Magnificat (1969- 2009) antologia poetica

Pubblico molto volentieri alcune poesie dall’antologia di Cristina Annino, uscita per puntoacapo Editrice a cura di Luca Benassi e con una nota critica di Stefano Guglielmin, sul cui blog ho conosciuto la poesia di Annino. Nel libro, oltre ad una scelta antologica, rappresentativa di tutta la produzione dell’autrice, è inclusa la silloge inedita e omonima Magnificat. Cristina è una poetessa straordinaria, sorprendente ad ogni nuovo libro, ma che purtroppo gode di poca attenzione critico-editoriale. I suoi versi si nutrono di un’assoluta libertà espressiva e di temi e interlocutori cari all’autrice quali gli animali, l’amore per un compagno o quello grandissimo per la madre, i viaggi, la solitudine di una “casa d’aquila”, senza suonare mai scontati, ripetitivi. Leggendo crediamo (anche prima di comprendere) al cane azzurro, alla madre e ai topi, al Vegetale Banano, a zampe che dipingono come mani. Alla vitalità mai compiaciuta di questa poesia, che parla a tutto quello che la circonda, ne fa un mondo dentro il mondo, denso, immaginario, straniante – ma con tutti i sintomi della realtà, della vita che scorre nelle case, nelle relazioni, con il proprio gatto o cane, a confronto con l’io, quasi fosse un altro individuo “carnivoro” e grottesco. (f.m.)

di Cristina Annino

Il vento che spaventa i cani ha campanelli

La paura del cane è un muro duro,
un duro muro sonoro. Vi sbatte
contro il mare dell’intestino
e gli occhi restano in fondo,
piccolo semino d’anice.
Gli dico
d’altre paure nel mondo,
reggo la sua bava di panna
e la pena del tondo cranio
metto in un cesto con cotone.
Ma il muro giunge, giunge
il suono, la vena d’un terrore
cosmico gli resta il fiato,
appanna il sonno, se dorme.
Non si ferma, bianco
spicchio degli occhi, cerca
il muro, o vento sonoro, i campanelli;
le sue zampe tirate
nell’avena del collo, sono
chiodi.

Il cane del buon consiglio

È un gigante il mio cane.
Mi porta il piatto sul collo,
il pane in bocca, è un maggiordomo,
mi dice di mangiare gurdandomi
con fare d’uccello. Cammina
in bilico sul davanzale, ha pelo
di foca e quando salta pare
un giocoliere turchino.

Ora io dico:
qualcosa devo pur fare; nacqui
dalla bocca pietosa di un padre
e una madre che ammisero insieme
– hai davanti la vita preziosa,
restaci immortale -. Così ho tanti
libri. Cosa mi manca?
Lo chiedo a Diego che mi guarda
col bicchiere di vino in fronte.

Ce ne stiamo così sulla triste
tovaglia; io parlo ed aspiro
dalla narice la storia
del mio romanzo, ho lo stomaco
aperto, il cuore mi pulsa in fronte.
Diego squittisce col coltellino
sul naso:
non col sentimento si capisce.

La casa del folle

Entro piano nella casa del folle;
non apro le persiane, non tolgo la polvere.
Arrivo alla sua camera che ancora dorme
nel mattino troppa aria per occhi
di dolente marrone pallido. Guardo
la nuca rigida e il corpo che non sente
neppure il pigiama.
Mi siedo accanto e gli porto l’asfalto
ripulendolo dal rumore, dall’odore del mese,
dal peso della gente.
Cerco di non affollarlo per niente;
il suo corpo vuoto è una stanza: sogni
vi soffiano dentro bolle di vecchio dolore.
La ragione cos’è? Arrivo qui e mi stendo
al piede del suo letto come a una pianta
ed entra dentro di me, dal folle, quasi
fune elettrica, una bianca, stanca,
atroce vitalità.

La poesia

Io so spiegare come si fa. So ch’è
opulenta, e qualcuno ne paga le spese. Sarà la nostra
società e basta; egoista, amara quanto qualsiasi
continente. Insomma
è tutto quel che si guarda. Ma senza
dubbio sono io il paese più poeta del mondo. Esempio:
getto un bicchier d’acqua sulla parete; quello
cade – lo giuro – però resta la macchia. Visto
al rallentatore con musica. Poi prendo col termometro
la temperatura al pezzo di muro fradicio.

Credo d’averne bisogno, di friggere e
d’annoiarmi. Con rara facilità quando dico “mia
madre è una magnolia, una
magnolia è mia madre”, giro da continente quel sostantivo
ovale di pianta nana, coi nervi a terra e a fuoco
il vento dei nei. Non per soldi
vo dal rosso all’aceto tenero e il bianco che fa
spavento come corni di bue. Nessun gioco
è peggio di questo. Neppure farsi coraggio, dire
avanti, lo stesso. O aspettarsi la risposta. Neanche
lessarsi nell’acqua, è meno.

Spara da sé il suo orologio senza
volerlo. Un fulmine, eccolo lì: rami sull’infinito
lesso dei piedi. Chi rifabbrica l’albero se n’è
andato. Neanche un pezzo. Dici che
schifo han fatto prima la morte, han fatto già
l’uovo. Codè. Ti
portano dentro; così si sa tutto. Noti
la polvere che all’aperto non vedi, e le gambe
perché sei solo. Senti chiudere la porta. Coc. Non
pensi al mondo, la società, il resto. Ma a quel
che viene spezzato allora. Dè. Un lavoro. E in qualche
parte qualcuno di certo paga il conto.

Le mosche

C’è un giorno ogni due in cui non noto
gli altri; se un uomo casca in un bar lo credo dinoccolato e non
morto già un poco sul lato destro. In quel giorno diffido
dei suonatori di flauto. E detesto tutti
gli omaggi del mondo fatti a Duchamp. Che bisogno c’è,
penso, di rispettare qualcosa, e in eterno?
Infine,
è il compleanno delle mosche. Mai più getterò bombe
sui loro piatti piedi. Mostro
a ognuna di loro l’uomo sulla soglia del bar, che ha dormito un
secolo, s’alza, e nessuno gl’è d’aiuto.
Astuto dico “quelle calze
sono mie”, o meglio “quel sedere mi ama”. Quella
cintura, la vita s’origina da quella cintura che fa versi
col solo occhiello. C’è
la cultura d’una vita, parrebbe poco, e i treni
di questo mondo e la natura vegetale anche.
Facile, vedere
così un pezzo di cuoio: basta una lente d’ingrandimento, un
dito e l’idea centrale che quel gigante oltre il vetro è
piccolo da non far male a una mosca.

Mi lascio ritrarre dalle zampe di lei pepe. Non ha
fretta: passa
la parte dietro del mappamondo, la sabbia delle
guance, e la mia faccia cresce. Sa
d’essere un deserto, ma in gamba forse. L’amerà
più d’un sedere. Non è vero, bambino Duchamp? Dillo
al babbo che penserai da grande, radendoti. Per
favore. È
che le cose arrivano a tempo; e da sempre il senso
comune dà il via a quelle grandi. Solo questo. Poi
si vedrà.

Tengo
le mosche dentro per non farle morire. Ogni
rumore m’è d’aiuto, da un nulla esplode altro.
Ripetutamente penso
che siamo dei buoni dei, se anche incrociamo i nostri
destini coi flautisti dormendo. Io
dico “perdon” sulla soglia del bar o nel gas
delle mosche. Poi ” la ciurma non è mai uguale, ci
mancherebbe. Chi più ne ha più ne mette di carne
al fuoco”. Dalle
coperte va via il giovane pensiero appena
repubblicano, con le sue mutande fredde.

Casa d’Aquila

Vado verso la casa in una
miseria di caldo sopra di me, nella morta
estate senza onori.

Né telefono, fiori. Tento di capire che
dica l’uscio premendosi la bocca con le
mani. Che vuol
dirmi senza onori la casa? Non entro ma
guardo fuori l’oscillante lingua
dei piani.

Penso: non ci fossi più m’aprirebbero
con cerimonia, su fondo turchino e
le dita fari, leggendo quanto
ci misi a scalare
una casa vivendo. Sarebbe
la Verità, perch’avevo ragione
in tutto, e parlavo ai pesci del mare.

Alzo le mani senza resa, senza
voltarmi. Niente fiori, casa dolorosa; ti
peso sui due reni della bilancia. A chi
andrà
tutta questa ricchezza, lo spreco delle
forze, l’aquila dentro di me?

da: Magnificat

Sguardo andante

Quell’uomo diventò un
lavoro, corpulento. Ora dico, a
ogni manata di vento passava
davanti a lei, quasi uno
scherzo, tanto pareva goloso a
guardarla. Aveva
scordato qualcosa. Era
inverno e fissava lungo-
largo ; ma
lei disse gli
occhi pericolosi, una scarica
quelle braccia. Eppure
s’era
spogliato di tutto, carte, libri,
tasto del portatile, occhiali,
spazi vuoti e parole
di plastica che ingoiava il
gatto giambico-trocaico
-catalettico. Era
diventato ignorante, mea
culpa
, da sé, in piena libertà
deciso d’amare il creato, col
salto di pesce ripulendo le
labbra nei suoni, ch’era stato lì
lì per crepare
sott’acqua. Senza più
gravità, con altezza sbatteva
le pinne tra i rami.

Mai capito niente, lei. Mai
visto uno così. Solo aria
beethowiana tenendola in piedi, la
risparmiava. Ora quello, senza
maniche di libraio, o scatole
di pensiero, uscito
dal mare ( via lentamente il
sonoro dell’acqua,
sabbie, del vento madornale
girante), reincarnato di
pietà con gambe, così
si teneva il torace nelle
branchie rosa. Ancora
più umano.

Solitudine eterna

Ogni evento doloroso gl’ha
dato fratellanza con se
stesso. Eppure questo
braccio per chi
lo conosce, familiarmente
detto Esse, gli
casca (attrazione terrestre) in
carriole d’ombra, pesi, collezionismo,
nel triangolo
proprio tra nuca e spalle.
Tanto
tempo sbattendosi
in marcia di pochi
metri al quadrato. Mentre
fuori
l’universo-vassoi con prati
lavanda, caratura a prova di
bomba. Ma il
braccio abbassa
l’illimitata Esse fottendolo
un pezzo alla volta. Mette i
sigilli, va via. Poi anche le
parole soprattutto, le mura.

Il falso merlo della poesia

Ci vuole molta
pazienza e un’io esteso
di qua di là dalla
grammatica, per fare
d’una
sequoia un merlo solo
capace di sollevarne poi
il volo. Sarebbe,
signori, allora da trattare
coi guanti! Ma quei
tormenti in fiale, cinque dita
d’ala toccando campane
intorno, è
cenere per piccioni. Infatti,
miserere, non trova
frasi, solo emozioni
brevi e un patrimonio di
vento. Allora? Nessun
tormento è pari al
dolore, quanto la
parola.
Avanti, poi? Chi
sono i rovi rossi?
Ecco
esiste la sequoia; ci
vorrebbe
conoscenza karmica del volo.

Origine della creatività, Indiano Caldo

A tempo respira
esatto; rende visibile attraverso
il collo il numero della taglia. Poi
sempre fermo –volere è
potere-, come elevando
l’idea delle braccia verso il
mare che ora sta in alto e non
casca, appeso per il fango al
globo ondoso, vede
che gli si
strappa la mente dal suo
luogo, e
l’abito e la taglia. Espirando
alla fine, non sa
più, dove stia la cornice,
oddio! il limite e la cornice.

*

Parrebbe
ansia, – non lo è- anche quando
divide la mandria delle
nubi in due, e, specie
d’origine gassosa, Indiano
Lui riprende addosso la
montagna. E’ di
più! Frulla l’arsenale che manda
acqua sul mondo poi strizza
le dita di carne. Velocità, forse,
ché il
Tempo creativo, è breve. Lo
dice, l’ha detto (mangiatore nel
cuore di cose), crepare
stando sempre quaggiù, sotto
terra, mente, sotto sale,
quando
corrente come miele
il turchino della grazia
piovuto in un mese
evapora dal ramo. Allora, con
cortesia, gambe sulla stuoia
dell’erba, rivolge fumando
domande al Vegetale Banano.

Amicizia

Cane, siamo rimasti senza.
Nel soffitto di sotto chi
si sdraia per udirmi? Come
piatti di bilancia, anche lui
s’appiattisce. Così la casa
ha tanti fegati in fila, denti
per grondaia. Cane, vedi tu
una città più triste?
Lui sta
in cima, fulminato dalla
grazia, non
capisce. Fissa
al vento i coperchi
uguali, da soprano ululando
ritto. S’arrugginisce
l’argento dell’urina che
scava
eterna la miseria
austera in quella campana
di terriccio.

C’ era una volta un poeta

Gli dissero “Ti daremo il
Nobel, ma dovrai per questo
aspettare nell’acqua”
Superbia di chi? E’ la
storia terrena un salasso, e
la creatività pioveva
intanto dalla sua
testa, gl’allargava le
penne. Traballando sul
sofà cavillosamente
sviene, perché solo chi
cancella giunge al
vero!
Ecco, non ha
sputato onorevolmente
sul
cascame di mondo, né visto
sedie segate, ha mangiato
maiale
macellando carne, ha
guardato stelle, mai quel
viso che bruca perle con
il letame. Fatto testi per
il ginnasio anche, mentre
gli passava acqua tra le
gambe concave. Ha
forato eternità di gomma e
per queste ha
ucciso. Ora chi gli
rende lo spirito sopportabile?

Qui, per saperne di più sul libro

Nell’immagine: Accudiscimi, di Cristina Annino

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21 Commenti

  1. ho letto Cristina Annino la prima volta su” La dimora del tempo sospeso” di Francesco Marotta che ne ha ospitato diverse sillogi… rare volte ho subito tale forte attrazione per dei versi e anche se ci siamo perse un po’ di penna (un po’ tanto) più a causa mia che altro, la volevo salutare qui e lasciarle i miei complimenti dal cuore.
    paola

  2. Ha
    forato eternità di gomma e
    per queste ha
    ucciso. Ora chi gli
    rende lo spirito sopportabile?

    Ecco le cose come le sai dire solo tu, Cristina…

    Con amicizia!

    Stefanie

  3. Sono felice di una simile accoglienza. Franz, da qualunque “continente” tu scriva, grazie! a Stefanie, a Nadia, alla cara polvere, a tutti, che conosca o no. Di cuore a chiunque riceva qualcosa da queste poesie.
    cristina.

  4. cristina stai aspettando nell’acqua? Non so se il nobel di stoccolma ma certo quello del web, se mi autorizzano, te lo conferisco…io che sempre aspetto di leggerti in volume! ma proprio oggi mi dicevano vedrai la tua amata carta tra pochi anni tutta si sfalda e non riuscirai più a raccoglierla a reciclarla, né la cellulosa né le parole stampate.

    Sei Tu, sei grande, cristina.

  5. Piera cara, come dire, come è possibile che TU non abbia capito? Io AMO il maiale e vedo “sedie segate”, non scrivo “testi per il ginnasio” e non traballo sul sofà. E non amo, come fai tu, nessuna carta. Alludo ad altri, ovviamente. Comunque grazie del commento giacché non guasta mai un po’ di ilarità. Quanto a leggermi in volume, basta ordinare il libro all’editore. Per quelli anteriori ti consiglio una biblioteca nazionale.
    A proposito, come si sta nell’acqua?

  6. @ Cristina

    C’è una grandezza nelle tue poesie su cui mi pare difficile equivocare.
    E’ come leggerti ogni volta per la prima volta e questo rende te poeta come pochi.

    Carta o web non conta. E’ il mondo che ci dai.

  7. “Magnificat” è un libro bellissimo. E necessario, perché rende merito a quarant’anni di scrittura stra-ordinaria, autarchica, intelligente quale è quella di Cristina Annino. Spero che lo leggano in molti.
    erika

  8. davvero Cristina scrive ciò che vede e vede le congiunture delle cose, le loro cartilagini.

    grazie anche da parte mia per questa pagina

  9. eccomi, tra baci e sigarette… “la poesia”… Cris! malinconicamente, spaventosamente densa di verità… ma non di quella con la “V” maiuscola e tutte le pretese… la verità del tempo di uno sguardo. che roba, che fumo, Mamy! mi sa che, finiti gli esami, mi compro il libro!

  10. … ma non capisco, Piera… Cristina a scrivere testi per il ginnasio non ce la vedo mica tanto… e certo non coi piedi a mollo, Aquila com’è non ha una sola piuma, un solo verso più pesante del fumo d’un Indiano Caldo!

  11. Terribile abitudine a face book, io risposi subito, ed entusiaticamente a Francesca, ma là..Rinnovo il mio jubilate e laudate dell’amica, grande ed unica e vera e cara amica, che è la mia Cristina, scusandomi del “mia” ma lei mi capisce ci possiamo permetterlo, come già si è..da una vita.
    Onore al libro che sto delibando e nutrendomene…”

    Maria Pia Quintavallai

  12. Maria Pia, carissima, ci rivedremo presto, lo spero e lo credo! conosco la qualità del tuo lavoro poetico ormai da sempre, perciò ogni volta mi dà gioia sentirti.
    Vorrei sottolineare inoltre l’adesione e l’entusiasmo che molti giovani rivolgono alle mie poesie scrivendomi anche privatamente. Ciò mi gratifica molto. Credo che la durata di una poesia si giudichi soprattutto dal favore accordato, a volte con entusiasmo toccante, dalle giovani generazioni di poeti o critici. Solo in tal modo, far poesia ha un senso, uscire cioè dall’ambito dei soliti “ufficialmente addetti”, superare il tempo personale, avere in comune sensazioni e mondo con chi vive una realtà diversa. Questo e solo questo, allunga in maniera estremamente vitale la poesia, le dà quel valore autentico che credo si auguri ogni poeta.

  13. Vi ringrazio tutti per questi commenti – concordo pienamente con quanto dice Cristina, che abbraccio.

  14. cara Cristina, questo tuo rapporto con le cose-Cose è un tuffo nell’essenziale in forma di visione, la visione di un paradiso perduto, meglio ‘affondato’ nel mare delle distinzioni. Fuori da distinzioni, elenchi e classificazioni il cane-Cane è nobile e compagno, il muro è strada, rivelazione, tornano gli angeli travestiti da mosche, innocenti e vitali nell’aria che appartiene a tutti … Un aggiustamento del pensiero per chi non ha capito, una conferma per chi già lo sa. ma tu lo dici così bene…

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francesca matteoni
francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Sono nata nel 1975. Curo laboratori di tarocchi intuitivi e poesia e racconto fiabe. Fra i miei libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Acquabuia (Aragno 2014). Ho pubblicato un romanzo, Tutti gli altri (Tunué, 2014). Come ricercatrice in storia ho pubblicato questi libri: Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014) e, con il professor Owen Davies, Executing Magic in the Modern Era: Criminal Bodies and the Gallows in Popular Medicine (Palgrave, 2017). I miei ultimi libri sono il saggio Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi (effequ, 2019), il testo di poesia Libro di Hor con immagini di Ginevra Ballati (Vydia, 2019), e un mio saggio nel libro La scommessa psichedelica (Quodlibet 2020) a cura di Federico di Vita. Il mio ripostiglio si trova qui: http://orso-polare.blogspot.com/
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