Cip e Ciop in Africa

di Piero Pugliese

Prima di tutto una modalità di viaggiare per me completamente nuova. “La settimana rossa” dei social tourist. Più che vacanze responsabili, un lavoro acrobatico in contesto esotico, su e giù per slum e orfanotrofi.

Alloggio alla Shalom House, giardino recintato con dentro tutto. Mensa, uffici, internet, persino il ristorante italiano. E’ crocevia di una galassia di ngo. Due guardiani in divisa al cancello di ferro. Fuori, strada di terra, fontana dell’acqua con i carretti che riempiono i bidoni. A duecento metri Ngong Road, arteria di ingresso in citta’, coi “matato” pieni di gente e di musica. Il caratteristico odore di copertoni bruciati. A mille metri Nukamatt Junction, oasi di supermercato dove vedi i primi bianchi a loro agio muoversi con buste, coi sacchetti dello shopping, seduti al caffe’. Attorno palazzi a quattro piani, radi, nel verde potente dell’equatore. Col buio non si puo’ uscire a piedi: Nairobi.

Primo giorno, primo giro nel furgone di Gianpaolo, che ci viene a prendere in aereoporto. Ci sono Paul e Michael. Battesimo dello stomaco: pesci del lago Vittoria fritti per strada e passati nel sugo. Nella bettola non ci sono forchette. Bisogna appallottolare la polenta bianca con le mani e inzuppare, mangiare. Ci sono anche Maxell e Kevin. Secondo giro col furgone. Gianpaolo vuole fare le ultime riprese della giornata. Lo slum di Kibera con la luce del tramonto dietro e “il sole non aspetta”. Prima alla stazione di servizio: un tubo del radiatore perde vapore, viene fasciato con le strisce di una camera d’aria. Poi nel traffico, lo smog ti prende alla gola. Si discute su dove piazzare la telecamera, si decide dietro al carcere femminile. Gianpaolo realizza un documentario e forma un gruppo di ragazzi cresciuti nella parte sfortunata di Nairobi: cameramen, assistenti, fonici, autori, giornalisti; si fa formare da loro a stare con le persone, a entrare in confidenza, a trattare. Non pare disorientato dalla guida a destra, dalle brusche sterzate, dalle precedenze mancate, dalle traverse interne tutte una buca. Arriviamo tardi, il sole non aspetta. E il tramonto qui è piu’ veloce.

Secondo giorno incontriamo i ragazzi che dobbiamo pure noi formare. L’idea degli europei che vengono a insegnare (questo vale solo per noi) è la cosa che da subito ci fa e non smetterà di farci ridere. All’inizio l’impresa appare ciclopica. C’è il prezioso Michael, appena diplomato in un collegio dell’area rurale di cui è originario: ha il tesserino di giornalista. C’è Didi, un piccoletto dall’aria pedante e la maglietta in tono, fa musica, è stato in Italia un paio di volte, a Matera per un mese “dove la gente vive sottoterra”. C’è Octopizzo, una star del rap locale, con tanto di catenone e bracciali, che mi allunga il disco autoprodotto. C’è la sua spalla, Kevin, con la bandana sulla testa, la faccia ampia e sorridente, “slum dog” cane da bidonville è il suo nomignolo. Sono giovanissimi, hanno ventidue, ventitre anni. C’è Clemence, una ragazza minuta, profuga ruandese, in un vestitino della festa, con una specie di breviario in mano (siamo pur sempre in una delle basi dei comboniani in citta’ ed è domenica, sotto la volta di lamiera della chiesa di St. Vincent Pallotti, appena qui fuori, centinaia di famiglie pregano e cantano da ore) . Piu’ tardi, trafelato, arriva Daniel, bello, magro, coi dred corti, ha impiegato piu’ di un’ora dallo slum di Korogocho. Li invitiamo tutti a pranzo alla mensa, qui si usa cosi’.

Per mail da Roma abbiamo chiesto a questo gruppo di persone di andare in giro con un registratore per raccogliere suoni e testimonianze di amici, nonni e genitori su un tema: l’indipendenza del Kenya. 1963. Memoria e presente. L’anniversario, festa nazionale, cade il 12 dicembre, data del nostro volo di ritorno. L’obiettivo è di realizzare un audiodocumentario con questi materiali e proporre a qualche radio di Nairobi di trasmetterlo proprio quel giorno, Jamhuri Day Celebration. (Uhuru, impareremo presto inseguendo i discorsi in swahili, significa libertà). L’idea è di lavorare insieme a qualcosa di concreto, un prodotto, una cosa da mandare in onda. Provare così a insegnare, e a imparare, mettendoci all’opera intorno a quindici minuti di radio sul campo, tra documentario, reportage, racconto e assemblea pubblica. In una settimana, sembra fattibile, forse. Cominciamo ascoltando tutti insieme le interviste realizzate dai ragazzi, divisi in quattro gruppi hanno battuto diversi slum della città (Kibera, Kawangware, Kaibiria, Korogocho): la ciccia c’è. I ragazzi hanno fatto un buon lavoro. Hanno messo a frutto il corso (una settimana!) di Andrea Dal Piaz un mese fa, sugli elementi di acustica. Su come usare l’attrezzo messo a disposizione da Gianpaolo. Ci sono anche i fondi d’ambiente. Sembra fatta, al massimo lo montiamo noi, e il caldo mette buon umore. Gli chiediamo di scartare il superfluo, poi bisogna pulire le clip, dargli un nome, raggruppare per temi. Lorenzo comincia a farsi tradurre dallo swahili e mette sul blocco degli appunti. Io vado su e giu’. Dalla stanza tre per due, al giardino di vetro sotto. Gianpaolo si vede solo a tarda sera, dopo una notte di dolore al ventre, ma in piedi.I pesci fritti? Innocenti. Sara’.

Terzo giorno ci cerca padre Kizito. Occhi azzurri nel bianco della barba e dei capelli lunghi è il fondatore della Shalom House. E’ la luce di tutti quelli che ha intorno. In macchina, c’è Jack, “guardia del corpo” tuttofare, sa il fatto suo, non guarda nessuno ma vede tutto. Kizito guida nello slum di Kibera, catapecchie di fango e lamiera, strade di terra montagne russe, ai lati vendono frutta, aranciate e coca-cola, pezzi di bicicletta. Visita ai ragazzini del Drop-in, centro di primo contatto per accogliere in una struttura gli street-child. Ragazzini senza famiglia che vivono di elemosina, raccolta dei rifiuti, che si fanno di colla e dormono per strada. Queste sono le parole. Poi scendi dalla macchina e ti vengono incontro, li abbraccia, si fanno vicini, ti toccano i peli per sentire che ci sei, vogliono strette di mano; il microfono non c’è, se non per giocare, per chi tifi? Per il Manchester, per l’Arsenal, per il Barcellona… e il Napoli? Non sanno che sei, ma che ci sei si’. (They care, they share). Rito. Riuniti in una stanza dicono a turno il nome, che cosa gli piace. Studying, playing football, mangiare-mangiare. Uno da grande vuole fare il ministro dell’educazione. Poi tocca a noi. Siamo qui. Siamo i nostri due nomi. Lavoriamo per la radio italiana e vi vogliamo bene. Parole. Venire via è sentire due vuoti e un pieno. Mancanza perduta e speranza. E sopra e sotto il lavoro di questo infaticabile missionario che non li molla. Promettiamo di tornare. Parole. Parole che in Africa pesano niente.

Nel pomeriggio sudore digitale nella stanzetta tre per due. Gli allievi sono di meno ma il lavoro avanza. Nessuno porta la chitarra e il tamburo per registrare il brano musicale sull’indipendenza per la colonna sonora, ma il lavoro avanza. Cemence ascolta, Michael comincia a pulire le voci, la star del rap non si fa vedere, Didi parla ad alta voce nel telefono, Lorenzo scrive, io vado su e giu’. A sera Gianpaolo e i suoi, gladiatori carichi di cavalletti, microfoni, telecamera grande e piccola. La stanzetta si riempie di nuovo di riversamenti, racconti, programmi per il giorno dopo. Discorsi.

Quarto giorno in centro per la prima volta in autobus da soli. Per visitare, vedere che citta’ è. Piccola, caotica, forse brutta. Il Parlamento, il mausoleo a Kenyatta “assiso con il bastone del comando in mano”. La guida Rough consiglia, nascosta dietro i pantaloni. Pomeriggio sudore digitale. Prende forma pure la stanchezza. Troppe lingue, troppo poche le casse per sentire i computer. Io vado troppo su e giu’. Ma il lavoro avanza. Abbiamo trovato una canzone deliziosa di Daniel per la sigla, un rap registrato in camera senza musica per la colonna sonora, una voce di nonna, “sho-sho”, in piu’. Tutti si ricordano: l’indipendenza, meglio o peggio, il coraggio, potersi muovere liberamente, togliere il cartellino appeso al collo dagli inglesi. Torna Gianpaolo dalla discarica di Dandora, e con il suo modo triestino di arrotondare la –ora, torna pure il buon umore. Ha girato a quaranta metri da loro, i dannati del girone del riciclo. Bambini, donne, giovani uomini. Mucche, cicogne africane, maiali. Aspettano che scarica il camion con le buste gialle o arancioni e con dei ferri a uncino dividono, smaltiscono, riempiono sacchi a spalla. “Adesso trova il mango e lo mangia”. Discorsi. Domani vado con lui.

Quinto giorno due ore di traffico per arrivare nella zona industriale. Il microfono e’ aperto. Gianpaolo racconta, evita una macchina alla rotonda, c’è Paul gli spiega le domande da fare. Tra le fabbriche e lo slum di Lunga Lunga parcheggia. Ecco il protagonista del suo film. Chief. Nel suo Industry Hotel. Negli hoteli, “bettole”, si mangia con 40 centesimi su un salario di un euro e 20. Chief ne fa pagare 20. Un benefattore? No, è Chief. Noi siamo “amigo”. Loro mangiano, noi le riprese, il microfono è aperto. Poi anche noi, e per “amigo” forchette e bibite. Gianpaolo decide di aspettare il tramonto. La gente a piedi lascia le fabbriche, saluta, Chief contempla il traffico. La telecamera sopra il furgone, il buio. Chief accende un fuoco, si addormenta, la luce al quarzo si spegne. Black out in sala, torniamo. Lorenzo ha quasi finito. Si riversa, si ascolta, al ristorante italiano Paul mangia la pizza con le posate e io non posso protestare.

Sesto giorno nel cuore di Kibera, col matato, il numero 8 e da qui il nome del rapper: Octopizo. Radio Pamoja. All’ultimo piano dell’edificio si tocca la moschea. In diretta alle 13.00 dopo le notizie della BBC. Domande in inglese e in swahili. C’è Kevin che puo’ spiegare il senso dell’operazione. Il ventilatore disturba, ma il microfono è aperto. Nello studio tutti senza scarpe. Ascoltatori. L’ospedale pubblico è aperto dalle alle. Una radio comunitaria di quartiere. Alle 14.00 tutti dal direttore, biglietti da visita, complimenti, parole. In strada Kevin mi chiede 100 scellini. Pomeriggio, il lavoro è finito. Ci lasciamo guidare dai suoni nel flusso delle parole in swahili. La motocicletta che passa, il vociare indistinto, quello che scava, un martello in sottofondo. Per miracolo censuriamo all’ultimo una frase dal rap di Octopizzo. Freedom di questo, di quello, di farsi le canne. Non disperiamo di portare l’audio-doc anche alla piu’ grande radio comunitaria cristiana, che si sente in tutto il Kenya. E certe frasi, si sa, non sta bene. In mente, nel sonno, la chitarra della canzone di Daniel, la sigla.

Settimo giorno Radio Waimini. Col CD in tasca. Guida d’eccezione Paul il piccolo, molto cool, felpa ufficiale degli allenatori di calcio italiani. E’ il giorno precedente la festa nazionale, è il giorno dei controlli della polizia sul numero massimo di passeggeri nei matato, è un giorno tipo sciopero della metro con pioggia a Roma. Alle 12.00 disperiamo. Alle 14.00 siamo in una strada di polvere davanti ai cancelli della radio, dopo un bagno di reggae nel secondo matato. Turbo. Rivestito in pelle. Con i tubolari per maniglie. Entriamo nel giardino che qui è piu’ grande della Shalom House. Il Direttore, father Martin, ci riceve. Ascolta il disco con le mani sul capo. Perche’ a un wazungu, a un bianco, interessa l’indipendenza? A bruciapelo Lorenzo risponde. Bene. La chitarra di Daniel si distende nella sigla di coda. Padre Martin dice si’. Dice stasera e domani. Da’ disposizioni, ci saluta, ci offre una soda. Siamo felici. Quanto in ritardo. Di corsa, con Paolino che è calmo persino affrettato, all’ appuntamento con padre Kizito. Visita all’orfanotrofio nello slum di Kivuli. Di nuovo il rito. Dicono il nome e quello che gli piace. Poi uno spettacolino tutti insieme. Qui sono al sicuro, un passo avanti rispetto al Drop-in, dove la vita di strada è cosa di ieri. Qui spettacolino. Con le palle da tennis, con un ramo in bocca e due bottigliette in equilibrio. Qui scuola, orari, nel pomeriggio taekwondo e forse da grande nella nazionale di calcio. Come Kelvin, che ora studia sociologia. La sera, il radio-doc veramente va in onda. 99.4 radio Waimini FM. E non c’è birra che tenga: si lavora, si scrivono mail, Discorsi. Parole.

12 dicembre, Uruhru Day. La mattina della partenza. Come recapitare il CD a Radio Pamoja, fare la valigia, salutare tutti, fare le ultime interviste, comprare le collanine fatte con la carta da Maxell, mangiare in un boccone l’ultima volta alla mensa e arrivare in aereoporto tre ore prima del volo. C’è il discorso del presidente allo stadio in tivvu’. Ai semafori vendono bandierine del Kenya. Scalo Addis Ababa, E’ gia buio. Arrivo a Fiumicino è ancora buio. E’ domenica, non è festa nazionale, ma sono le quattro del mattino. Contro i nostri principi, decidiamo all’unanimita’ che possiamo concederci un taxi. A casa ancora col buio non c’è piu’ Roberto Sasso, non c’è RaiStereoNotte ad accogliermi come di ritorno dai grandi viaggi. Ma scrivo.

[Il workshop sull’audiodocumetario con i ragazzi degli slum di Nairobi e’ un progetto di MediaAid]

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5 Commenti

  1. Grande Piero, c’è tutto: la voglia di fare, l’ottimismo del volere e il dubbio che (forse) non serve a niente, che bisognerebbe stare “lì” per anni …

  2. Bravo Piero, che bel racconto! Su e giu’, su e giu’, su e giu’, ci dimostri come anche la radio puo’ avere una piccolissimissima missione civile.

  3. grazie a piero pugliese per avere scritto, e prima vissuto, ..”con le palle da tennis, con un ramo in bocca e due bottigliette in equilibrio…”….
    E’ un romanzo questo racconto, la migliore narrativa deve essere ancora scritta o inizia quando leggi un “resoincontro” come questo. Che complicata e felice ricerca, quanta preziosa ed essenziale materia non è consumabile perchè parla di ieri come di oggi

  4. letto ora con colpevole ritardo. bello il racconto, bello lo sguardo “africano” di pugliese e la sua vitale, leggere e possibile radioafrica.

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