema del bene contro il male, allora questa reazione di rifiuto del deviante deve essere ancora più forte, perché il deviante andrebbe a minare l’esistenza stessa del sistema interessato. 1

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Secondo Piero Bocchiaro, autore de La psicologia del male, il male, ovvero quel qualcosa che arreca danno e dolore ad un’altra persona, non viene fatto da soggetti geneticamente cattivi, ma è il frutto della situazione. La visione dicotomica bene-male, perciò, non è utilizzata per capire la realtà sociale che ci circonda, ma per far sì che noi che ci inscriviamo nella categoria dei buoni, non percepiamo alcuna vicinanza con quella dei cattivi, ai quali affibbiamo caratteristiche psichiche e talvolta addirittura fisiche, 2 strutturalmente differenti dalle nostre. In questo modo, quindi, il sistema sociale non viene mai messo in discussione, perché la causa prima per cui certe persone compiono atti malvagi, è da ricercare nella malvagità genetica delle persone in questione.
A sostegno della propria tesi, Bocchiaro porta vari esempi. Uno di questi è il noto Esperimento carcerario di Stanford di Philip Zimbardo. In questo esperimento, Zimbardo aveva preso un gruppo di studenti universitari e li aveva divisi, tramite il lancio di una monetina, in guardie e detenuti, utilizzando come prigione gli interrati dell’università. Bene, dopo soli tre giorni, molti carcerieri avevano iniziato ad avere comportamenti sadici verso i carcerati (i detenuti venivano svegliati nelle ore notturne per le perquisizioni, talvolta gli veniva impedito di utilizzare i servizi igienici, poi erano costretti a cantare, ridere a comando, insultarsi, fare Frankenstein, pulire il bordo del water a mani nude, lustrare gli stivali delle guardie…), tanto che l’esperimento fu interrotto con nove giorni di anticipo.

Da questo esperimento, quindi, si può vedere che: primo, tutti potremmo comportarci in modo cattivo in una determinata situazione; secondo, è il sistema stesso, basato sulla presenza di carcerieri e carcerati, quindi su categorie spersonalizzanti e rapporti di forza a dir poco impari, che genera comportamenti di sadismo, di violenza e di rivalsa dei primi verso i secondi. Bisogna poi pensare, che questa appartenenza categoriale, nella quotidianità, è molto rinforzata rispetto alla situazione sperimentale, grazie la presenza di alcuni piccoli importanti particolari. In carcere, per esempio, gli agenti perdono i propri nomi e cognomi, e diventano, o “collega”, quando parlano tra parigrado, oppure “appuntato”/“agente”, quando sono i detenuti che devono richiamare la loro attenzione. Questo modus operandi, ovviamente, viene giustificato con ragioni di sicurezza e privacy per gli agenti stessi, ma è innegabile che porti anche all’annullamento della persona come singolo, in favore della sua totale aderenza al gruppo di appartenenza, con le conseguenze che abbiamo visto prima.
Con questo, chiaramente, non voglio dire che tutti gli agenti, in quanto tali, facciano violenza su tutti i detenuti, ma semplicemente che il sistema carcere inserisce gli uni quanto gli altri, in una gabbia di rapporti di forza nella quale entrambi rimangono reclusi.

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Il risultato dell’autopsia di Stefano Cucchi lascia pensare ampiamente che sia stato vittima di un pestaggio, a dir poco violento. Il fatto che sia stato impedito ai parenti di vederlo e di parlargli, porta a pensare inoltre, anche che lui avrebbe potuto dire qualcosa a riguardo, quindi, che fosse meglio non farli incontrare, per coprire.
Ora come ora, però, queste sono tutte ipotesi, perché siamo ancora nella fase delle indagini, delle interrogazioni parlamentari e, riprendendo la metafora iniziale, della moglie caduta dalle scale. Questa fase, però, prima o poi finirà. Personalmente, non so se il sistema Stato sarà abbastanza forte da difendere l’ipotesi dell’incidente, oppure se si passerà alla fase due. Ciò che posso anticipare con una certa sicurezza, invece, è che comunque giustizia non ci sarebbe. Presumibilmente, infatti, ci sarebbe un processo dalla durata infinita, seguito dall’esclusione dal gruppo dei buoni degli agenti coinvolti, i quali, magari, verrebbero poi messi in un qualche ufficio a fare timbri a centinaia di chilometri di distanza dall’accaduto.

Detto tutto questo, però, giustizia non ci sarebbe.
Giustizia non ci sarebbe perché, nel frattempo, il sistema carcere sarebbe ancora lì, intaccato ed intoccabile, senza che nessuno si interroghi su come sia questo stesso sistema a produrre certi risultati. Anzi, probabilmente, molti che adesso si sbracciano per il disumano trattamento che gli agenti potrebbero aver avuto verso Stefano, non vedrebbe male gli stessi agenti diventare carcerati, quindi diventare dei possibili Stefano. Sì, perché quanto è accaduto a Stefano Cucchi, come mi aveva detto F., non è un qualcosa di anomalo, ma, dico io, è solo ed esclusivamente un errore di sistema. Uno di quelli che in informatica, si chiamano bug: un errore di scrittura, all’interno di un vocabolario e di una sintassi già consolidata.
Fondamentalmente, questo bug si articola su due punti:

• primo: la scelta. In carcere ci sono, dai dati ufficiali del “dossier suicidi” di Ristretti Orizzonti, due omicidi accertati, 3 e sottolineo accertati, all’anno, su centocinquanta morti 4 di media. Ora, quando si uccide una persona, bisogna stare bene attenti a chi si uccide. Se si uccide una persona in vista, un vip, si va sui giornali. Se si lascia morire di fame un clandestino senza famiglia, si può riuscire a tenerlo nascosto anche alla propria moglie. Detto questo, bisogna pensare che Stefano Cucchi, ovvero un normalissimo ragazzo di trent’anni con alle spalle una famiglia, è una sorta di vip, se lo si rapporta con il quadro sociale rappresentato nelle carceri. Per questa ragione, la “scelta” è stata sbagliata, perché in questo caso la vittima, non era il maghrebino, o il nigeriano di turno che, in quanto clandestino e senza documenti, non pone nemmeno il problema di avvertire la famiglia, ma era un ragazzo con una rete sociale normale alle spalle;

• secondo: la morte. Come abbiamo visto nel brevissimo accenno all’esperimento di Zimbardo, è insito nel sistema carcere il sadismo dei carcerieri verso i carcerati. È un po’ come succede da piccoli, quando ci si diverte a torturare le formiche, o le lucertole. Nel momento in cui si apprende che si ha un potere immenso su quell’altro essere, si prova piacere ad esercitarlo. Viene naturale. In più, oltre alla situazione sterile proposta da Zimbardo, bisogna pensare che il nostro sistema carcere si compone di turni di guardia lunghissimi, agenti sempre sotto personale, detenuti ben oltre il numero regolamentare 5. Chiaramente, questo mix di elementi, non può fare altro che creare una pentola a pressione gonfia, che sfiata come riesce. E allora su chi sfogarsi? Su chi è sotto, sulle formiche. Ma quali sono le formiche dei carcerieri? I carcerati. Questo è ciò che porta alla situazione assurda della detenzione – attese di ore per fare una doccia, telefonate che, se di diritto sono una volta a settimana, diventano per grazia ricevuta, una volta ogni tanto… – ma questo è anche l’humus nel quale, esagerando, può nascere l’omicidio di Stefano Cucchi. Perché magari era uno che aveva rotto un po’ le palle, o magari era il solito tossico che bisogna fargli capire come funziona il carcere appena entra.

Quindi, uscendo dalla schematica, sono questi elementi che hanno generato il bug Cucchi: il fatto di aver esagerato con la persona sbagliata.
Per questo, sono convinto che anche se si passasse in fase due e anche se succedesse che, per assurdo, ad un paio di agenti venissero dati vent’anni di carcere, non ci sarebbe giustizia, ma solo l’addizione di altri due potenziali Stefano Cucchi, perché è il sistema che ha generato quella morte, non solo le peculiarità di chi vi ha partecipato.
Allora, io penso che se è legittima e va appoggiata l’azione legale della famiglia, questa non può essere sufficiente a livello di società civile.
In questo secondo livello, infatti, io credo che una giustizia ci sarebbe se si iniziasse a riflettere su quanto sia deleterio il carcere, sia per i detenuti, sia per gli agenti, e sulle sue possibili alternative. Credo che giustizia ci sarebbe se si abbandonasse, a livello politico, il giustizialismo che contraddistingue entrambe le parti rappresentate in parlamento, dove l’unica lingua che si sa parlare è quella della pena. Credo che giustizia ci sarebbe, se si abbandonasse la visione manichea bene-male, nella quale ci assolviamo da un male che consideriamo come altro da noi, ma si iniziasse, di fronte ad ogni reato, ad interrogarsi sulla cultura, sul contesto e sulla situazione nelle quali il reato stesso si è generato, nelle quali ha preso forma e che tutti, chi più, chi meno, abbiamo co-costruito.
Personalmente, quindi, credo che queste sarebbero le vie per far avere giustizia a Stefano Cucchi, perché, se si vuole veramente che la sua morte non sia stato solo un inutile errore di scrittura del programma, non si può fare altro che partire da qui, per tentare di modificare il programma stesso.

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NOTE
  1. Per la precisione, bisogna dire che nel caso delle forze dell’ordine, se da un lato si rinnega il deviante, dall’altro si arriva però ad una condanna meno forte rispetto alla norma, cosicché, vedendosi aiutato dal suo essere stato appartenente, il reietto non abbia voglia di vendicarsi, magari raccontando cose riguardanti il gruppo dal quale è stato escluso.
  2. P. Bocchiaro, Psicologia del male, 2009, Laterza Bari, pp. 88-97.
  3. È importante sottolineare il termine accertati, perché, per ora anche la morte di Stefano Cucchi non è un omicidio accertato.
  4. Da gennaio ad ottobre 2009, ci sono già state 146 morti, di cui 59 suicidi. Fonte: http://www.ristretti.it/.
  5. A fine ottobre siamo arrivati a 65.000 detenuti su una capienza regolamentare di 43.327.…

9 Commenti

  1. da leggere tutto, questo pezzo.

    150 morti nei carceri è un numero detestabile, ma – stessa fonte, ristretti.it, per la quale ringrazio Alessandro Busi – c’è anche un altro numero aberrante: i tentativi di suicidio in carcere.
    nel 2008: *683*. 1 detenuto [1,33 percento] su cento ha tentato il suicidio!

    gli “episodi di autolesionismo”, sempre nel 2008: *4.928*. con un tasso di incidenza del 9,63 percento sulla popolazione carceraria.

    cosa cazzo succede nelle carceri italiane?

    come è possibile che in carceri sovraffollate [celle riempite all’inverosimile] ci possano essere *683* tentati suicidi?

  2. Che dire ? .. bel pezzo.

    Se violenza c’e’ stata(anche se pare evidentissima) vedere i colpevoli in carcere è comunque un buon deterrente per i colleghi dei violentatori, oltre che un atto di giustizia che dovrebbe essere immediato per un atto dovuto alla famiglia.

    Il pezzo non precisa, con proporzionata enfasi, che mentre ci si decide a fare le riforme del caso, non dobbiamo rinunciare a scovare e punire ogni tipo di violenza eseguita da rappresentanti dello stato.

    L’equilibrio di chi rappresenta lo stato dev’essere certificato e garantito dallo stato stesso. Che tropo spesso giustifica le azioni dei suoi rappresentanti armati.

    I io da piccolo le formiche e le rucertole non le ho mai seviziate;
    e in generale non ho mai agito vigliaccamente su persone o animali o vegetali che ritenevo piu’ deboli di me, mai, anche se le occasioni per provare frustrazione, risentimento, assicuro, non mi mancano.

  3. Articolo corretto e ” civile “, anche così ci si distingue da loro. Loro ? Quelli che picchiano con la vigliaccheria classica di chi si rifà sui più deboli. Ma anche da quelli che ‘picchiano” con le parole su certi giornali. Ed anche da quelli che straparlano come Giovanardi senza capire effettivamente niente.

  4. 1. @non mi uccise la morte ma due guardie bigotte mi cercarono l’anima a forza di botte
    2. :mi viene in mente una bella cosa che vidi durante gli inutili anni dell’università e cioè the brig del living theatre e scritto da kenneth brown
    3. ::mi viene in mente altro e di più cattivo o ‘captivus’ nel senso di prigioniero, appunto, di pregiudizi e schematismi mentali che mi sono propri in quanto cattolico battezzato e cittadino italiano che o sta dalla parte diseducata e vigliacca o da quella elitaria educata pacifista che con la violenza non deve avere niente a che fare (mia soggettiva considerazione)
    4. :::il mio amico M. lavorava in carcere e faceva colloqui o qualcosa del genere e mi racconta di come i detenuti venivano trattati: cosa che mi ha spinto a farmi raccontare situazioni assurde che hanno spinto il mio amico a lasciare quel lavoro. i detenuti vengono gratuitamente trattati male (la forma 4 lascia a desiderare)
    5. :ho imparato a essere educato e capire che anche dietro quel gesto violento c’è un essere umano vivo e dopo quel gesto violento un essere umano morto ma credo che, chi più chi meno, siamo tutti morti (autoironia e sarcasmo)
    6. ::come educatore credo che il carcere dovrebbe appunto rieducare al massimo ma nemmeno perché ci si dovrebbe calare nei panni di chi agisce male perché nel mondo c’è il bene e c’è il male e questo paradossalmente scagionerebbe i violenti da ogni colpa (seriamente)
    7. :::ci fanno credere in qualcosa come dio
    8. l’anarchia pacifista è un’utopia e richiede una sensibilità decisamente sovrumana e invece siamo ormai troppo disumani quasi inferiori anche agli animali (una quasi violenza gratuita)
    9. tutto va come deve andare. (sperando non aver commesso errori grammaticali).

  5. chissà perchè siamo tutti convinti che un cane alla catena diventa ingestibile, ma non riusciamo a fere lo stesso discorso per un essere umano

    E.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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