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“Per una critica futura” n° 5/6 – editoriale

[Esce l’ultimo numero di Per una critica futura, in formato numero doppio: il 5 & il 6. Sezioni dedicate a Viaggio nella presenza del tempo di Majorino e a Tiresia di Mesa, dialoghi su manierismo e pop, poeti che riflettono sul proprio lavoro – De Francesco e Fratus -, 3 poesie di Fabio Teti, ecc.]

Il provincialismo letterario, i dieci lettori e lo spaesamento della critica

Andrea Inglese

Scrivere nella provincia letteraria

Il provincialismo letterario è un fenomeno perfettamente coerente con un paese come il nostro, in declino, sempre più spaventato e credulone, che disprezza la cultura e la ricerca, in cui rifioriscono nostalgie fasciste e si rafforzano sogni di linciaggio. Provincialismo letterario e paranoie nazionaliste, di corpi sociali sani, belli ed onesti, sono fenomeni che si sposano bene. Soprattutto quando aumenta, come è il caso, la miseria. Come dice lo storico francese Gérard Noirel: “Per chi non possiede nulla il richiamo all’identità nazionale diventa l’unico bene di cui andare fieri”. (Provincialismo letterario e fascismo estetico vanno a braccetto: la complessità o l’imprevedibilità del messaggio è il male da annichilire, così come tutta l’umanità non conforme al modello della maggioranza mediatica.)

Tutto quanto ci serve noi ce lo abbiamo, è accessibile, sottomano. Ammirare, copiare, spiare gli altri, imparare qualcosa dagli altri, non va bene. (È roba di giapponesi e cinesi.) La massima sicurezza di sé, nel momento di massima miseria di sé. Scrivere in questo paese è diventata una cosa facile, talmente facile, che chi ha la pessima abitudine di non scrivere facile è sospetto. Il pluralismo è un lusso che il provincialismo letterario non si può permettere. Che ci siano forme e pensieri diversi della forma, che ci siano i tempi di comprensione della forma, diversi per i diversi lettori, questo è un elemento di eccessivo disturbo. Tutto a tutti, nel minore tempo possibile. Il provincialismo letterario può essere perfettamente accettato a sinistra, in un paese proteso a destra. Si fa così: delle tante persone che scrivono e pensano, se ne rendono note sole alcune, dei temi e delle forme d’espressione se ne selezionano solo certuni; poi si fa in modo che i soliti noti parlino sempre delle solite cose, negli stessi termini. Tutto questo crea un’aria familiare, un paesaggio riconoscibile, senza brutte sorprese e tranelli, senza troppi malintesi, quasi che, prima d’incontrarsi e dialogare, già tutto sia deciso, saputo, masticato. E in questo modo i libri si vendono anche più facilmente.

Naturalmente il provincialismo letterario, dall’alto dei suoi placidi assolutismi e delle sue fiere autarchie, è a sua volta sobborgo della letteratura. Lo è inconsapevolmente. Così come i periferici Gombrowicz e Kiš, ognuno dei quali costretto nelle beghe della sua provincia letteraria, polacca per uno e jugoslava per l’altro, sono diventati continenti, di cui la grande Europa letteraria – Gran Bretagna, Francia, Germania – è col tempo divenuta provincia.

I malintesi sono il pane quotidiano di una letteratura vivente: le forme evolvono nel tempo attraverso una continua sfida al pensiero; le forme sollecitano un pensiero che sia alla loro altezza. Nel mondo del malinteso, la critica letteraria ha un ruolo fondamentale, non tanto perché scioglie i malintesi, ma perché li riconosce come tali, scopre la difficoltà dell’intendere, accoglie il tempo necessario che una forma esige per essere compresa in quanto forma. Il primo dei malintesi letterari, infatti, è: la forma non si vede, eppure c’è. (Malinteso esemplare: Landolfi legge L’innominabile di Beckett, e dice: stenografia di una nevrosi personale, non c’è forma.) La critica non può far amare un autore, ma può mostrare chi è un autore. La critica non può rendere popolare una forma, ma può essere in grado di riconoscerla. Questo è il ruolo principe della critica. Essa si occupa, per definizione, anche di ciò che non è popolare. Essa si occupa di esibire, al di là degli uniformi gusti del pubblico e delle dogmatiche poetiche degli autori, la pluralità delle forme possibili. Verrebbe quasi da dire, per essere espliciti e rozzi, la critica garantisce l’esistenza delle minoranze letterarie.

Che cosa sono le minoranze letterarie? Sono gli autori marginali, gli autori cosiddetti “appartati”, il sottobosco letterario? No. Minoranze letterarie è un concetto grezzo, ma utile oggi per rendere comprensibile il mio discorso. Le minoranze letterarie non sono autori minori. Sono autori che, pur pensando la forma, pur lavorando attraverso una forma, non sono popolari o suscitano malintesi (non c’è forma!). Ma se c’è una forma, ci sarà anche un lettore: in quanto la forma è per il lettore, è ciò che apre il mondo al lettore, attraverso un testo organizzato. A questo punto, al critico come all’autore, poco importa che i lettori vengano a frotte, che quella forma venda, incontri il gusto o lo scontri.

In Italia, ormai, passa per democrazia l’esatta degenerazione della democrazia, così come è stata denunciata da due secoli a questa parte già da Tocqueville e Stuart Mill). Democratico, oggi, in Italia, è il potere assoluto della maggioranza: solo chi è maggioranza ha diritto di parola, e sia fatta la sua volontà. La minoranza ha sempre torto e taccia. (Ovviamente, questa è quella che si chiama dittatura della maggioranza, non sana democrazia). Ora il mercato editoriale, e i suoi autorevoli interpreti, non sembrano seguire altre logiche. Inizialmente si dice: non siate elitari, valorizzate la letteratura che vende (popolarità o massificazione?). Anch’essa ha un suo pubblico, una sua ragion d’essere. E, in più, fa campare bene gli editori. Tutti siamo d’accordo: nessuno vuole mettere all’indice Fabio Volo e tutta la folta letteratura easy reading. Solo che, a poco a poco, la questione viene rovesciata: è colui che scrive per pochi che deve giustificarsi, dimostrare che ha qualche diritto d’esistenza, che non è un poco di buono, o semplicemente un esecrabile inetto. Ma, nel migliore dei casi, nessuno decide di scrivere per pochi; semmai individua la forma per dire certe cose che, in quel momento, trova ascolto solo presso alcune persone. Per molti, questa situazione è frutto di una grossa carenza, un guasto. Scrivere per pochi è una colpa. (Ora la critica, oggi, può servire anche a lavare gli autori dalle loro colpe, distinguendo ciò che non ha forma, da ciò che ha forma e attende di trovare dei lettori disposti a guardare il mondo attraverso di essa.)

Scrivere per dieci lettori

È davvero così esecrabile uno scrittore che ha dieci lettori? Si tratta di una forma d’insopportabile autismo culturale? Ponendomi queste domande, mi è stato d’aiuto un brano di Roberto Roversi di una forza sovversiva e profonda: si tratta di un’intervista del 2003 fattagli da Fabio Moliterni (in Tre poesie e alcune prose, a cura di Marco Giovenale, Sossella, 2008), in cui l’autore fa riferimento alle sue recenti opere, in prosa e versi:

“Anche in Dopo Campoformio e nelle Descrizioni in atto utilizzo un linguaggio stratificato, il discorso giornalistico assieme al parlato quotidiano, eccetera. Ma con la cautela che mi veniva dal rispetto riferito ai miei lettori, che quantificavo in otto, dieci unità. Li vedevo naso per naso, occhio per occhio: il mio lettore auspicabile non era il lettore universitario o raffinato. Era il lettore che aveva, in quel momento, un interesse per quei problemi che affrontavo: mi leggeva, ma non mi cercava, si imbatteva in me coinvolto dall’interesse per le questioni che trattavo.”

Si possono avere dieci lettori scrivendo un libro di poesia, un saggio, una raccolta di racconti, un romanzo. Poco importa. Dal punto di vista della letteratura, della vita e della metamorfosi delle forme, quei dieci o cento lettori ne valgono centomila o cinquecentomila. Non è un’affermazione consolatoria, è un promemoria, in tempi di generale offuscamento e di cultura subordinata all’unico modello del successo commerciale. E come ha ben sottolineato Roversi non è una questione della solita dicotomia cultura alta-cultura bassa, o letteratura di ricerca-letteratura di genere. In determinati casi, il talento di uno scrittore consiste nell’individuare una forma divulgativa per un tema culturalmente arduo. È il caso ad esempio dello Sciascia de Il giorno della civetta, che si pone il problema di tradurre in forma romanzesca, scegliendo il sottogenere popolare del poliziesco, un fenomeno complesso come quello mafioso. Scrive nella postfazione: “Ma di opere letterarie, romanzi racconti teatro, e sono quelle che meglio del saggio e dell’inchiesta raggiungono e informano un pubblico più vasto, ce n’erano soltanto due (…)”. In altri casi, si tratta di esprimere una visione estremamente singolare, che non può abbandonare un certo livello di complessità, pena la sparizione del suo specifico tema.

Ovviamente, il numero dei lettori di un’opera non può mai dirci nulla di decisivo rispetto ad essa. Per questo motivo la critica è necessaria. Ma, ripeto, non per dire quali sono i libri o gli autori migliori, ma quali sono i libri e gli autori che varrebbe la pena leggere e per quale motivo.

La difficile condivisione

Esposto questo nobile principio, torniamo con i piedi per terra. E consideriamo quello che è l’argomento di questa rivista telematica: la critica letteraria prevalentemente di poesia. Si tratta di un’attività difficile, che implica la capacità di padroneggiare un bagaglio tecnico complesso, e che però si esercita, tolti i morti e i canonizzati, su una realtà nebulosa e mediaticamente irrilevante. Un critico di poesia può guadagnarsi il pane proponendo le sue competenze all’università, alle pagine culturali di quotidiani e periodici, all’editoria. L’università favorirà il suo lavoro solo sui morti e sui pochi viventi sufficientemente canonizzati. Egli sarà quindi costretto, nei ritagli di tempo che la sua carriera gli offre, a dedicarsi a “scappatelle” militanti, laddove la sua azione è più che mai necessaria (identificare e descrivere le forme).

Le pagine culturali, per lo più, s’interessano ai poeti quando si buttano giù dal balcone, finiscono in manicomio, tirano sotto la moglie, crepano di cirrosi epatica, e in pochi altri casi. (Uno di questi casi, però, è particolarmente vergognoso, e bisognerà almeno ricordarlo. Vi sono critici-critici o critici-autori che di tanto in tanto si spendono nella critica di poesia, come attività di ossequio privato ad amici, padrini, figliocci, nipoti. Poiché in poesia non vi sono interessi economico-editoriali in gioco a garantire una minima forma di bilanciamento dei giudizi, l’interesse privato in atto pubblico è divenuto una prassi consolidata. Si parla in nome della poesia, quando in realtà si manifestano affetti amicali o si scambiano favori di corporazione. Tutto questo riguarda anche altri generi di cui si occupa la critica letteraria militante, ma nel caso della poesia la sua poca rilevanza mediatico-editoriale rende il margine di arbitrio critico esorbitante.)

L’editoria non vende con la poesia, e quindi s’interessa a singhiozzo, in modo capriccioso di poesia, e mai più di tanto. Questo dimostra a sufficienza come sia difficile, oggettivamente, fare il critico di poesia. Era per questi stessi motivi, che Biagio Cepollaro ed io avevamo lanciato questa iniziativa. Raccogliere le forze disperse e provare a concentrarle, in modo da rendere più accessibile quel che di interessante si produceva in Italia e che rientrava nel nostro raggio d’attenzione.

La nostra idea era quella di aprire lo spazio a critici accademici, a critici militanti e a critici-autori. Ed era quella di proporre della incursioni “leggere”. Oltre ad essere leggeri, questi quaderni, erano consapevolmente militanti, ossia si portavano dietro alcuni presupposti poetici del curatore e dei suoi compagni di strada. Insomma, in nessun modo ci siamo proposti di parlare in nome della Poesia e di farcene i più accreditati interpreti, anche perché c’interessava davvero sollecitare un confronto, riuscire a mettere in circolazione dei temi, dei vocabolari, uno stile di lavoro, degli strumenti di analisi. Tutto ciò compatibilmente con le nostre idiosincrasie e con le nostre mai del tutto sedate propensioni polemiche.

Ad esperimento inoltrato, posso provare a tirare alcune somme. L’impressione è che i “Quaderni” abbiano risposto ad una produzione critica variegata e di qualità, che cerca delle occasioni per condensarsi e giungere a confronto. Non mi interessa, però, valutare qui la tenuta o l’interesse di un percorso. Chi si è servito dei “Quaderni” può farlo benissimo da solo. Io intendo parlare soprattutto dell’obiettivo più alto che questi “Quaderni” si ponevano, ed era quello appunto della condivisione con altri di strumenti, temi, riflessioni. Questa condivisione aveva come scopo ulteriore quello di ottenere una sedimentazione tale di materiali, da permettere al discorso critico sulla poesia di partire ogni volta un po’ più articolato e sfumato, un po’ più pertinente e comprensivo. Ora, mi sembra che è proprio questo che non è avvenuto. La mia impressione è che di questa ambita condivisione non c’è traccia né nelle discussioni estemporanee sui blog né in altri ambiti più istituzionali o specializzati.

Ora io credo, come altri in questo momento, che soprattutto nell’ambito fragile e frastagliato della critica di poesia sia essenziale giungere ad un minimo di condivisione, per poter in seguito sedimentare, e fare in modo che ogni volta un argomento non sia ripreso da zero, come se uscisse fresco fresco dai dibattiti degli anni Sessanta, o Settanta, o nei migliori casi Novanta. Proviamo ad essere contemporanei gli uni degli altri. I “Quaderni” su questo versante non possono fare più di tanto, non sono uno strumento adatto. Ne intuisco anche i motivi, che sono in parte determinati dai pregiudizi (reciproci) che spesso impediscono un confronto tra diversi (per poetica, gruppo o rivista d’appartenenza, scuola, ecc.).

Per questi motivi il cammino dei “Quaderni” termina per ora qui, con questo numero 5. Non c’è però nessun senso di lutto in questa fine. Il compito della condivisione rimane e cercheremo altri modi per realizzarlo. Ne approfitto anzi per evidenziare alcuni temi che mi si sono chiariti con il tempo e che penso i “Quaderni” possano lasciare in eredità a chi continua a svolgere lavoro critico in altri contesti.

Un caso (mancato) di critica militante

Prenderò come esempio l’“Annuario” ultimo (poesia 2009, Gaffi, 2009) di Giorgio Manacorda e Paolo Febbraro, che si propone come l’“unico Annuario critico pubblicato in Italia”. Scelgo l’“Annuario” per due motivi: il primo perché al di là delle sue pretese di unicità, si tratta di una pubblicazione che ha una sua storia alle spalle e che è incentrata sulla critica militante di poesia; il secondo riguarda uno degli obiettivi che quest’ultimo numero si è posto attraverso una specifica inchiesta. Tale obiettivo – nelle parole di Febbraro – consiste nel verificare “se c’è qualche speranza di parlare un linguaggio comune”. È, in effetti, un obiettivo che interessa molti di noi.

Ora, senza entrare in un’analisi dettagliata delle 360 pagine dell’“Annuario”, voglio giusto rilevare alcuni errori a mio parere fondamentali dell’impostazione dei curatori. Errori da evitare, qualora lo scopo ultimo fosse davvero la condivisione di un vocabolario minimo.

Cominciamo dal primo. Ad un certo punto del suo editoriale, Febbraro scrive: “Cronachismo, classicismo, neoermetismo: i tre mali della poesia d’oggi.” A questi si aggiunge, lo “sperimentalismo”, che Febbraro cita in apertura di “Annuario”, attraverso un breve ritratto parodistico del “ricercatore del linguaggio”. La stigmatizzazione delle correnti, per via satirica, è una tentazione molto forte, che però non produce, dal punto di vista critico, nessun reale progresso. Ognuno, infatti, può porsi di fronte al poeta che incarna un’avversa poetica e fargli un divertente, sagace, ritratto parodistico. A che cosa davvero servono questi ritratti? Generalmente fustigano i poeti mediocri delle varie correnti, nel migliore dei casi possono fungere da contravveleno per le giovani leve o acuire il senso critico di qualche sprovveduto lettore. Ma di questi ritratti la nostra letteratura critica da Berardinelli in poi abbonda. Il progresso cognitivo che essi favoriscono, rispetto a quanto oggi si fa di buono, è zero. In compenso, sono un’arma che qualsiasi autore (talentuoso o scarso) può usare contro qualsiasi altro.

Bisognerebbe partire su tutt’altro passo. Ricalco qui un illuminante monito di Majorino: “Considerare l’avversario al meglio dei suoi argomenti e dei suoi risultati estetici”. Ciò significa accettare, a mio parere, la pluralità delle poetiche, non riconducibile ad alcun paradigma unico della Poesia. Ma accettare tale pluralità significa anche riconoscere che ogni diversa corrente, scuola, maniera, può esprimere dei risultati importanti, degni di grande interesse. Da ogni corrente possono emergere singoli autori che sono in grado di richiamarsi ad una certa eredità, riuscendo a vivificarla e non ponendosi come semplici epigoni. Piuttosto che limitarsi a dire che il cronachismo è il male della poesia contemporanea, sarebbe utile individuare i migliori dei “cronachisti” e valutare quanto di bene ci possa essere in loro e quanto invece di definitivamente sclerotizzato. E ciò vale, ovviamente, per qualsiasi corrente. Le poetiche sono uno sfondo, rispetto alle quali mettere a fuoco un autore. E un autore importante è sempre un individuo, compie un lavoro singolare, e come tale sfugge all’orizzonte stesso delle sue intenzioni, trasgredisce o reinterpreta in modo inedito vecchi precetti.

Il secondo errore è direttamente legato a questo. Febbraro e Manacorda, pur essendo consapevoli del loro approccio militante, e quindi parziale, se lo dimenticano spesso e pretendono di parlare in nome della Poesia, come se fossero di colpo divenuti dei pazienti ed equanimi fenomenologi, secondo lo spirito di Anceschi. Ma la fenomenologia delle forme poetiche richiede un’attenzione e una pazienza che non può essere presente laddove lo spirito polemico e militante prevale. I ritratti parodistici e la fenomenologia delle forme si collocano agli antipodi: i primi sono metodi di lettura riduzionista (riducono la varietà delle forme concrete all’unità di un carattere allegorico); la seconda è un metodo di lettura pluralista e complessa (si segue la molteplicità delle forme all’interno di una stessa figura d’autore).

Con questo non intendo ovviamente negare l’approccio militante (il dogmatismo della poetica d’autore). Dico solo che è bene esserne consapevoli e togliersi, però, ogni residuo schema monoteistico dalla testa: non è possibile pretendere che l’essenza della poesia sia interamente custodita nell’orizzonte del proprio lavoro formale. Anche se detesto le inflazioni manieristiche o neormetiche, mi aspetto sempre di trovarmi spiazzato e affascinato da qualche importante autore manierista o neormetico. (Io amo Penna, e Caproni, e Fortini, e Pagliarani, e Zanzotto, e Cavalli, e Rosselli, ecc.)

Ma vorrei qui venire al punto di critica maggiore di questo “Annuario 2009”. Esso concerne quello che viene presentata come il pezzo forte del volume, ossia “Un’inchiesta sulla critica e la poesia” di Giorgio Nisini. Gli obbiettivi dichiarati dell’inchiesta, secondo le parole di Febbraro, consistevano nello stabilire “come fosse costituito l’uditorio della poesia italiana contemporanea; e se la critica letteraria ha una parvenza di leggibilità, di compattezza, di coerenza, e anche di libertà dal canone puramente editoriale e distributivo.” (Per fare ciò si chiedeva a due gruppi di persone, dei critici-critici e dei critici-autori, di stilare una lista di poeti contemporanei che vengono letti “con piacere” e che si inserirebbero “in un’antologia, all’infuori di ogni criterio di età e di visibilità editoriale”.)

È evidente una certa confusione negli obiettivi proposti. Il termine “uditorio della poesia italiana” richiama l’idea del lettore comune, ma l’unica domanda in cui consiste l’inchiesta non è rivolta a dei lettori comuni. Quanto alla “leggibilità” della critica italiana, non capisco sinceramente a cosa Febbraro si riferisca. Più chiara è invece l’idea di compattezza, anche se sinceramente non la trovo così interessante. Mentre decisivo, e senza dubbio interessante, è l’obiettivo finale, che per altro sarà ben individuato da Umberto Fiori, uno dei poeti che declinerà l’invito a stilare la lista, motivando pubblicamente la sua scelta. Scrive Fiori: “Il risultato potrebbe essere interessante se rivelasse – come forse vi augurate – che i nomi “privatamente” più stimati non coincidono con quelli più accreditati pubblicamente.”

Bene. Questo è davvero uno dei più alti e difficili compiti della critica militante: battersi contro i falsi valori; alzare i grandi ingiustamente ignorati e abbassare i piccoli ingiustamente ingranditi. È davvero questo che si sono messi in testa di fare Febbraro e Nisini? Se così fosse, nonostante la loro visuale magari militante e parziale, nonostante i risultati magari poco convincenti e non ben giustificati, non si potrebbe che accogliere con favore una tale buona intenzione. Ma in realtà né Febbraro né Nisini si vogliono prendere nessuna responsabilità. Non vogliono lontanamente mettersi a fare lo spinoso lavoro del critico, che cerca di giustificare con argomenti perché una forma sia più degna d’interesse di un’altra. Febbraro, prima, e Nisini nel suo solco, elaborano un nuovo metodo quantitativo, che permette di delegare agli altri quello che loro avrebbero dovuto fare. Sperano, insomma, che ogni critico-autore e critico-critico stili con sincerità e segretezza una hit parade, capace di ribaltare i falsi valori della popolarità poetica, legata probabilmente a fattori extraestetici. Quindi il critico-critico o critico-autore che dice in pubblico il poeta Tizio è il migliore – per interesse, calcolo, amicizia, viltà, bisogno di denaro, ecc. – nel dossier anonimo può finalmente dire che è Caio il migliore, raddrizzando i torti che lui stesso, ufficialmente, contribuisce a perpetrare.

Il vero problema, però, non è sostituire una lista ad un’altra, ma semmai rendere pubbliche le ragioni che perturbano l’ordine ufficiale dei valori poetici. Ma di ragioni né Febbraro né Nisini vogliono sentir parlare: il loro metodo è quantitativo. E Nisini, pur ammettendo che siamo di fronte a un caso di “azzeramento della critica”, prosegue in esso con convinzione, sostenendo che tale azzeramento ci dà un risultato “più attendibile di altri”. Più attendibile per chi? Probabilmente per un analfabeta della critica letteraria, che non disponendo più di alcuno strumento, si rifà al metodo delle occorrenze. Nisini non fa che calcolare le occorrenze di un certo poeta in una certa lista stilata da coloro che hanno partecipato all’inchiesta. Siamo passati dalla critica ipocrita (i valori ufficiali sono falsati) alla critica matematico-oracolare (la verità estetica è custodita nelle occorrenze di un certo nome tra un campione di addetti ai lavori). Il progresso conoscitivo è ovviamente nullo. Tutto ciò che ci interessa del discorso critico – l’analisi e la comprensione della forma – è spazzato via. Ma alla trovata della critica matematico-oracolare sono dedicate 47 pagine. Il passo successivo potrebbe essere la critica poliziesco-matematico-oracolare: si piazzano a casa di critici e poeti rinomati delle cimici in grado di registrare conversazioni e telefonate private. Si calcolano le occorrenze dei nomi dei poeti citati, e si stila il super-canone affidabilissimo. A tale canone, infatti, parteciperebbero a loro insaputa anche i giurati refrattari (Fiori) o assenteisti (tutti quelli che non hanno risposto al dossier).

Ho evocato la vicenda dell’inchiesta quantitativa di Febbraro-Nisini perché è probabilmente sintomatica di uno spaesamento più generale della critica di poesia. Uno spaesamento che sembra amplificarsi ad ogni nuovo tentativo di uscirne, con rimedi che si rivelano ben peggiori dei mali.

Naturalmente sarebbe sbagliato generalizzare. Nonostante le difficoltà e lo spaesamento di molti, esistono critici universitari e critici-autori che riescono ancora a svolgere una fondamentale azione “militante” di chiarimento e giustificazione. Il problema rimane la dispersione e la conseguente mancata sedimentazione dei tanti lavori puntuali e degni che esistono sulla nebulosa della poesia vivente. Per questo la condivisione rimane ancora un obiettivo primario. Condividere, in quest’ottica, non vorrà dire condividere gli esiti e i giudizi, ma almeno delle categorie di base, condividere almeno un vocabolario, una strumentazione.

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20 Commenti

  1. “Il passo successivo potrebbe essere la critica poliziesco-matematico-oracolare: si piazzano a casi di critici e poeti rinomati delle cimici in grado di registrare conversazioni e telefonate private. Si calcolano le occorrenze dei nomi dei poeti citati, e si stila il super-canone affidabilissimo.”
    impagabile :-DDDDD

    a parte le battute: la mia impressione, come sai, è che il ruolo di mediazione sia sempre più un ruolo di aggregazione che non di selezione ed è forse questa una delle cause dello spaesamento che descrivi. rimane il fatto, comunque, che i punti che tocchi sono decisivi. e, nello specifico dei modi della critica, sono proprio l’abc di una critica (di qualunque ragionamento) che voglia essere qualcosa di più di una serie di affermazioni.

  2. bello e triste. soprattutto ‘scrivere nella provincia letteraria’. vorrei spiegare i motivi per cui mi ha colpito questo post, ma non sono uno scrittore. :)

  3. “Il provincialismo letterario è un fenomeno perfettamente coerente con un paese come il nostro”

    e questo post ne è la prova.

  4. La cultura italiana è davvero provinciale se tutto si riduce alla fascismofobia come in questo sito…

    A proposito, per fascismo estetico si deve intendere anche lo show di Berlusconi in Israele?

  5. un’occasione mancata. per tanti motivi. Dice bene Inglese.

    Accanto al furor matematicus molto caro evidentemente a Febbraro , ricordo un precedente editoriale con tanti numeri e statistiche e presenze in antologie recenti, dove, segnalando ad esempio l’assenza della Insana dai recenti tentativi di canone, il buon Febbraro ometteva il fatto che sull’almanacco i libri della medesima non vengono mai recensiti… e la cosa può dirsi anche per altri nomi di un certo rilievo, evidentemente malvisti del grande esperto di gossip poetitalico, il Manacorda junior.

    tanta carta sprecata, un contributo alla deforestazione del pianeta in nome del grado zero della critica (militante) e di tanto sproloquiare intorno a un dio (il povero Caproni, sempre preso a modello, ne ha di che inorridire ).

    che dire poi dell’inutile intervento di Filippo La Porta, uno che di poesia proprio non ne mastica e ha già più di qualche problema a capirci di prosa?

    l’ironia, l’acribia, certe battute al vetriolo, inutili come i versi di Matteo Marchesini che rifà il verso a qualcuno più grande di lui. prove di forza nerborute per una rivista molto maschia e fustigatrice … a proposito, Paolo febbraro, che mi sta pure simpatico, recensendo su Nuovi Argomenti l’amico Berardinelli, parla di ‘critica maschia’… modo molto dinoccolato di esprimersi. voleva fare un complimento a un amico mostrando al mondo i suoi attributi. cosa non si farebbe per gli amici.

    d’altro canto sempre lui, è molto infastidito dalle donne in poesia che non fanno altro che esibire il proprio corpo. se pensava di demolire alcuni dei migliori risultati della poesia contemporanea, bè, ha solo dimostrato che la peggiore critica militante e accademica è ancora e atavicamente sessista e maschilista.

    un imbarazzante vuoto.

    imbarazzanti molte delle recensioni, prive di tutto:
    aria fritta e insalate sociologiche da salottino radical-romano, molto spesso, come per le interminabili tirate, lunghe conversazioni da treno, scelte di gusto spesso raccapriccianti: battute a vuoto, cadute di stile, e un verboso, noiosissimo ‘come eravamo’ sparso come una melassa dal primo all’ultimo numero.

    un almanacco che odia tutti, sperimentali, neodialettali, neometrici: e che di tutta una generazione salva solo l’amico (e , per carità, rispettabilissimo) Elio Pecora . possibile? e poi la grande riscoperta del poeta Manacorda, uno di cui si avverte la grande mancanza.

    in quattordici numeri hanno ignorato volutamente i neodialettali:
    evidentemente colpiti, Manacorda e chi per lui, da quello che Mengaldo definì ‘un pregiudizio pigro’, e mai tornati indietro sui propri passi ( se non per Loi, ma il nome è di una evidenza inevitabile) e recentemente per l’ottimo Zuccato, senza un motivo accertato al primo posto della ultima hit parade.

    ma del campionario di perle manacordesche, ne ricordo una, scritta a proposito e ad onta dei dialettali: “Non capisco perché dovrei leggere un autore italiano in una lingua straniera”… peccato che lo straniero sia proprio lui.

    a proposito dei provinciali : la recente antologia di Manacorda sembra fatta in casa come le canzonette portate a Sanremo da Marcella Bella:
    il fratello le parole, il cugino la musica, la zia cuciva la gonna e la madre le lavava i capelli: una antologia fatta di amici e per amici, dove persino Cordelli e Berardinelli, autori entrambi di un’unico libro di versi la cui memoria affonda nel tempo assieme all’inconsistenza, sono antologizzati e ritenuti tra i migliori. Contando il numero dei romani presenti, o gravitanti nell’urbe, sono oltre la metà dei selezionati. una rivincita sulla Milano editoriale ? provincia? miopia, semplicemente.

  6. (Aoh, cià belli, so Gertrudo.
    “ü o non è mai andato in vita sua in auto a 200 km all’ora o s’è già schiantato”.
    “So i trattini che fregano”, m’ha spiegato mi cuggina Gertrude).

  7. mi rendo conto di essere andato anche fuori tema. La questione centrale mossa da Andrea Inglese, resta ancora inevasa. Condivido le sue argomentazioni e la necessità di ravvisare, se non i giudizi, almeno un vocabolario che accomuni.

  8. un eccezionale Inglese, questo, cristallino e solido come l’acciaio, convincente, e anche spiritoso (mi si perdoni l’incensamento intrablog);

    (se mai si facesse una patente a punti – come quella per gli immigrati, per intenderci – anche per i collaboratori delle pagine culturali dei giornali, o almeno per i direttori delle stesse, bisognerebbe rendere obbligatorio – tra le altre cose – imparare a memoria questo testo)

    e direi che sostituendo (trova-sostituisci) “poesia” con “narrativa”: il testo sarebbe egualmente azzeccato e illuminante (al posto dell’Annuario 2009 si potrebbe invece mettere per esempio la pur per certi aspetti pregevole “La nuova narrativa italiana” di La Porta, dove la stigmatizzazione non passa per la satira (il che non è poi indispensabile), e cerca anzi dei puntelli teorici, ma ha pur sempre un’analoga funzione riduttrice e distorsiva nei confronti della materia – i testi – presi in esame);
    e questo per quanto riguarda “la pluralità delle poetiche”;

    ma in realtà anche per l’aspetto “un minimo di condivisione” di “strumenti temi e riflessioni”, la sostituzione di “poesia” con “narrativa” sarebbe pertinente;
    è per me chiarissimo come la genericità e la scarsissima incisività di molta critica, anche semplicemente giornalistica, ha come corollario l’assenza di una qualsivoglia “briciola di condivisione” (la quale non dovrebbe necessariamente essere uguale per tutti i “nuclei di condivisione”, intendiamoci; anzi!), il che implica, come dice Inglese, ripartire ogni volta da zero, lasciando inevitabilmente lo spazio, aggiungo io, per i peggiori e più arbitrari sbandamenti, le più trite banalità, le più audaci cadute in un acritico conformismo, e il più scontato senso di inferiorità rispetto ai dati delle vendite; senza un minimo di armamentario che permetta di mettere in relazione molti testi anche parecchio diversi, al fine di confrontarne la complessità e in ultima analisi coglierne la qualità, si va poco lontani; pensiamo, tanto per citare l’esempio per me più fragrante, al “problema della lingua”, al posizionamento dei vari narratori nei confronti dei vari registri e delle varie possibilità della lingua italiana;

  9. Di condivisione di un protocollo per la lettura dei testi poetici si parla da almeno un secolo; nel piccolo di tutti e nel nostro presente, ognuna delle piccole comunita’ autoreferenziali si accorda su basi minime condivise. La “delusione” di Inglese, l’incomunicabilita’ fra le piccole comunita’, agisce a livello estetico prima che di prassi: la fascinazione (fascista?) del testo, la bellezza, non e’ risolvibile con un trattato ne’ esplicabile con un manuale di lettura. E’ un’esperienza privata, forse “progressiva” a seguito di grandi sforzi pedagogici. Ed e’ la prima barriera all’apertura.

    L’ “invasione matematica” conduce anche all’idea recente di peer review per la poesia, liddove i peer sarebbero gli attori, indistintamente (si argomenta poi su un’idea di autorevolezza data dal giudizio dei peer, quantitativa); idea impraticabile, visto che la fascinazione precede la codifica razionale, cosi’ come l’esperienza precede la parola. Ci sono Cento Lettori in ognuna delle reti del web, da quelle mainstream a quelle remote.

    Il non riuscire a liberarsi della verticalita’ gerarchica, pur cercando di spalmarsi nell’orizzontalita’ della rete, riflette forse la natura culturalmente ibrida della generazione oggi intorno ai quarant’anni. In ogni caso e per quel che puo’ interessare, in tanti ad un certo punto pagano pegno al gesto ordinatorio, classificatorio, muscolare. Se questo topic racconta un commiato, e’ l’ultimo di una lunga serie di simili commiati.

  10. Estremamente denso, tantissimi i punti su cui focalizzare l’attenzione su questioni cicliche e irrisolte (per poesia e narrativa)

    Correndo il rischio di tracimare, desidererei allegare qui di seguito due brani, di 2 autori diversi, non necessariamente tra i miei preferiti, che trovo calzanti per soffermarsi, l’uno, sulla spinosa questione del “pubblico”-scrittori elitari e non- libretto delle giustiche…
    e l’altro sui vari primati dell’italianità, originalità di pensiero, provincialismi vari…

    LETTERA DA LEUCA
    in SCRITTI DI VIAGGIO, DI COMBATTIMENTO E DI SOGNO
    di
    ANTONIO MORESCO

    (…)Negli ultimi decenni del secolo è avvenuto un rovesciamento speculare, del tutto funzionale alle dimensioni e alle forme che hanno assunto le macchine culturali ed editoriali dell’intrattenimento di questa epoca e al conseguente bisogno di ridurre anche la letteratura e il pensiero a qualcosa di ripetitivo, controllabile e inoffensivo. […]
    Un atteggiamento intriso di superficialità, inconsistenza che, in obbedienza ai bisogni delle macchine economiche e del consenso che producono libri, spettacoli e altri oggetti estetici e culturali, tende a far piazza pulita di ogni possibilità non contemplata, anomalia, diversità, radicalità. All’interno di questa logica e di questo sistema di forze, viene selezionato ciò che è maggiormente funzionale alla normalizzazione delle attività artistiche e umane. Compito fatto proprio immediatamente e moltiplicato acriticamente anche dalle schiere asservite di intellettuali funzionari, selezionatori mediatici e propagandisti dell’esistente, indipendentemente dalla loro collocazione culturale o politico-culturale. […]

    Io non disprezzo affatto la letteratura “di genere”.[…]
    i cui libri sono a volte carichi di un’invenzione e di una passione – anche di conoscenza- impossibile da trovare nei libri di tanti abatini della scrittura letteraria, per non parlare dei molti che credono di esibire il proprio status spalmando una imbarazzante marmellata bellettristica sopra le loro pagine.
    Però dietro questa operazione di inclusione ed esclusione in atto in questa epoca sta passando qualcosa di enormemente più importante , che bisogna avere il coraggio di individuare e affrontare, perché stanno cercando di ingabbiare tutta la potenza del dicibile in una rete di narrazioni artefatte schematizzate. Forse non si è fatta ancora attenzione sufficiente alla natura genocida di questa operazione sul piano artistico, di conoscenza e di specie. Accettare questo stato di cose, per uno scrittore, è un gesto di resa senza condizioni.
    Partiamo dal problema del “pubblico”[…]

    In realtà quello che chiamano il “pubblico non è un’entità astratta e sempre uguale a se stessa,è il risultato di un lungo lavorìo di normalizzazione.”[…]

    Parlando in questo modo del pubblico si passa sotto silenzio il concorso delle enormi forze (economiche, tecnologiche, culturali e sociali) che hanno agito perché le cose andassero così, perché arrivassero al punto in cui sono infatti arrivate. Hanno castrato , lobotomizzato e rimbecillito il “pubblico” e poi ci vengono a dire: “Ecco, vedete, il pubblico è rimbecillito, noi non possiamo dargli che quello che ci chiede e si merita! Non è colpa nostra se il suo stomaco digerisce solo cibi predigeriti. Perciò voi scrittori non dovete fare tante storie, dovete stare al gioco e produrre quello che il “pubblico” vuole e magari costruirci sopra una piccola ideologia terroristica e supportata. In caso contrario vi ridicolizzeremo e criminalizzeremo all’interno del piccolo universo mediatico controllato, come degli aristocratici fuori tempo, dei romantici, dei reazionari, oppure schiacceremo tutta la massa in movimento e in invenzione e pensiero che vi ostinate a mettere in campo su piccole categorie moralistiche spregiative e vi daremo dei buoni a nulla, dei fissati, dei paranoici, degli invidiosi, dei rancorosi, tutto quanto può servire ad evitare il confronto con quanto andate dicendo, a parlare d’altro, a stornare l’attenzione dalle urgenze reali e gravi che cercate di evidenziare”.
    Va avanti così da tempo…ma è un cerchio che bisogna spezzare! Bisogna continuare a ripetere e ricordare che sono state compiute delle azioni concrete, da singole persone, da gruppi, che sono state portate avanti delle operazioni finalizzate ad arrivare a questo punto. Non è un risultato astratto, una sorta di calamità naturale senza responsabilità e senza agenti, di fronte alla quale non si può far niente. […]
    Ci viene detto che le cose stanno così, che il “grande pubblico” vuole solo merda confezionata e quindi non resta che dargliela. Strana logica. E’ stato costruito qualcosa e poi ci vien detto che si tratta di un evento naturale immutabile che non si può cambiare.
    Eppure abbiamo sotto gli occhi alcuni esempi illuminanti che suggeriscono altre possibilità. Nello spazio che è stato lasciato nascono e si rafforzano editori intelligenti e dinamici che mostrano una diversa considerazione e un maggior rispetto per i lettori e se stessi. le edicole rigurgitano di libri (anche impegnativi e di spessore e ritenuti ormai troppo pesanti per le nostre testoline e poco vendibili) pubblicati da giornali e riviste che incontrano il favore del pubblico da aver preso in contropiede le stesse grandi case editrici e aver creato seri problemi alle loro logiche e strategie commerciali. Dopo avere tanto invocato il “pubblico” e il mercato come copertura e alibi per le loro scelte al ribasso, questi editori si trovano ad essere scavalcati proprio dal pubblico e dal mercato e devono giocare di rimessa.
    Ma riprendiamo la legge dei grandi numeri – che non è affatto una legge ma, anche quella, il risultato di una concentrazione di forze – tende continuamente a cancellare, attraverso mille meccanismi, gli scrittori anomali e non allineati che non arrivano o non vengono fatti arrivare al grande pubblico[…] Ora ci mettono davanti parametri e tabelle di cifre che dicono una sola cosa[…] che dal giusto rispetto per le cifre e per il ritorno economico sono passati a qualcosa di molto diverso,che non ci viene detto. Non allargate le braccia, non siete innocenti! Tutto quello che è successo non è avvenuto in un vuoto pneumatico, è stato il risultato di azioni, forze, di funzionalità, asservimenti, carriere, che hanno coinvolto nella stessa misura editori e scrittori di cui ora si vedono pienamente i frutti.

    […]
    Sì, perché la diffusione pervasiva pilotata dei “generi” generizza anche la letteratura, con il mantenimento di spazi, sia pur terminali, per una scrittura evocativa della letteratura, formalmente accurata e antiquariale ma senza più nulla dello smottamento spirituale e dell’invenzione e dell’immersione, della crudeltà e dello piazzamento che attraversano al letteratura, ma che può dare anch’essa le sue piccole soddisfazioni. E’ una falsa alternativa.[..] Non bisogna stare in queste gabbie. Né in quella del genere né in quella del “genere letteratura”…perché c’è qualcosa d’altro al di là di questa falsa alternativa bloccata, di questa tenaglia con cui si sta cercando di stritolare gli scrittori. Forse è solo un filo sottile, tagliente come una lama, ma che si può sempre inventare e su cui si può camminare. Verso dove non si sa, non si sa mai in anticipo, non lo si è mai saputo.

    (Fanucci Editore, 2005)

    *

    da PAESAGGI ITALIANI CON ZOMBI di Alberto Arbasino

    Ma nel nostro Novecento, anche le lettere dei letterati appaiono misere: poche affettate righe di meschinità editoriali e giornalistiche pratiche, e preoccupazioni per compensi da ricevere, con grullerie da goliardi invecchiati circa i soldi; però senza esperienze o passioni di scoperte o entusiasmi o sfide culturali e qualche coraggio nei giudizi spirituali, intellettuali, civici, politici. O qualche emozione davanti a quadri, ascoltando musiche…mentre gli autoritratti di servizio seguono piuttosto gli esempi dei sonetti dei vati nazionali davanti allo specchio: compiacimenti su nasi e denti e chiome di rappresentanza[…]
    Presso di noi preferibilmente voluminose e velenose polemichette rétro sulle inesauribili pusillanimità e falsità e dissimulazioni e piaggerie e ambiguità intellettuali italiane che non finiscono mai, come i famosi esami. perché ogni giorno è un anniversario scadente; e addossando le colpe intellettuali al solito complesso Fascio-Chiesa-Comunismo_Capitalismo tutti i vari cauti accorgimenti e compromessi intellettuali di ieri (ma poi di oggi e domani) vengono man mano sputtanati nella revisione settimanale o annuale delle code di paglia. Monotoni plotoni di code con incartamenti pieni di tortuosità equivoche, di obliquità sopravvenute nell’arte di far voltar le frittate…anche per mascherare indirettamente una penuria abbastanza cronica di coraggio, di pensiero e di palle, nonché di senso politico, mente giuridica, formazione culturale non circoscritta[…]

    qualcuno di loro scriverà un libro o una poesia interessante per più stagioni […] comporrà un pezzo musicale degno di tal nome, saprà esprimere idee e concetti e avventure intellettuali contemporanee che non siano meschini sottoprodotti della quotidianità televisiva e dell’effimero ideologico?
    Possibilmente senza limitarsi a rimuginare senza fine sopra un piccolo ego noioso e scadente
    con contorno di minestrine e scopatine caserecce nostrane da buttar generalmente nel cesso esclamando il rituale e giovanile tiè?
    E fra quegli immensi ammassi di elaborazione teorica, si sarà mai sviluppato o sarebbe timidamente affiorato – tanti anni dopo Leopardi[…]- un barlume di Pensierino Italiano originale e non solo commentino o chiesetta intorno ai Classici o agli Effimeri convenzionati e metabolizzati nel consumo retorico per il “do ut des” congressuale e il 18 di massa? Fra i rivoluzionari accademici e i segretari politici che vanno ripetendosi la presenza ispiratrice, la consueta perizia, il rilevante contributo e impegno, l’esemplare e radicale ripensamento, e il protrarsi dell’attesa[…]
    Allora, i presenzialismi e i bovarismi dei maestrini e professorini delle Normali e delle Cattoliche (lo dicono i nomi italiani stessi!) con l’ambizione di dominare le masse, cambiare il corso, dettare le condizioni, influire sugli eventi (normalizzare i pecoroni, cattolicizzare le pecorelle…) non destavano grande eccitazione intellettuale né vivace emotività politica, malgrado tutto l’incitare e ammazzare e rapire (normale e cattolico all’italiana, diceva Stendhal) in un’epoca di nanetti sulle spalle di nanerottoli…

    (Adelphi, 1998)

  11. a giusco
    “Di condivisione di un protocollo per la lettura dei testi poetici”; non parlo di protocollo, parlo di un certo vocabolario comune, di certe categorie comuni, che per essere tali dovrebbero essere esplicitate, discusse, confrontate. Non c’è nessuna nostalgia dello strutturalismo più rigido da parte mia.

    “la bellezza, non e’ risolvibile con un trattato”; non ho mai parlato di “bellezza” (è termine che uso quasi altrettanto raramente che “sacro”)

    “Il non riuscire a liberarsi della verticalita’ gerarchica, pur cercando di spalmarsi nell’orizzontalita’ della rete, ecc.” non ho capito che intendi dire. Puoi chiarire meglio?

    Grazie a Maria per i materiali che mi sembra entrino bene in consonanza…

  12. Protocollo o vocabolario comune: volevo dire che in tanti auspichiamo una apertura comunitaria condivisa, alla quale tu ti riferisci citando Majorino. Quel tipo di slancio non mi pare sufficiente, ma e’ un’opinione personale. Nel saggetto linkato, citavo il protocollo Isella e la stessa tua considerazione contro l’eterno ricominciare. Come lo eviti, il reinventare la ruota? Solo sottoscrivendo un testo di riferimento comune, una biblioteca condivisa; o almeno qualcosa del tipo del trattato di Lisbona, fra vari stati, staterelli e comunita’.

    Bellezza / sacro: brutte parole, sono d’accordo, ma un nocciolo duro contro il quale noi tutti di una certa area andiamo a cozzare. Che si fa? Un lavaggio del cervello preliminare a tutti i lettori? Un esempio di percorso che si e’ mano mano allontanato dal “discorso”, per tornare al “sacro”, e’ quello di Massimo Sannelli. Ha tradito? Ha capito qualcosa? Un percorso che non si e’ mai avvicinato al “discorso” e’ quello di Angelo Rendo. E’ stupido? La sensibilita’ precede l’intelligenza? Sono domande che mi faccio, legate a modi diversi, irriducibili, di approcciare lo stesso testo.

    Verticalita’ / orizzontalita’: sopravvive un’idea ideologica, commista al mercato, di valore (autorevolezza, peer review, Cento Lettori), che mal si concilia con lo strumento rete. Secondo me dobbiamo davvero rassegnarci -o meglio, aprirci- all’irriducibilita’ e alla non mercatabilita’ dell’incontro uno vs uno, invece che perpetuare il rapporto uno vs generico pubblico. Dici dei tuoi dieci lettori, altra analisi che sento comune. Dei miei tre, quei tre camminano con me, alla stessa maniera dei gruppi di ricerca che frequento a livello accademico nel mio campo, influenzano direttamente la mia vita. E sono molto contento, piu’ che se ne avessi tremila sconosciuti e lontani; a quei tremila, pero’, riconosco l’assoluta liberta’ di interpretare i miei testi senza alcuna lezione/introduzione. Il diritto all’esperienza frontale. Se riuscissimo a neutralizzare la critica in rendiconto che parte da punti di vista diversi ma eguali (come anche tu auspichi), meta’ del cammino necessario a svelenire il clima sarebbe gia’ compiuto.

  13. Grazie Giusco,

    sono d’accordo molto con l’esempio che fai con il mondo della ricerca scientifica – io trovo che non ci sia così differenza con certi ambiti artistici, dove si battono zone di confine, e quindi abbastanza solitari, elaborando forme che magari troveranno in seguito dei continuatori in un’ottica più divulgativa (sia detto senza un significato spregiativo).

    Sul “sacro”, ecc., io critico solo l’inflazione che si fa del termine, con riferimento ad esempio alla poesia; e anche un certo uso strumentale e ideologico; e in definitiva un uso spesso generico e superficiale. Rendo non lo conosco, ma senz’altro un Sannelli ha – per quello che posso capirne – un suo modo originale, forte, di reinterpretare il nesso sacro-poesia.

  14. Aggiungo e chiudo: se un protocollo critico non ce lo diamo da noi, e’ probabile che ci verra’ prima o poi regalato meccanicisticamente dagli studi post chomskiani sugli invarianti sintattico/ritmico/metrici nella poesia di quasi tutte le tradizioni letterarie umane conosciute. E’ un filone portato avanti in particolar modo dal prof. Nigel Fabb, all’Universita’ dello Strathclyde, UK. Quando accoppiato a studi su come reagisce il cervello umano a determinati stimoli linguistici (del tipo di quelli recentissimamente venuti alla ribalta sui pazienti in stato vegetativo), la biologia e il solco materiale del cervello di ognuno saranno messi in relazione alla risposta agli stessi invarianti sintattici, che negli studi di Fabb appaiono precedere sia quelli ritmici che quelli metrici. Per cui probabilmente arriveremo a dire che la diversa risposta ad uno stesso testo e’ una pura e irriducibile diversita’ biologica, prima che culturale.

  15. In particolare su PN Review n. 189 dell’autunno 2009, Fabb suggerisce che l’unita’ fondamentale di una poesia e’ la linea, che diventa il verso comunemente inteso non per scarto dalla prosa, ma per virtu’ di concatenazione. La linea e’ cioe’ prodotta concatenando elementi, senza riferimento ad una sintassi; la linea e’ fondamentalmente una lista, una sequenza di parole senza limiti metrico o ritmici, che viene testata a posteriori invece che pianificata a priori come nel linguaggio ordinario di soggetto – predicato – complemento.

  16. Nel merito e nel metodo, totalmente d’accordo con Andrea.
    Ma: peccato per i mancati feedback, anche di condivisione ed esplorazione, che portano alla scelta del ‘last step’, della chiusura dell’esperimento dei “Quaderni”.
    Che spero però si riproponga, si riavvii, in qualche modo e tempo…

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