Uno nessuno sessantacinquemila

di Alessandro Busi

Una volta un agente, giovane, poco più vecchio di me, mi si mette di fianco, mentre ci passavano davanti i detenuti di ritorno dall’aria, e mi fa: non senti come puzzano? Io attivo le narici e tiro su due volte, ma niente, no, sinceramente no, gli dico. Allora lui mi guarda come a dire che certo, che è ovvio, tanto per chi entra da volontario quelli sono tutta brava gente, che non odora nemmeno, poi chiude, madonna, e come se puzzano. Si lavano tre volte al giorno e puzzano. Sono delle bestie, delle bestie.

Ora, io non credo che quel ragazzo fosse particolarmente cattivo, sinceramente penso piuttosto che, quando ci si rapporta per tutto il giorno con altre persone, all’interno dei giochi di forze che contraddistinguono il carcere, disumanizzare l’altro sia normale. Uno degli effetti delle categorizzazioni assolute, come possono essere quella del detenuto, o del malato mentale, o del clandestino, infatti, è la disumanizzazione. In un blocco della narrazione, dove le persone smettono di raccontarsi, ma vengono sempre e solo raccontate da apposite equipe, queste persone perdono la propria umanità, diventando qualcosa di diverso, degli oggetti senz’anima, le cui uniche caratteristiche personali corrispondono esattamente con quelle che contraddistinguono le loro categorie di riferimento. Proprio per questo meccanismo, quindi, quando muore in carcere un detenuto, non succede che è morta una persona, un singolo, ma succede che si è ridotta di una unità, un nessuno qualunque, il numero complessivo.

Ciò nonostante, ultimamente si è fatto tanto parlare di carcere e soprattutto di violenza intramuraria. Il caso Cucchi, deo gratias, ha colpito molti, perché ha permesso di immedesimarsi emotivamente e sentirsi vicini al dolore di questo evento. Vedendo questo interesse, la mia speranza era quella che, finalmente, si stessero accendendo i riflettori della società civile sulle galere, troppo spesso vissute come una sorta di discarica sociale, rispetto alla quale pararsi gli occhi anche quando ci si passa davanti in macchina. Con un tono profetico, però, l’altro giorno, S. della redazione di Ristretti orizzonti, mi diceva che secondo lui questa cosa non sarebbe durata altri due giorni. In realtà, devo dire che si sbagliava, ma fino ad un certo punto. Si sbagliava nel dire che i mass media non avrebbero più parlato di questa storia, perché i servizi giornalistici sulle vicende giudiziarie non si sono fermati; mentre non si sbagliava nel dire che i riflettori sul carcere si sarebbero spenti. Come previsto, infatti, pochi continuano a parlare del sistema carcere, mentre la maggior parte racconta delle presunte deviazioni di questo sistema che hanno portato al caso Cucchi.

Per questa ragione, penso io, perché ormai gli sguardi sono tutti puntati sul caso singolo e non più sul collettivo, ormai assolto, la storia di Massimo Gallo non è balzata selle prime pagine dei giornali, né dei telegiornali, né delle radio. Nel migliore dei casi se ne può leggere qualche articolo di cronaca sulle edizioni online dei giornali locali, ma nulla di più. Eppure, anche questa storia puzza di strano, di suicidio condito, diciamo.

Andiamo per punti.

Massimo Gallo era un detenuto di 43 anni, con una storia di abuso di sostanze stupefacenti, condannato per tentato furto, che avrebbe finito di scontare la propria pena nel 2011. Il giorno 13 novembre alle ore 15, durante l’ora d’aria, è stato trovato impiccato nel sottoscala che conduce al cortile dei passeggi del carcere di Vercelli. Dalla versione archiviata come ufficiale, sembra che Massimo si sia impiccato legando il lenzuolo ad un’inferriata di un cancello inutilizzato nel sottoscala, ovvero sembra che Massimo Gallo sia il primo detenuto nella storia delle carceri italiane che si impicca fuori dalla propria cella. Per chi non ne sapesse nulla, chiaramente, tutto ciò sarebbe possibile. Perché no? in fin dei conti c’è sempre un primo, no?, si potrebbe pensare. Eppure, se si uscisse dal contesto carcerario, la storia di Massimo Gallo potrebbe essere ri-raccontata in questo modo:

un uomo esce di casa con una corda, arriva in aeroporto e passa i controlli senza che nessun agente gli dica nulla. Nonostante in aereo non si possa portare nemmeno l’acqua, a quest’uomo nessuno pone alcuna domanda riguardo alla corda che si porta dietro. Alla fine, una volta dentro la fusoliera, l’uomo con la corda si impicca in mezzo a tutti e, non solo i passeggeri non se ne interessano, ma sembra che le hostess e gli stewards non l’abbiano proprio nemmeno visto.

In questo modo, credo che il tutto assuma un che di diverso, di atipico, quindi torniamo alla storia di Massimo Gallo.

Questa mia reinterpretazione della vicenda nasce dall’analisi proposta da Francesco Morelli, curatore del Dossier suicididi Ristretti orizzonti, secondo il quale ci sono tre punti, per così dire, strani in questa storia:

1. Quando un detenuto va ai passeggi viene sempre perquisito. Gli agenti devono assicurarsi che nessuno, infatti, possa portare con sé oggetti che possano ledere sé stesso o gli altri.

2. In genere, le impiccagioni vengono messe in atto nelle ore notturne, oppure quando il compagno di cella è ai passeggi, e si predilige come luogo il bagno, dove si può ottenere un’intimità, seppure relativa.

3. Di solito, le impiccagioni intramurarie, diciamo così, non causano una morte istantanea, perché, a differenza di quelle realizzate col patibolo– il corpo del condannato cade finché la corda non si tende e lo strappo provoca la frattura delle vertebre -, chi si impicca con le modalità possibili in carcere muore piuttosto per soffocamento, l’agonia può durare anche 10 minuti ed è accompagnata da rantoli, scosse e convulsioni.

Per capire questa analisi, però, bisogna conoscere un paio di meccanismi specifici del carcere:

– in carcere, il principio massimo è non rompere le palle. Su tutti i versanti, quello che conta è che i detenuti non rompano, che stiano tranquilli, che facciano la loro galera senza pensarci troppo. Per questo, anche solo una persona che decide di concludere la propria vita, può essere un problema, perché poi iniziano ad esserci ricerche, visite dei medici, magari gli altri detenuti si agitano…quindi, meglio prevenire. Ecco allora spiegato perché, quando un detenuto minaccia di volersi uccidere, non succede che, per esempio, gli vengano intensificati gli incontri con lo psicologo, ma semplicemente viene messo in una cella priva di tutto: priva di ogni possibilità di suicidio (Es. con i muri lisci). Per questo stesso principio, è stata messa la tv in ogni cella, non per fare diventare il carcere un albergo a 5 stelle, come si usa dire, ma per limitare le ore di socialità dei detenuti, ovvero le ore di possibili litigi e casini. Sempre per la stessa ragione, quindi, c’è l’obbligo di perquisizione prima di scendere ai passeggi. Mantenute le sole 4 ore d’aria, infatti, è importante impedire che durante queste possano nascere risse, o aggressioni.

– Una delle peculiarità della detenzione, in Italia, è la perdita dell’intimità. Senza voler toccare la questione delle stanze dell’affettività– quelle stanze dove poter fare l’amore con la propria moglie o compagna, oppure dove, perché no, cucinare una pasta da mangiare con i propri figli, e che sono presenti in quasi tutto il mondo tranne che negli Stati di forte impronta religiosa come l’Italia -, quello che intendo è che nel nostro paese la detenzione corrisponde al completo annullamento dell’intimità, perché anche il bagno ha un buco nel muro attraverso il quale gli agenti possono guardare ciò che fanno i detenuti. Diciamo che da noi, il principio panottico è portato alle estreme conseguenze, tanto che perfino l’Unione Europea avrebbe detto che, se un detenuto, quando è in bagno, copre con della carta quel buco, l’agente non deve fargli rapporto, e anche se glielo fa, questo rapporto non deve piùessere tenuto in considerazione per giudicare la condotta del detenuto in questione. Detto tutto questo quindi, è facile capire che, per chiunque voglia togliersi la vita in carcere, rimangono poche possibilità locative e il posto in cui è possibile ritagliarsi la maggiore solitudine resta comunque il bagno, diventata per questo la stanza eletta per i suicidi.

– Com’è facilmente prevedibile, in carcere, non si può avere tutto. Moltissimi prodotti, alimentari e non, sono vietati. In genere il criterio per il divieto è questo: una volta un detenuto nel carcere xha lanciato una mela contro un agente? Allora le mele, da quel giorno, in quel carcere x, saranno vietate. Ora, io non so se le corde un tempo si potessero avere o meno; fatto sta che ad oggi l’unico modo per impiccarsi è utilizzare il lenzuolo, quindi procurandosi una morte per soffocamento, perciò lenta, dolorosa e visibile.

Per queste ragioni possiamo dire che la storia suicidaria di Massimo Gallo fatica a stare in piedi, o, quantomeno, possiamo dire che richiederebbe che venissero date le risposte a due domande: come ha portato il lenzuolo ai passeggi? Come è possibile che nessuno, nel luogo panottico per eccellenza, dove perfino andare in bagno deve essere visibile agli agenti, si sia accorto per almeno dieci minuti di questo uomo appeso ad un lenzuolo che agonizzava?

Probabilmente, però, queste domande non verranno mai poste e nessuno si curerà di darvi risposta. Tutto ciò credo accada, non per cattiveria, o per complottismo, ma piuttosto perché Massimo Gallo, dal giorno in cui è entrato in carcere, è stato disumanizzato, tanto dagli agenti quanto da grandissima parte della società civile, che, smettendo di vederlo come uno degno di umano rispetto, l’ha trasformato in una delle tante unità che vanno a comporre quei sessantacinquemila nessuno che affollano le celle italiane.

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14 Commenti

  1. Sfrutto i commenti per una precisazione, dato che mi sono dimenticato di metterla in nota:
    – per chi volesse leggersi qualcosa riguardo al processo di deumanizzazione nelle istituzioni totali:
    Bocchiaro P., La psicologia del male, Laterza 2009, bari
    Zimbardo P., Effetto Lucifero, Cortina 2008, milano

    – Riguardo, invece, al dossier suicidi: http://www.ristretti.it/

    Ciao
    Ale

  2. Anche questo è un caso sospetto, mi è capitato di portare Testori in carcere(un suo testo, ovviamente) e ricordo benissimo tutte le azioni fatte, i controllli superati, l’atteggiamento neutro, per non destare agitazione nelle guardie, che adottavano le persone carcerate quando ci siamo spostati da un luogo ad un altro, non si proferiva parola, è impossibile che qualcuno rimanga indietro: ogni tot metri c’è una cancellata e un controllo da superare.

  3. esattamente Ares, anch’io penso sia un suicidio anomalo. Talmente anomalo che, se fosse veramente suicidio, ci sarebbe da parlarne solo perchè sarebbe il primo suicidio intramurario che non si è svolto in cella. Una novità, insomma.

    A.

  4. @ alberto: tu poni una domanda a cui, personalmente, non posso dare risposta. Quello che io ho tentato di fare, infatti, è stato porre l’attenzione su un’altra (oltre a quella di stefano cucchi) delle tante storie di carcere che non vengono ascoltate, appunto per quel discorso che faccio all’inizio del pezzo. Se noi società civile continuassimo a considerare i detenuti persone esattamente uguali a noi, allora porremmo molta più attenzione ad una storia come questa di Massimo Gallo. Invece, con il potere dell’etichetta togliamo chi se la trova affibiata addosso dal nostro gruppo e quindi lo asciamo a sè stesso. Come per l’articolo che ho scritto sul caso Cucchi, io non credo che lui abbia trovato agenti “strutturalmente cattivi”, ma credo che sia tutto un sistema che porta a questi risultati. Risultati quali, facendo un parallelismo: un uomo che si impicca in piazza e nessuno che si chiede come possa essere catalogato come un normale suicidio. è questo il punto del mio discorso, non cerco la responsabilità, ma tento di mettere in mostra la nostra co-responsabilità nell’alimentare e sostenere un sistema che ha in sè stesso certe peculirità (de-umanizzazione, rapporti di potere impari, violenza…). Spero di averti risposto.

    @ lambertibocconi: grazie mille. Mi fa molto piacere vedere che stanno uscendo le narrazioni dalle celle e che le persone le trovano interessanti.

    Già che ci sono segnalo, per chi non l’avesse vista, l’intervista a “Parla con me” di Lucia Castellano, direttrice del carcere di Bollate, il celebre carcere sperimentale, dove uno dei principi cardine è che fare la galera fino all’ultimo giorno (come recita il celebre slogan leghista), non solo non serve, ma è deleterio e genera insicurezza. http://www.parlaconme.rai.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-52c957df-782c-4910-8a1c-782e39973e91.html?p=0

    Ciao a tutti
    A.

  5. @Alberto

    E’ la magistratura che dovrebbe occuparsene, per rispondere alla tua domanda.

    Busi mette in luce un’anomalia groooossa come un condominio a dodici piani, non penso che spetti a lui indagare e darti delle risposte.

  6. …la cosa che più dispiace è che si puntino i riflettori sul pianeta carcere solo quando succede il fattaccio, senza che si possa portare un ragionamento adeguato, che colga l’inadeguatezza dell’attuale nostrano sistema di esecuzione della pena, in balia di un panpenalismo imperante che sembra non conoscere tregua, con pochi sporzi orientati ad una pena intesa in senso rieducativo per davvero…attenzione, poi, a criminalizzare il corpo della polizia penitenziaria perchè non si rende onore ad un sacco di persone che si fa un mazzo tanto, anch’essi vittime del sistema…se non succedono rivolte nella situazione data delle carceri italiane e grazie ai ristretti, che hanno grande senso di responsabilità, ed agli agenti, con grande spirito di servizio…
    a.

  7. @ Antùan: Sono pienamenta d’accordo con te. Come ho scritto, il problema è che, normalmente, il carcere è una discarica sociale dimenticata dalla società stessa.
    Inoltre, condivido anche la tua osservazione sulla polizia penitenziaria, ma al contempo, credo che per cambiare il sistema si divrebbe partire, quantomeno, anche da un’uscita, magari anche solo parziale, dal ruolo agente=guardia, per esempio, responsabilizzando gli agenti stessi, in modo tale che questi non finiscano a passare le giornate aprendo e chiudendo cancelli. Purtroppo, però, è questo che succede. Pochissimi corsi di formazione e, praticamente nessuno, che miri ad una preparazione anche, perchè no, educativa degli agenti.
    Credo, in ultimo, che tu abbia dimenticato un punto che garantisce la non-esplosione delle carceri, ovvero la speranza, alias la legge Gozzini.

    Ciao
    A.

  8. …non sono del tutto d’accordo sulla legge gozzini, che è speranza sì, ma solo in teoria perchè i dati insegnano della ritrosia da parte dei tribunali di sorveglianza circa l’applicazione di essa, e i detenuti lo sanno, tutta la gamma di misure alternative che prevede nei fatti è beneficio che vengono a godere in pochi, nonostante dati inequivocabili parlino di straordinarie percentuali di abbattimento della recidiva. pensa che circa un terzo della popolazione detenuta è straniera con vistose difficoltà, se non insormontabili, per la stragrande maggioranza di essi, in relazione all’accesso delle misure alternative. semmai lo ”sconto” di 45 gg. a semestre previsto dalla concessione dei giorni dei liberazione ha una certa influenza ai fini della tenuta del sistema…
    a.

  9. Certo Antùan, conosco bene la situazione di cui parli: le ritrosie di alcuni magistrati di sorveglianza, la paura di alcuni di essi di andare contro un’opinione pubblica forcaiola, la tempistica assurda di tutte queste pratiche, dovuta in buona parte al sovraffollamento, che porta i magistrati a dover gestire molti più detenuti di quelli possibili…condivido anche l’idea che buon gioco venga fatto dai cosiddetti “giorni”, però, posso dire che nella mia esperienza ho visto detenuti di ogni etnia e tipo tentare di avere almeno un permesso, o la semilibertà, o ancora un art. 21. Per questo dico che la speranza c’è. perchè, comunque, la carota, seppure sempre più lontana continua ad essere visibile.
    Rispetto alla recidiva, suppongo che tu ti riferisca alla famosa ricerca del DAP, quella del 70% di recidiva per chi fa “tutta la galera” e del 19% per chi va in misura alternativa. In questo caso, non dice che la recidiva è scesa perchè sono state date tante misure alternative, ma dice che, chi è in misura alternativa torna meno a delinquere, punto.

    A.

  10. …se si porta a termine il ragionamento viene fuori, appunto, che accentuare percorsi di reinserimento, attraverso un uso più ampio delle misure alternative, porta tendenzialmente alla responsabilizzazione del ristretto ergo abbattimento della recidiva…diciamo sostanzialmente la medesima cosa…
    a.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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