Guerra alla tristezza!

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di Mario de Santis

Guerra alla tristezza! di Edoardo Albinati (Fandango 2009) è un libro inclassificabile come il suo autore. Il tuo comportamento è inclassificabile! si dice a volte di chi si comporta in modo maldestro. Non stare in nessuna classe, per uno scrittore che ha dedicato tanta energia alla scuola (è il caso di dirlo, insegna al carcere romano di Rebibbia) sembra un paradosso e una beffa, tuttavia Edoardo Albinati come scrittore è proprio un fuoriclasse.


Si tratta di una raccolta di racconti e di scritti per l’appunto eccentrici, per la maggior parte brevi o brevissimi, salvo qualche eccezione. Sono sessanta e tutti inediti, anche se composti a partire dagli anni’ 80 fino a oggi. È una sorta di lungo laboratorio ventennale. Nel frattempo Albinati ha pubblicato con varietà romanzi, prosa narrativo saggistica e poesia. Anche in questo libro è evidente la varietà, la voglia di trovare strade personali, quasi una sfida ai canoni letterari, presentando stili diversi, alcuni con approccio narrativo classico da short story, altri di natura esplicita e autobiografica ma sempre in forma di racconto, altri ancora come piccole divagazioni su oggetti, fenomeni, paesaggi che fanno venire in mente l’esempio dei miti d’oggi alla Roland Barthes.

L’ampiezza dei modi letterari e la lunga gestazione prima di essere pubblicati dà vivacità alla lettura, ma al tempo stesso mostra come il tono, starei per dire la poetica, o il sound se fosse un rocker, dello stile Albinati è ben marcato e riconoscibile. Se penso ad Albinati mi viene in mente il termine scrittura con quell’alone semantico che ha quando lo usano i francesi – seppur diversi per scelte di poetica, ma io non lo vedo lontanissimo appunto da Barthes. Così per altri versi, Raymond Carver (di cosa parlano i personaggi di un racconto quando parlano di carne di cavallo?..)

Ha di sicuro un timbro riconoscibile pur nella diversità di forme e topos narrativi. Riletto in Guerra alla tristezza l’arco della scrittura di Albinati ha i crismi di una ricerca dell’umano, da restituire con una tonalità, cercando una musica del cuore che ha però i ritmi sincopati di un dj o dei Sonic Youth, sincopi che creano intermittenze del tutto originali.

Si sente il fondo di un procedere lungo un filo poetico, attenuando a zero il lirismo. Come in Orti o In Maggio selvaggio o Svenimenti, la narrazione di Albinati lascia le strutture proprie della narrativa per avventurarsi su sentieri sterrati dell’improprio e dell’inclassificabile accentuando però la qualità empatica della scrittura, la sua capacità di mostrare un’anima errante che attraversa il mondo e tuttavia proprio per questo ci sta attaccata, con i piedi per terra e con la faccia rivolta al cielo. Si tratta di un realismo così aderente da far dimenticare ogni poetica realista. Era stato proprio barthes adire che se lo storico è colui che osserva una regione come volandoci sopra con la mongolfiera, lo scrittore è colui che attraversa quella regione a cavallo. Io credo che albinati sia un prosatore di passo, attraversa il mondo camminando. Piedi per terra ma mente libera di divagare, un flaneur del pensiero, dello scavare in sé come nelle cose.

Non trovo un’immagine migliore per descrivere la scrittura di Albinati: quella di chi segue filo dei pensieri. Forse li ha visti in Afghanistan (molto bello il suo libro-diario di missione del 2002, Il ritorno), ma l’impressione è che sappia tenere la scrittura come i bambini tengono gli aquiloni. Fermi, ma alla fine lasciandosi andare al vento.

Così segue la realtà anche quando sembra svagare come in Serenata al rettilario con l’apparente oggettività del resoconto di una visita allo zoo nella costruzione dei rettili trasformata, con l’espediente del blackout elettrico, in una magica situazione fantastica in cui gli iguana iniziano un canto che sulla pagina quasi sembra un coro della tragedia greca.

Oppure come in Cream in cui una serata ad un concerto con il figlio e un amica diventa il pretesto per far fare alla mente che percepisce e racconta un lungo piano sequenza che tra presente e memoria, tra flash aneddotici e riflessioni sulla vita, mostra proprio come in un film di Trouffaut sia il romanzo che si svolge sia il romanziere-regista che lavora. Oppure in Il bambino scettico in cui la memoria di un adulto in carcere per un reato politico diventa liquida, si sfalda nel tentativo di riafferrare un quid perduto nel tempo, ricollocando nel tempo e nella storia qualcosa che al tempo sembra non appartenere e neppure alle categorie della storia.

Immerso nel suo tempo (se non fosse un’etichetta direi che Albinati è uno dei pochi autori impegnati veramente) la scrittura scava nel sottopancia del quotidiano teorico, riaffonda nel sapore di un epoca con il dettaglio splendente, un frammento che si trasforma in allegoria, ma in modo a volte spiazzante altre volte rimando sospeso. Un dettaglio si dilata fino a diventare preludio di un universo, non piccole cose, non il minimalismo (anche questa è una parola trasformata in etichetta, impropria per Albinati che non rientra in quel filone).

Il repertorio di Albinati è ricco. Spesso serve solo un piccolo colpo di scena, un dettaglio e la storia deborda, con un lascito che sa di cinematografico o prelevato dai modi della scrittura di genere (come in ogni babbo è Stephen King) ma più steso a perdere il filo apparente ma a rivelarne un segreto è proprio il pensiero che si applica alla realtà, la consuma, la corrode da vicino, la incalza con i suoi paradossi.

A volte una lattina di birra Mythos serve ad una riflessione sul mito, ma col tono del filosofo davanti aduna birra, per l’appunto. A volte Albinati lascia addirittura più sciolta la briglia della sperimentazione, trasformandola però in una prosa sempre piena d calore come quando in Sciarada applica il metodo del cut-up ad una serie di frasi fatte, proverbi o aforismi a metà tra la il witz e la banalità, come fosse una lista di quelle che si trovano su internet creando un’accumulazione straniante che si conclude con un monito Pappagalli ammaestrati dicono la verità più di noi. Ecco seguendo il filo dei pensieri, vorrei dire che Albinati si occupa anche della logica e dell’illogica del discorso dell’umano. E come se, pur facendo guerra alla tristezza lo stesso Albinati conservasse un fondo di malinconia energia, un’elegia delle cose visuute non nostalgica. Come la ragazza grassa del racconto che dà il titolo alla raccolta, Albinati ha un pathos carsico, una sorta di sensazione di sconfitta che sembra chiara già in partenza ma rimane sullo sfondo, in sottofondo. In ogni caso la vita viene affrontata da molti dei suoi personaggi e dallo stesso scrittore nelle cose più autobiografiche trasmettendo un senso di gratitudine segreta, la stessa che rimase implicita quando il padre dopo aver tentato di insegnare ai gigli lo sci nautico con grande passione e affetto, con altrettanto affetto e passione prese atto del loro essere negati e vendette la barca, senza alcuna tristezza e senza malinconia. Il filo continuo dei pensieri nella scrittura di Albinati e come il tratto di quei disegnatori abili a creare una figura senza mai staccare la matita dal foglio. Alla fine una figura emerge come vista dall’alto – come l’Italia dell’ultimo racconto – nella raccolta di Albinati e assomiglia alla figura del padre e della genitorialità in genere. Detto questo lo sguardo però resta vivo sulla densa varietà del mondo e Albinati è sempre in quello stato di grazia di cui racconta nel racconto Sulla curva, come di uno che ha bevuto alcol all’ora di pranzo e così spezza la giornata in tanti frammenti dorati.

Quei frammenti scintillano intorno al lettore, creano un’onda che modifica il nostro sguardo sulle cose e assegna loro un’aura diversa. Ed è questo semplicemente che chiediamo ad uno scrittore.

E. Albinati, Guerra alla tristezza, Fandango Libri (2009), € 18,00.

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