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I 60 anni di Filmcritica (II)

[Ricorrono i 6o anni della rivista «Filmcritica», per chi voglia abbonarsi il modulo si trova qui. DP]

Sulla rivista si sono alternate figure di scrittori (di nuovo: non a caso non si dice critici cinematografici), assolutamente atipici rispetto al parlar di cinema in Italia. Una di queste era Giuseppe Turroni, pittore, studioso di fotografia, critico,  forse il più acuto interprete di cinema americano che si sia letto nel nostro Paese.
La scelta cade su due interventi. Il primo, a pochi mesi dalla morte, vede Turroni cimentarsi, a margine del tradizionale appuntamento che la rivista dedica ai dieci migliori film dell’anno, con una riflessione teorica sul mestiere del critico (con in testa i suoi 10 migliori del 1989). Il testo è tratto dalla sezione Americana (a cura di L. Esposito), pp. 153-154.
Il secondo è una conversazione fra Turroni stesso e Alfred Hitchcock, all’inizio degli anni Settanta, in cui si vede bene come anche il concetto di intervista su Filmcritica vira prepotentemente in direzione letteraria. La conversazione sembra una battaglia fra titani, dove il più sorprendente è Turroni… La sezione di riferimento è intitolata Discorsi (a cura di L. Esposito e D. Turco), pp. 191-193.
(Lorenzo Esposito.)


1.

Il lavoro del critico
di Giuseppe Turroni
n. 391/392, gennaio 1989

L’impero del sole, di Steven Spielberg
Intrigo a Hollywood, di Blake Edwards
Frantic, di Roman Polanski
Monkey Shines, di George A. Romero
Danko, di Walter Hill
L’ultima tentazione di Cristo, di Martin Scorsese
Come sono buoni i bianchi, di Marco Ferreri
Chi protegge il testimone, di Ridley Scott
Omicidio allo specchio, di Arthur Penn
Encore, di Paul Vecchiali

Ci è sempre piaciuto ripetere un concetto che, fin qui, avevamo sempre creduto nostro e personale, insomma inventato da noi: quello secondo cui l’artista deve essere anche critico e il critico deve essere anche poeta, poco o molto che sia. Ci è capitato invece di leggere un concetto analogo, espresso in forma similare da Baudelaire: «Compiango i poeti guidati dal solo istinto; li credo incompleti. In essi, infatti, si manifesta infallibilmente una crisi, laddove vogliono ragionare sulla loro arte, scoprire le leggi oscure in virtù delle quali si è prodotta, e trarre da questo studio una serie di precetti… Tutti i grandi poeti, diventano naturalmente, fatalmente, critici. Chi parla della pittura meglio del nostro grande Delacroix? Diderot, Goethe, Shakespeare: tanto artisti, quanto ammirevoli critici».

E i critici? I critici, come gli scienziati, se non sono ragionevolmente alimentati dal fuoco insieme speculativo e istintivo dell’arte, a poco a poco finiscono con lo schematizzare il loro procedimento creativo, con l’inaridirlo; e, magari, arrivano a scoprire, come se si trattasse di grandi rivoluzioni teoriche, realtà già conosciute. Un critico, dovrebbe anche “lavorare con le mani”: non si dice proprio fare film, cosa complessa e costosa, ma operare con qualche materia del visivo: per esempio, qualcuno di noi ha mai provato, dopo aver visto un film, non a scriverne, ma a disegnare, proprio con la matita o il pennarello, in sintesi, l’idea che il film stesso gli ha procurato e donato, una scena, un volto, un taglio di inquadratura che l’hanno particolarmente colpito?

Certo, il disegno è un’arte che ha bisogno di tante regole, studio, e tecniche specifiche. Siamo più bravi a manovrare le parole, a giocare con esse, a giostrare coi loro sensi e significati, e quindi, dopo aver visto un film, ci è più comodo cercare di individuare il suo nucleo espressivo attraverso i concetti letterari e teorici. Comunque sia, Baudelaire era alla ricerca di una idea assoluta e totale di autenticità, quella poi avanzata per tutta la vita da Paul Valéry negli scritti teorici e nei componimenti poetici: «Amo l’autentico», dice Valéry, «come altri amano il nudo», ricollegandosi così al concetto di natura e soprattutto di corpo: «Il pensiero è serio soltanto grazie al corpo. Che cosa potrebbe sostituire le lacrime per un’anima senza occhi, e donde essa potrebbe trarre un sospiro e uno sforzo?».

Il lavoro del critico consiste nel trovare questa autenticità, che può essere definita in diversi modi: carica vitale, espressione originale, persino ispirazione poetica, termine questo che si usa soltanto, da parte dei più facili divulgatori, per coloro che paiono toccati dalla “grazia” inimitabile, come per esempio Fellini, Bergman, e pochi altri…

Come trovare questa autenticità? Non unicamente alla luce di pure teoriche estetiche. Cercare, allora, di calarsi, col corpo, nell’opera stessa, nel suo farsi, nel suo divenire, nella sua dinamica spaziale e temporale. Cercare di capire quella che Marinetti, inopinatamente, definiva «la piacevole naturalezza di forme», inventate, secondo il grande futurista, non tanto dalle «macchine celibi» di Duchamp, quanto, è una metafora coniata proprio da Marinetti, dalle «macchine angeliche», quelle che ruotano nell’aria e negli spazi siderali alla ricerca di un ordine naturale e metafisico insieme.

Macchine angeliche sono, per il critico di buona volontà, teorico e artista insieme, quelle che ci trasportano in quell’altro e in quell’altrove di cui parlano, scrivono, cantano, ragionano, inventano gli artisti che anche quest’anno abbiamo amato: lo Spielberg de L’impero del sole, il Romero di Monkey Shines, il Ferreri di Come sono buoni i bianchi, e via discorrendo e citando.

Noi li abbiamo guardati con un bisogno autentico di vedere quel tanto in più e di altro che essi generosamente hanno dimostrato di saper donare con grazia, naturalezza, amore e sincerità di espressione. Lo diciamo? Con la forza della loro personale ispirazione.

Siamo convinti che questa carica di autenticità, da parte dell’artista-critico e del critico-artista, in un rapporto armonioso e dinamico, “celibe” e “angelico”, di comprensione, possa andare al di là di tanta massificazione culturale che oggi circonda, plasma e modifica la nostra comprensione del cinema e del film. Critici, giornalisti, informatori della radio e della tv, ci insegnano ogni giorno a vedere in maniera sempre più falsa, complicata e sterile il film, ci inducono a tradire le nostre più vere condizioni umane, a seppellire i ricordi validi, a mitizzare fenomeni che invece non meritano che scarsissima stima. È assurdo invitare gli spettatori, lettori di un film, in una sala o davanti al televisore, ad ascoltare con gli occhi e a guardare con le orecchie, ad essere insomma molto cauti, e al tempo stesso veri, reali, autentici: se stessi?

Troppe parole cave, troppo intellettualismo facile guastano il piacere della lettura visiva: pensiamo a come i vari festival del cinema sono commentati, guastati, traditi da inchieste e cronache giornalistiche e televisive. Un mondo falso, irreale, di spettacoli tetri, di fiere informi, di irrealtà sconvenienti. Pensiamo alle «tavole rotonde» televisive e non, su questo o quel capolavoro, su questo o quel mago della cinepresa. Roba da fare accapponare la pelle dal terrore come nei racconti di Poe, di Hawthorne, di Landolfi. Ebbene, non ci resta che fidarci sempre meno di questi mielati e cattivi consiglieri. Non ci rimane che pensare con la nostra testa, ragionare col nostro cuore, partecipare col nostro corpo.

Parole facili, le nostre? Senza dubbio, ma costituiscono pur sempre un invito sereno a non farsi prendere dalle false apparenze, ed a guidare con coraggio e risolutezza quelle macchine celibi e quelle macchine angeliche che sono, queste sì, in grado di attraversare spazi inauditi, di toccare prospettive insolite dietro il pigro paesaggio delle cose codificate, e di inventare un po’ di vera luce per chi, critico, artista o spettatore, viva nel grigiore di media sempre più terroristicamente riduttivi e condizionanti.

2.

Conversazione con Alfred Hitchcock
a cura di Giuseppe Turroni
n. 228, ottobre 1972

FILMCRITICA: Il soggetto di Frenzy è analogo a quello de L’assassino di Rillington Place di Richard Fleischer; almeno “apparentemente” mi pare che i due film abbiano parecchi punti in contatto, per quel che riguarda il tema, da lei spesso svolto, dell’individuo accusato di una colpa che non ha commesso.

Hitchcock: Sì. Ho visto il film di Fleischer. Mi è sembrato un film con molti difetti sul piano della tecnica del racconto; e anche senza atmosfera. Senza una linea precisa di azione e di sviluppo.

FC: Questo lo dice lei.

H.. Sì.

FC: Il film di Fleischer è buon cinema.

H: Questo lo dice lei!…

FC: Cosa è buon cinema?

H: Il cinema è visualizzazione. Oggi si fa molto spesso del teatro parlato.

FC: Anche The Rope è soprattutto parola, o comunque è un film “parlatissimo”, ricorderà.

H: Lo ricordo. Cinema è La finestra sul cortile, perfetto, il mio film preferito insieme a L’ombra del dubbio.

FC: Sono d’accordo. È un capolavoro del “sublime cinematografico”; in casa ho un altarinodedicato a questo film, prego sempre davanti a questo altare,, so di essere nel giustodella mia fede, della nostra fede, del mio amore per lei.

H: Grazie (primo sorriso occhio-brillante, primo sguardo cattivo, gentile e complice).

FC: Dunque, l’amore per lei. Cosa ne pensa di Chabrol, cosa ne pensa di Truffaut?

H: Di Chabrol ho visto solo Delitti e Champagne.

FC: Non è tra i migliori film di Chabrol..

H: L’ho saputo. Ma non ho visto altri film.

FC: Chabrol e Truffaut le hanno dedicato dei libri, Truffaut addirittura un librone,quasi un romanzo. Cosa ne pensa?

H: Sono buoni libri.

FC: E dello stile di questi due registi? Si rende conto che l’adorano?

H: Me ne rendo conto. L’imitazione è la più sincera espressione dell’adulazione. (Uno sguardo astratto, non più cattivo ma compreso, quasi religioso).

FC: E i carrelli di Chabrol? Lo sa che sono molto virtuosi?

H: Ricordo poco di Chabrol, da quel film che ho visto, del 1967.

FC: Parliamo del cinema. Che ne pensa della vecchia grande scuola di Hollywood,John Ford, Howard Hawks, William Wellman, Raoul Walsh, George Cukor?

H: Sono registi che in passato hanno dato cose buone, ora molto più raramente. Hanno fatto molto, eccetto tutto. O almeno abbastanza.

FC: Che ne dice della nuova scuola americana?

H: Esiste una nuova scuola americana?

FC: Diciamo: i giovani registi di Hollywood, o ai margini di Hollywood, in attesa dientrare.

H: In genere è gente che dice parole e non compie fatti. Non sa visualizzare un fatto. Molto spesso non sa cosa è il cinema. Non ha mai attuato una ricerca di linguaggio. Ricordo poco di questo cinema.

FC: D’altra parte questo nuovo cinema, diciamo così, è molto ambiguo, non nel sensoche lei dà alle sue immagini ma proprio nell’imposizione, estetizzante, facile, esteriore,con quella fotografia sempre uguale e quelle situazioni molto più canoniche di quellemostrate dalla Hollywood di tanti anni fa.

H: Non hanno tecnica. Nel cinema ci vuole tecnica. Fanno dei carrelli senza motivo, non ragionati, non pensati e quindi non sentiti.

FC: Che ne pensa del suo carrello, all’inizio di Frenzy sul Tamigi, che dà quasi l’impressionedi passare sotto il ponte?

H: È buono.

FC: E di quello all’indietro lungo le scale, sino a scoprire in esterni il mercato generale?

H: È molto buono. Mi è costato molto lavoro. Ma ne sono rimasto soddisfatto.

FC: La sua ricerca linguistica, il suo studio dell’inquadratura e del particolare, puòessere avvicinato alla scuola rivoluzionaria russa, al cine-occhio di Vertov?

H: No. Quella dei russi è un’arte perduta.

FC: Forse. (H. mi guarda dubbioso; si incrociano due sguardi singolari, H. pensosonella cattiveria trionfa di sé, T. commosso e intenerito perché pensa: sì, è genio, avevagià smaltito questa scuola trenta anni fa, o anche prima, all’epoca inglese). Anzi quasisicuramente. Però facevano del cinema.

H: Cinema perduto.

F.: Perché oggi lei dice che in genere il cinema non è più buono?

H: Perché è eseguito da gente che non fa del cinema, che pensa a tutt’altro.

FC: Una volta erano meglio, i registi?

H: Sicuro. Essi imparavano, molto prima di cominciare. Ora cominciano senza saper niente. Credono di imparare per strada. Ma si impara prima. Se no si resta sempre dei dilettanti.

FC: Ma bisognerà pur cominciare una volta o l’altra. Cominciare per imparare, o meglioper perfezionarsi, se no non si comincia mai.

H: Ci vuole tecnica, tenacia ragione e senso del cinema.

FC: Perché in Frenzy le donne sono così brutte?

H: Perché dovevano essere strangolate quasi tutte e non volevo dispiacere al mio pubblico. Del resto adesso le facce da cioccolatino non vanno più di moda…

FC: Ma ad esempio Grace Kelly non è mai stata tanto bella come in Caccia al ladro. EIngrid Bergman era stupenda in Notorius.

H: È vero, erano belle però hanno vinto l’Oscar quando non lavoravano con me, quando erano meno belle, meno truccate e spersonalizzate. Quando Grace Kelly ha recitato ne La ragazza di campagna ha vinto subito l’Oscar.

FC: Erano attrici di qualità, che sarebbero state comunque brave, con o senza la faccia, come lei dice, da cioccolatino.

H: È sempre questione di qualità. La qualità dei miei film non è mai dominata dai contenuti; è lo stile che conta, che li determina e li fa vivere.

FC: Li fa vivere sempre in una luce ambigua, anche per quel che riguarda il temamorale.

H: Ci vuole molto cervello per essere ambigui.

FC: Che ne pensa di Buñuel?

H: È il mio regista preferito. Ho visto molti dei suoi film.

FC: Sono ambigui anche quelli d Buñuel.

H: Sì. Ci chiamano i fratelli ambiguità. (Ride, lo sguardo un po’ tremulo e pauroso).

FC: Ricordando The Rope e il suo piano-sequenza, vorrei, dato che lei sembra non conosceregran che i nuovi registi internazionali, dirle che Micklos Jancso, usa stabilmentela tecnica dei piani-sequenza, da lei utilizzata in quel grande film (dimenticato) chein Italia si chiamava Nodo alla gola (e poi ancora un altro titolo, che non rammento).

H: Grazie d’avermelo detto. Non conosco i film di Jancso. Non so se la sua tecnica sia valida o sia imperfetta e velleitaria.

FC: Cosa è che fa velleitario un film?

H: La verbosità.

FC: La verbosità di intenti o di dialogo?

H: Entrambe le cose. Un film verboso è sempre un film confuso e quindi velleitario e quindi non buono, perché senza tecnica e senza stile.

FC: Che ne pensa del cinema italiano?

H: Ho visto pochissimo, non posso pronunciarmi.

FC: Dicono che nei suoi film c’è sempre la preferenza verso il male.

H: Ho sempre cercato di presentare bene e male in pari misura.

FC: In Frenzy c’è una inquadratura superba, con quella dominante azzurroviola comeMarnie ed è l’inquadratura dall’alto dell’assassino che porta nel sacco il cadavere delladonna verso il camion, dove la caricherà tra le patate. Mi pare un’inquadraturaespressionista, da vecchia scuola tedesca. È un’ arte perduta” anche quella dell’espressionismotedesco?

H: No. Amo molto ad esempio Murnau.

P.S.: Frenzy è ancora una volta un discorso sulla teoria del film, rigoroso, divertito e cattivo. Hitchcock è da “studiare” sempre nei suoi film. Le parole non so se volano. Queste che mi (ci) ha detto sono però rigorose e superbe, e polisense come le sue immagini. Sono superbe perché molto belle, sagge e profonde, e perché sanno di essere superbe.Frenzy è una cosa giusta. Giusta perché fa soffrire e pensare con la saggezza e la moralità del grande creatore distruttore di immagini cinematografiche.

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3 Commenti

  1. mi emoziona la definizione: “arte perduta”.
    e penso che in qualche modo anche il cinema di Hitchcock sta diventando, come quello di molti altri registi, arte perduta.

  2. @francesco pecoraro

    tranquillo francesco, hitchcock viene continuamente citato (vedi Brian De Palma, Tornatore e tantissimi altri); il che dimostra che la sua arte è più viva che mai. Il guaio è che , a volte, quelli che vengono dopo, per un frainteso senso del “paternalismo” nel migliore dei casi, hanno paura a riconoscere le impronte dei maestri( e ho l’impressione che questo avvenga anche qui, su N.I.), disperdendo così, un po’ di memoria storica. Senza la quale, come sai, non si va da nessuna parte.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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